AL VIA AD ATENE IL FORUM MONDIALE SU INTERNET *
ATENE - E’ iniziato stamane a Vouliagmeni, una località a 30 chilometri da Atene, il primo ’Forum mondiale sul governo di Internet’ (Fgi), un appuntamento storico per la rete sia per ampiezza di partecipanti che di tematiche in discussione. Patrocinato dalle Nazioni unite, il Forum riunisce infatti i rappresentanti di 90 paesi, di aziende che operano nella Rete (Yahoo!, Google, Microsoft ecc), di istituti internazionali (Ue, Consiglio d’Europa, Ocse), di organizzazioni in difesa dei diritti umani (Amnesty International). Milleduecento persone che per quattro giorni si confronteranno su tematiche come la cybercriminalità, la lotta allo spam, la libertà di espressione sulla Rete, l’accesso a Internet, la censura ecc.
E’ la prima volta, dopo l’ultimo Vertice mondiale sulla società dell’informazione, lo scorso anno a Tunisi, che istituzioni internazionali, rappresentanti del settore privato e della società si parleranno su un piano di parità. I lavori sono stati aperti dal premier greco, Kostas Karamanlis, che ha definito Internet una delle sfide più importanti dei nostri tempi e si è detto orgoglioso perché il primo tentativo per rendere la rete più accessibile a tutti, si svolge in Grecia. Il Ministro per i Trasporti, Michalis Liapis, ha dichiarato che obiettivo del Forum, che da ora in poi si svolgerà ogni anno, è di promuovere e facilitare il dialogo multilaterale e la formazione di un organismo non governativo, che controlli, il funzionamento di Internet.
* www.ansa.it/opencms/export/main/visualizza_fdg.html_2022376702.html
Governance di Internet, prove di democrazia elettronica*
Alla fine del mese di ottobre, su iniziativa del Segretario Generale delle Nazioni Unite a seguito del Summit mondiale sulla Società dell’Informazione di Tunisi (Wsis), si svolgerà ad Atene la prima riunione del Forum sulla Governance di Internet.
"Governance" sembra un parolone vuoto ma significa un sistema di governo, meglio ancora di regole costituenti se non addirittura costituzionali, che ricerchi attivamente il concreto coinvolgimento dei cittadini.
I temi in discussione saranno quattro: libertà di espressione, sicurezza, rispetto delle diversità e accesso per tutti.
Proprio oggi la Commissione europea ha accolto positivamente la decisione del Governo americano di rendere indipendente entro il 2009 l’Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), la società Usa che gestisce i domini Internet.
Sembra una questione strettamente tecnica, ma è diventata politica. Perchè nonostante nel frattempo Internet sia diventata internazionale e di tutto il mondo, l’Icann - che è nato per controllare gli indirizzi Internet con il suffisso ’.com’ - dipende ancora dal Dipartimento del commercio statunitense, cioè il governo Usa.
Che solo venerdì scorso - in occasione del rinnovo del contratto - ha annunciato che allenterà la presa sulla società (niente più rapporti semestrali), mantenendone il controllo per altri tre anni con l’idea di mollarla completamente entro il 2009.
Un comunicato della Commissione Ue diffuso oggi spiega che con questo accordo Icann potrà scegliere in autonomia i temi su cui lavorare.
«Sono soddisfatta della volontà dichiarata dal Governo Usa di concedere maggiore autonomia alla Icann e di porre fine al monitoraggio della gestione giornaliera di Internet nei prossimi tre anni», ha commentato la Commissaria Ue alla Società dell’informazione e i media, Viviane Reding. «Questo è un passo molto importante verso una gestione completamente privata di Interent», ha proseguito, sottolineando che Bruxelles lavora a questo obiettivo con le varie amministrazioni americane dal 1998. «La Commissione europea seguirà da vicino la transizione della Icann verso la piena indipendenza nei prossimi tre anni», ha concluso la Reding, per assicurarsi che essa verrà realizzata in modo «trasparente» e nell’interesse di tutti.
