Riedizioni

La Voce ripubblica un pezzo datato del direttore, già su "Vele spiegate" del marzo 2003

Omaggio a don Emilio Salatino. Il pezzo uscì sul periodico della parroccchia di Santa Lucia, guidata dal "sacerdote salato"
giovedì 5 maggio 2005.
 

San Giovanni conta più di ventimila abitanti. È una città, ci sono tanti laureati, professionisti da tempo, cattolici e praticanti. Ci sono situazioni difficili: manca il lavoro, molti giovani sono svogliati, la comunicazione e la solidarietà non si trovano ad un livello maturo. Senza fingere, nel tempo dell’informazione e della conoscenza, sopravvivono pregiudizi storti, chiusure, superstizioni. Qui, non si vuole demolire. Si cerca, anzi, di invogliare, spronare, sperare. Bisogna riconoscerci una bassa reattività agli stimoli, alle novità, alle proposte. Se impariamo dai limiti e dagli errori, possiamo costruire una società più libera e consapevole. Il problema, penso, sta proprio nella strana idea di libertà, in termini generali, e, pertanto, nella sua pratica anomala. Da diversi anni, s’è perso lo spirito di collaborazione e partecipazione successivo alle guerre mondiali del Novecento. La povertà avvicinava. Ne ho discusso più volte, a Milano, con una grande educatrice, Rosanna De Paola. Ora, si spende per quanto non si guadagna. Il progresso è arrivato d’un tratto, sempre in ritardo, nella forma di ansimante invito al consumo. C’è una evidente omologazione allo standard, al modello tipico - e ritenuto vincente - di famiglia, anzitutto capace di acquistare immobili e beni di lusso e soddisfare le richieste di figli annoiatamene esigenti. In un contesto del genere, di piccolo isolamento, nel quale è difficile stabilire relazioni edificanti, non ci può essere integrazione delle diversità né sintesi di contributi sociali, politici, culturali. Va considerata, assieme, la mancanza di strutture e spazi di formazione sociale, non soltanto fisici. Oltretutto, si deve aggiungere la scarsa propensione alla critica e al confronto. A riguardo, basti un esempio su tutti. La ragione per cui è impossibile, qui, lo svolgimento d’una seria attività artistica sta nell’inutile conflittualità e antipatia fra gruppi musicali, teatrali, di danza. L’incontro genera idee e prospettive altre. A qualsiasi livello, esso è indispensabile per l’autonomia personale. Concretamente, il concetto imperante di libertà esclude la condivisione, la rinuncia, l’accettazione, la corresponsabilità, la modulazione e la convergenza di ideali, principî, valori e volontà diversi. In altre parole, la libertà è vista come “la mia libertà”, con esclusione della dimensione collettiva. Invece, c’è bisogno di allargare il campo delle relazioni. “Non ci sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21, 4). In Verso Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 2002, scrive Carlo Maria Martini: “È a partire da questo testo, così caro ai grandi profeti cristiani di questo secondo millennio, da Gioacchino da Fiore a Giorgio La Pira, che appare chiaro il principio biblico enunciato da Harvey Cox, secondo il quale la storia umana va verso una città”. Il passo biblico rinvia alle grandi utopie sulla città, inclusa quella del nostro Tommaso Campanella. E, soprattutto, si può raffrontare con una certa sociologia della protesta, specie quella di Massimo Ilardi, che considera l’ambito metropolitano come l’unico entro cui si possono realizzare uguaglianza, democrazia e libertà. La storia della città occidentale è densa di conflitti. Se questi determinavano nuovi orientamenti morali e modali, in grado di concentrare le spinte di trasformazione, i mezzi di comunicazione hanno prodotto, oggi, un’omogeneità di pensiero in tessuti socio-culturali estremamente dissimili. La logica dominante è l’individualismo possessivo: sei, se possiedi per te. In un piccolo centro come il nostro, questo si carica di altri elementi: arrivismo, egoismo, assenza di regole etiche e motivazioni sociali. Bisogna, invece, credersi città. Basta con le tare da paesino. Bisogna aprirsi alle strade, agli spazi di libertà pubblica, all’organizzazione partecipata. Ci vuole la curiosità e il confronto della piazza. Si deve lasciare il retaggio della paura e della sottomissione, la falsa etica del dover essere, quella per cui la forma conta più della sostanza. Più che giudicare impropriamente e coprirsi le spalle, più che chiudersi tra mura, si deve ragionare in termini di reti di solidarietà. Occorre stabilire delle connessioni sulla base di un comune sentire. I criteri razionali valgono quando c’è la passione. E la fede? La fede anima le coscienze, muovendole al sacrificio, alla dedizione, al progetto sociale. Si devono cancellare superstizioni e competizioni. Vivano anima e comunione. Proprio in città, a San Giovanni.

Emiliano Morrone


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