Ma cosa cambia x gli utenti di Internet con l’annuncio che l’Icann non sarà piu’ supervisionata dal governo Usa entro il 2009? Quali sono le ricadute economiche e sulla libertà dei cittadini digitali?
1) La ricaduta riguarda la salvaguardia del concetto di Neutralità della Rete, in cui tutte le informazioni sono cieche e indistinguibili e per questo hanno uguale priorità e non vengono selezionate da un Grande Fratello che controlla i contenuti: deve continuare a esistere una sola Internet e va colmato il divario (cosiddetto digital divide) tra chi a questa unica grande Rete ha l’accesso e chi no.
Perché Internet è un Bene Comune, è di tutti noi.
Sarebbe ingiusto e pericoloso se si creasse una corsia preferenziale per gli utenti paganti.
In questo senso la ricaduta è economica.
(Per quanto riguarda il costo di registrazione dei domini Internet, non cambierà invece gran che).
2) Ma la ricaduta riguarda anche e soprattutto la salvaguardia della libertà sulla Rete: perché contro la Neutralità di Internet ci sono tutte le dittature, prime fra tutte la Cina, che solo l’anno scorso ha fatto chiudere 12.500 blog e continua a imprigionare i cyberdissidenti.
Per questo è importante che l’organo di governo dei protocolli e dei domini che dispone gli accessi a Internet resti una realtà indipendente non governativa.
L’Onu si era proposta come alternativa: ma è una realtà burocratica che non è in grado di prendere decisioni rapide, mentre Internet - si sa - richiede innovazione continua e grande velocità e flessibilità.
Per questo ad Atene dal 30 ottobre al 3 novembre si terrà il Forum sulla Governance di Internet, fortemente sostenuto dall’Unione europea, che è il risultato di un lungo lavoro internazionale iniziato a Ginevra e continuato poi a Tunisi l’anno scorso.
E per questo l’Italia ha costituito il Comitato sul futuro di Internet composto da otto fra i massimi esperti italiani coordinati dal prof. Stefano Rodotà, che aiuteranno il Ministro per le Riforme e le Innovazioni nella Pubblica Amministrazione Luigi Nicolais a presentare le linee guida sulle tematiche di Internet di cui si parlerà ad Atene.
Sul sito del ministero, chiunque sia interessato al futuro della rete può partecipare via Internet ad una delle prime consultazioni pubbliche online varate dal Governo italiano. Dimostrazione che la democrazia elettronica, come la libertà, è questo: partecipazione.
Infatti per coinvolgere la società civile con una consultazione pubblica, il ministro Nicolais ha convocato e presiederà un’assise che si svolgerà a Roma il 12 ottobre, dalle ore 10 alle 17.30, presso la Sala delle Conferenze del Garante per la protezione dei dati personali a Piazza di Monte Citorio, 123 A. La partecipazione all’evento è aperta a tutti i cittadini ed ai rappresentanti delle organizzazioni italiane interessate ai temi in discussione, nei limiti della capienza della sala. Già a partire dal 1 ottobre è possibile registrarsi anticipatamente online sul sito Internet del Ministro. Ma per assicurare comunque a tutti la possibilità di contribuire al dibattito, sempre a partire dal 1 ottobre alle ore 12, è aperta sullo stesso sito una consultazione pubblica virtuale. E per chi non riuscisse a partecipare attivamente, i lavori dell’assise del 12 ottobre saranno comunque visionabili, perchè trasmessi in diretta video streaming. Su Internet.
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* WEB NOTES di Anna Masera www.lastampa.it/masera/ -2/10/2006
LE IDEE
I sette peccati capitali di Internet (e le sue virtù)
di STEFANO RODOTA’ *
Qual è il destino dei parlamenti nell’età dell’informazione e della comunicazione? Alcuni anni fa, quando cominciò il dibattito sulla democrazia elettronica, sembrava che le nuove tecnologie avrebbero portato ad una progressiva scomparsa della democrazia rappresentativa, sostituita da forme sempre più diffuse di democrazia diretta. Nel nuovo agorà elettronico i cittadini avrebbero potuto prendere sempre la parola e decidere su tutto.
La memoria dell’antica Atene e il modello dei town meetings del New England apparivano come la forma nuova della democrazia, con un intreccio tra antico e nuovo che avrebbe via via cancellato il ruolo dei parlamenti. Oggi queste ipotesi sono lontane, e la democrazia elettronica segue strade diverse da quelle di una brutale e ingannevole semplificazione dei sistemi politici. Ma questo non vuol dire che i parlamenti possano trascurare le grandi novità determinate dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che incidono profondamente sul loro ruolo e sul modo in cui si struttura il loro rapporto con la società. Non siamo di fronte a semplici strumenti tecnici, ma ad una forza potente, la tecnologia nel suo complesso, che sta trasformando in modo radicale le nostre società.
Stiamo passando, su scala mondiale, da un equilibrio tecnologico all’altro. Il primo, grande compito dei parlamenti, oggi, è dunque quello di cogliere questo momento, di compiere tempestivamente le scelte intelligenti necessarie perché l’insieme delle tecnologie si risolva in un rafforzamento complessivo della democrazia.
Sono divenute chiare alcune linee di analisi e di intervento, che possono essere così riassunte:
evitare che le nuove tecnologie portino ad una concentrazione invece che ad una diffusione del potere sociale e politico;
evitare che le nuove tecnologie si consolidino come la forma del populismo del nostro tempo, con un continuo scivolamento verso la democrazia plebiscitaria.
evitare che ci si trovi sempre più di fronte a tecnologie del controllo invece che a tecnologie delle libertà;
evitare che nuove disuguaglianze si aggiungano a quelle esistenti;
evitare che il grande potenziale creativo delle nuove tecnologie porti non ad una diffusione della conoscenza, ma a forme insidiose di privatizzazione.
Pure l’età digitale, dunque, ha i suoi peccati, sette come vuole la tradizione, e che sono stati così enumerati: 1) diseguaglianza; 2) sfruttamento commerciale e abusi informativi; 3) rischi per la privacy; 4) disintegrazione delle comunità; 5) plebisciti istantanei e dissoluzione della democrazia; 6) tirannia di chi controlla gli accessi; 7) perdita del valore del servizio pubblico e della responsabilità sociale. Non mancano, tuttavia, le virtù, prima tra tutte l’opportunità grandissima di dare voce a un numero sempre più largo di soggetti individuali e collettivi, di produrre e condividere la conoscenza, sì che ormai molti ritengono che la definizione che meglio descrive il nostro presente, e un futuro sempre più vicino, sia proprio quella di "società della conoscenza".
Al di là delle immagini e delle metafore, i parlamenti non sono chiamati a scegliere tra il bene e il male. Di fronte ad una realtà complessa, nella quale convivono società della conoscenza e società del rischio, i parlamenti non sono chiamati scegliere tra bene e male. Devono ribadire la loro storica e insostituibile funzione di custodi della libertà e dell’eguaglianza. Non sono riferimenti retorici. La tecnologia è prodiga di promesse.
Alla democrazia offre strumenti per combattere l’efficienza declinante, e arriva fino a proporne una rigenerazione. Ma, se guardiamo al mondo reale, alle tendenze in atto, rischiamo di incontrare sempre più spesso un uso delle tecnologie che rende capillare e continuo il controllo dei cittadini. A queste tendenze bisogna reagire, non solo per sfuggire ad una sorta di schizofrenia istituzionale che spinge verso la costruzione di un mondo diviso tra le speranze di libertà e l’insidia della sorveglianza. E’ necessario soprattutto considerare realisticamente le dinamiche sociali, a cominciare da quelle che rischiano di produrre nuove diseguaglianze.
Questo problema viene solitamente indicato con l’espressione digital divide, ed effettivamente l’uso delle tecnologie, di Internet in primo luogo, produce stratificazioni sociali, l’emergere di nuove categorie di haves e di have nots, di abbienti e non abbienti proprio per quanto riguarda la fondamentale risorsa dell’informazione. Ma le più attendibili ricerche sul digital divide mettono in evidenza che il divario tra paesi sviluppati e paesi meno sviluppati, per quanto riguarda l’accesso ad Internet, non può essere esaminato riferendosi prevalentemente alle differenze di reddito. Pur rimanendo profondissime, infatti, le distanze riguardanti Internet tendono a ridursi più rapidamente di quelle relative alla ricchezza.
Questo vuol dire che i fattori influenti non sono tanto quelli economici, quanto piuttosto quelli sociali e culturali.
Conoscenza è parola che sintetizza le possibilità di accedere alle fonti, di elaborare il materiale, raccolto, di diffondere liberamente le informazioni. Già nell’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite si è affermato il diritto di ogni individuo alla libertà di opinione e di espressione "e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere". Oggi questo diritto è in pericolo per la pretesa di molti Stati di controllare Internet, per l’esercizio di veri poteri di censura, per le condanne di autori di quelle particolari comunicazioni in rete che sono i blog.
Questa situazione non può essere ignorata, soprattutto perché alcune grandi società - Microsoft, Google, Yahoo!, Vodafone - hanno annunciato per la fine dell’anno la pubblicazione di una "Carta" per tutelare la libertà di espressione su Internet. I parlamenti non possono accettare che la garanzia del free speech, che gli Stati Uniti vollero affidare al Primo Emendamento della loro Costituzione, divenga materia di cui si occupano solo i privati, che evidentemente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi. Internet è il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, dove si sta realizzando anche una grande redistribuzione di potere. Un luogo dove tutti possono prendere la parola, acquisire conoscenza, produrre idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, dialogare, partecipare alla vita comune, e costruire così un mondo diverso di cui tutti possano egualmente dirsi cittadini.
Ma tutto questo può diventare più difficile, per non dire impossibile, se la conoscenza viene chiusa in recinti proprietari senza considerare proprio la novità della situazione che abbiamo di fronte e che impone di guardare alla conoscenza come il più importante tra i beni comuni.
La questione dei beni comuni è essenziale. Parole nuove percorrono il mondo - open source, free software, no copyright - dando il senso di un cambiamento d’epoca. Oggi, infatti, il conflitto tra interessi proprietari e interessi collettivi non si svolge soltanto intorno a risorse scarse, in prospettiva sempre più drammaticamente scarse come l’acqua. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l’effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di "chiusura" simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili. Questa scarsità artificiale, creata, rischia di privare milioni di persone di straordinarie possibilità di crescita individuale e collettiva, di partecipazione politica.
La sfida lanciata ai parlamenti non riguarda soltanto la necessità di trovare nuovi equilibri tra logica della proprietà e logica dei beni comuni. Investe lo stesso modo d’intendere la cittadinanza. La vera novità democratica delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, infatti, non consiste nel dare ai cittadini l’ingannevole illusione di partecipare alle grandi decisioni attraverso referendum elettronici. Consiste nel potere dato a ciascuno e a tutti di servirsi della straordinaria ricchezza di materiali messa a disposizione dalle tecnologie per elaborare proposte, controllare i modi in cui viene esercitato il potere, organizzarsi nella società. Con questo vasto mondo - in cui la democrazia si manifesta in maniera "diretta", ma senza sovrapporsi a quella "rappresentativa" - i Parlamenti devono trovare nuove forme di comunicazione, attraverso consultazioni anche informali, messa in rete di proposte sulle quali si sollecita il giudizio dei cittadini, procedure che consentano di far giungere in parlamento proposte elaborate da gruppi ai quali, poi, vengano riconosciute anche possibilità di intervento nel processo legislativo.
La rigida contrapposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta potrebbe così essere superata, e la stessa democrazia parlamentare riceverebbe nuova legittimazione dal suo presentarsi come interlocutore continuo della società. In questa prospettiva, i parlamenti debbono soprattutto impedire che le esigenze di lotta a terrorismo e criminalità e le richieste del sistema economico portino alla nascita di una società della sorveglianza, della selezione e del controllo, alterando quel carattere democratico dei sistemi politici di cui proprio i parlamenti sono i primi ed essenziali garanti. Proprio le tecnologie, con la loro apparente neutralità, hanno rafforzato le spinte verso la creazione di gigantesche raccolte di dati personali.
La politica sta delegando alla tecnica la gestione dei più diversi aspetti della società, dimenticando, ad esempio, un principio chiaramente indicato nell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In questa norma si ammettono limitazioni dei diritti per diverse finalità, compresa la sicurezza nazionale, a condizione però che si tratti di misure compatibili con le caratteristiche di una società democratica. I parlamenti devono esercitare con il massimo rigore questa funzione di controllo, senza delegarla ad altri organi dello Stato, fossero pure le corti costituzionali. Solo così possono evitare la trasformazione dei cittadini in sospetti, ed impedire che, con l’argomento della difesa della democrazia, sia proprio la democrazia ad essere perduta.
-Questo è il discorso
che Stefano Rodotà
ha tenuto a Montecitorio
per l’apertura della
Conferenza internazionale
dell’Unione interparlamentare
* la Repubblica, 6 marzo 2007
Digital divide, quando la rete divide
di Luigina D’Emilio *
«Se il governo non prepara un progetto globale per il superamento del divario digitale (la disparità esistente nell’accesso alle nuove tecnologie) e non lo realizza nell’arco dei prossimi due-tre anni il nostro Paese avrà seri problemi di competitività e di crescita nel campo delle new techonlogy». L’allarme è stato lanciato dal ministro delle comunicazioni Paolo Gentiloni nell’ambito del convegno: Comunicazioni che uniscono e reti che dividono, lo sviluppo della larga banda, tra multimedialità e digital divide. «In un Paese come il nostro dove il digital divide è una realtà più che un rischio per oltre il 10% della popolazione questo fenomeno non si può e non si deve sottovalutare», spiega il ministro.
Proviamo a fare i conti perché, se a qualcuno questa percentuale sembra esigua è bene sapere che quel 10% si traduce in oltre 4000 Comuni, la metà dei comuni del nostro Paese, che non sono coperti da nessun servizio e dove la banda larga non è neanche in progetto. Eppure, dati alla mano, la diffusione della banda larga sta procedendo a ritmi sostenuti trainata dalla crescente richiesta di servizi ad elevato contenuto multimediale, sopratutto di intrattenimento, ma anche di pubblica utilità e didattici. Il problema è che in un ottica di puro mercato l’offerta di infrastrutture e di servizi tende a concentrarsi in aree a maggiore densità abitativa, che possono garantire più traffico.
Qual è la conseguenza diretta? In assenza di azioni mirate e incentivi adeguati, che una parte significativa del territorio nazionale, e quindi della popolazione che lo abita, possa essere tagliata fuori. In un circolo vizioso, non si può neanche appiattire l’offerta o ritardare lo sviluppo solo per limitare il rischio di questa discriminazione. Eppure si sa che le imprese ragionano solo in termini di profitto, quindi come consentire uno sviluppo equilibrato a tutti i livelli?
Le risposte così come le proposte che emergono dal convegno sono tante e diverse. Tutti gli addetti ai lavori sono concordi nell’affermare che è lo Stato deve farsi promotore della domanda cercando di capire quali sono i servizi che gli utenti richiedono e come distribuirli. La condizione attuale non è delle più promettenti perché mancano anche le infrastrutture più elementari che per essere costruite necessitano di investimenti importanti che non arrivano ne dal pubblico ne dal privato eppure la tecnologia abilitante per eliminare o almeno arginare il divario digitale sembra esistere già e porta il nome di Wi-max ( una tecnologia wireless conforme agli standard che fornisce connessioni a banda larga su lunghe distanze e che può essere utilizzata per diverse applicazioni).
Ed è proprio qui che lo Stato deve mettersi in gioco, senza sostituirsi alle imprese, ma pilotando la domanda e facendosi diretto promotore del Wi-max . Un esempio è l’iniziativa portata avanti per realizzare la rete del Mugello in provincia di Firenze. Il progetto è frutto di una gara pubblica: il bando ha stabilito la realizzazione della rete da parte dell’operatore assegnatario dell’appalto. La rete, di proprietà della Pubblica Amministrazione (P.A.), è stata poi assegnata nella gestione all’operatore stesso che diviene quindi il beneficiario dei guadagni derivanti dai servizi. Questo è un caso in cui la sinergia tra pubblico e privato funziona perfettamente: la P.A. promuove la rete e i servizi e l’operatore ha il suo profitto, quindi è incoraggiato ad investire.
C’è la possibilità però che certi esempi rimangano casi isolati perché, anche se l’Authority per le comunicazioni ha avviato una consultazione pubblica sulla Wi-Max per assegnare le licenze il prima possibile, c’è ancora una trattativa in atto con il ministero della difesa che attualmente utilizza le frequenze destinate proprio al wi-max. I militari chiedono infatti una cifra tra i 400 e i 500 milioni di euro per traslocare su un’altra banda di frequenza i loro apparati che operano su quelle frequenze, in gran parte radar.
Eppure in Italia gli investimenti previsti per lo sviluppo del wi-max ammonterebero a cinquecento milioni di euro. Se si optasse per le reti tradizionali, cioè per il cablaggio la cifra aumenterebbe di dieci volte. E anche il ritorno in termini di investimenti vedrebbe dei tempi dieci volte più lunghi.
Il risparmio ci sarebbe anche nella realizzazione di una rete wi-max che richiederebbe due anni e permetterebbe l’accesso anche ad operatori che non sono in grado di affrontare investimenti cospicui. Ma quando e se il wi-max diventerà una realtà, la funzione dello stato sarà strategica perché se non si farà promotore della domanda, le aziende assegnatarie della licenza andranno ad investire in aree più redditizie. Automaticamente ci sarebbe un peggioramento del digital divide: da una parte zone che usufruiscono della banda larghissima, dall’altra paesi in situazioni sempre più critiche. Una disparità che diventerebbe insanabile con conseguenze sempre più pesanti per lo sviluppo tecnologico del Paese.
* www.unita.it, Pubblicato il: 24.11.06 Modificato il: 25.11.06 alle ore 9.25
Libertà a rischio nel cyberspazio: "corteo" sul web *
Reporters senza frontières, l’associazione per la difesa della libertà della stampa, pubblica l’elenco dei tredici Paesi «nemici d’Internet», dall’Arabia Saudita al Vietnam, in occasione della «Ventiquattro ore contro la censura su Internet». E segnala una new entry nella lista nera: l’Egitto del presidente Mubarak. Per il resto i 13 «nemici d’Internet» su cui Rsf ha puntato l’indice sono: Arabia Saudita, Bielorussia, Birmania, Cina, Corea del Nord, Cuba, Iran, Uzbekistan, Siria, Tunisia, Turkmenistan e Vietnam.
Rispetto al 2005, tre Paesi sono stati ritirati dalla lista dei nemici del web: la Libia, dove Rsf ha potuto constatare in seguito a una missione che «internet non è più censurato» e dove nessun navigatore dissidente è stato carcerato; poi le Maldive e il Nepal. L’Egitto è invece l’unica novità rispetto al precedente elenco.
Quanto alle ragioni della nuova aggiunta dell’Egitto alla lista dei censuratori, Rsf dice che il presidente egiziano Hosni Mubarak «dà prova di un autoritarismo particolarmente inquietante in materia di internet»e tre autori di blog sono stati arrestati e messi in carcere «peressersi espressi a favore di riforme democratiche nel Paese».
Reporter senza frontiere organizza, da martedì 7 novembre dalle 11 alla stessa ora del giorno successivo, una cybermanifestazione internazionale, invita cioè gli internauti a mobilitarsi contro i «predatori di internet» tramite la "piazza" del sito «www.rsf.org».
* www.unita.it, Pubblicato il: 06.11.06 Modificato il: 06.11.06 alle ore 17.28
SI E’ APERTO OGGI IL SUMMIT ONU SULLA GOVERNANCE
Vint Cerf: Internet è in pericolo *
In occasione dell’apertura oggi vicino ad Atene del forum mondiale per la Governance di Internet patrocinato dall’Onu, arriva il monito di Vint Cerf, che di Internet è in un certo senso il "papà".
Sono in atto «manovre politiche» di governi ed enti internazionali per imporre l’uso di lingue non occidentali ai nomi dei domini dei siti Internet e ciò potrebbe portare a un collasso del sistema di indirizzamento della Rete, è il suo allarme al Forum di Atene.
Vinton Cerf, che è anche presidente dell’Icann, l’ente internazionale di controllo di Internet, non fa riferimenti diretti al Governo cinese e all’International Telecommunication Union (Itu), al centro di recenti critiche all’Icann, ma afferma che in queste ultime settimane sono emersi interessi nazionali che potrebbero cambiare il processo di internazionalizzazione degli indirizzi Internet.
«La lingua è chiaramente un patrimonio e un orgoglio nazionale, ma i ’nomi a dominio’ sono solo dei simboli che ci aiutano a trovare i siti su Internet», sostiene l’inventore del protocollo originario della Rete.
Il nocciolo del problema è l’uso dei caratteri non occidentali negli indirizzi Internet: al momento solo 37 di questi possono essere usati per definire il nome di un dominio.
L’Icann sta gradualmente implementando un piano che dovrebbe espandere questa possibilità a tutte le lingue del mondo e alcuni caratteri delle lingue asiatiche sono stati già inseriti.
«La mia preoccupazione - afferma Vinton Cerf - è che si possa arrivare a scegliere all’improvviso un percorso differente da quello percorso dall’Icann in questi ultimi sei anni, con risultati che potrebbero non avere successo o determinare addirittura un ’crash’ di Internet».
«Si sta rivelando piuttosto complesso - continua Cerf - integrare questo grande set di caratteri nel sistema di navigazione della Rete in modo da garantirne la stabilità e la sicurezza, anche per le generazioni future».
E «gruppi specifici, tra cui la Cina, potrebbero essere propensi ad accettare un sistema che funziona in un Paese senza preoccuparsi che funzioni anche negli altri Paesi», infrangendo così l’universalità del sistema e il meccanismo che consente ad un computer di trovarne con sicurezza un altro attraverso Internet.
* WEB NOTES. di Anna Masera - 30/10/2006
Missione: disegnare il futuro di Internet
di Arturo Di Corinto *
L’Internet Governance Forum di Atene è partito. E nessuno sa dove potrà atterrare. Dopo i saluti di rito della cerimonia d’apertura infatti, la giornata è stata dominata dalla discussione sul significato del meeting: lo sviluppo di Internet e il suo governo.
Nel pomeriggio, un nutrito panel di relatori (quasi tutti maschi), con il contributo di circa 500 convenuti da ogni angolo del pianeta, ha tentato di delimitare i campo d’intervento del forum e di stabilire l’agenda dei giorni successivi, partendo dalla definizione della Internet Governance. Già, il governo di Internet non ha lo stesso significato per tutti. Per qualcuno è un fatto tecnico e non di contenuti, per altri è un’emergenza democratica, per alcuni una minaccia, per molti un’opportunità che, è stato detto, non va eccessivamente politicizzata.
L’impressione generale è, però, che nel definire i contorni dell’argomento di dibattito i vari soggetti abbiano gareggiato a fissare ciascuno i propri paletti e a misurare le intenzioni del vicino. Perciò di fronte alle ragioni della diplomazia - al tavolo erano rappresentati governi, associazioni non profit ed enti di ricerca - a poco è valso il pressing del giornalista dell’Economist, Kenneth Cukier, animatore dell’incontro pomeridiano, per riportare il discorso sul tema dell’Icann (l’organismo che gestisce i domini della rete) e della gestione dei nomi di domini, il vero casus belli che cova sotto la cenere del meeting.
Nel campo di calcio dell’Apolloni Palace Internet ha dimostrato ancora una volta di più di essere una tecnologia che rimescola tutto in maniera totale e impredicibile diventando oggetto di discussione anche fra alleati. Fra chi paventa un clash di culture e chi ha parlato di uno scontro di idee su quella che deve essere la forma della Internet, le opinioni erano assai diverse. Per il rappresentante cinese, che ha rivendicato all’ "interventismo liberale" del suo governo il vero impulso alla diffusione della rete in Cina, il forum è un’utile occasione di confronto; per l’ iraniano Riazi la gestione di Internet dovrebbe essere democratica e multilaterale e il forum dovrebbe concentrarsi sulle questioni tecniche relative ai nodi della rete e non occuparsi d’altro; mentre per l’americano David Gross che ha ripetuto l’apologia dello status quo della rete, il valore di Internet che viene dalla competizione fra soggetti diversi dipende certo dal contributo della società civile e dei privati ma necessita dell’intervento abilitante dei governi.
Allegorie, nel significato del greco antico, parole che dicono altro, e dicono di visioni diverse della Internet di oggi e di quella futura. Perciò, in un contesto che promuove il metodo del consenso non poteva mancare l’intervento risolutore della rappresentante dell’Internet Society, Lynn St. Amour che ha tenuto a precisare che dal forum non devono uscire raccomandazioni, ma ben altro, e cioè una nuova idea di cooperazione.
Certo tutti sono d’accordo che nei suoi appena 33 anni di vita Internet è divenuta una infrastruttura globale di valore incrementale grazie alla semplicità della sua architettura e alla cooperazione di utenti, ISP, programmatori che l’hanno trasformata in uno strumento immaginifico che ci fa sognare un mondo dove tutta la conoscenza disponibile sia a distanza di un click, ma, ça va sans dire, che questo sogno non riguarda tutti. E di certo non solo perché c’è chi abusa della rete facendone uno strumento di propaganda e di violenza, uno strumento con cui consumare truffe e crimini indicibili verso i minori, ma perché il suo scopo, quello di connettere tutti non è stato raggiunto.
Internet non è accessibile a 5 miliardi di persone ed è questo il problema che va affrontato a più livelli, come Internet che funziona a più livelli - fisico, tecnico, politico, legale - e con la cooperazione di tutti in ambito locale, nazionale e transnazionale, ha detto il papà di Internet Vinton Cerf. Che ha però ribadito, soccorrendo l’ambasciatore americano David Gross dall’affondo iraniano, che se la competizione è un valore in molti campi, nel caso dell’Icann questo genererebbe ambiguità, proprio ciò che va evitato. Tradotto: è inutile pensare a un organismo diverso o affiancato all’Icann, avremmo comunque bisogno di un soggetto terzo che vigili su entrambi.
Forse per questo la parola d’ordine che ha tirato la volata agli ultimi interventi della fase di discussione è stata "Sviluppo": che significa accesso, inclusione, connettività, ma anche tutela della diversità e del patrimonio culturale. Internet come strumento per raggiungere i millenium goals: sradicare la povertà e dare a tutti un futuro di pace e democrazia. Chi può non essere d’accordo?
* www.unita.it,Pubblicato il: 31.10.06 Modificato il: 31.10.06 alle ore 14.55
Internet Governance Forum: Cortiana nostro corrispondente da Atene *
Visto che non sono andata ad Atene, ho chiesto a Fiorello Cortiana di aggiornarci sull’Igf in corso in questi giorni. Ricevo e volentieri pubblico.
ATENE. La seduta plenaria odierna dell’Internet Governance Forum sul tema dell’Openness (gli altri temi riguardano la Security, la Multiculturality e l’Access), ha costituito la migliore spiegazione del significato e del senso del Forum che l’ONU ha promosso annualmente e per cinque anni, il prossimo sara’ in Brasile, a Rio nel 2007.
Dopo i summit mondiali di Ginevra e Tunisi, con le loro tribolate risoluzioni finali dopo infinite mediazioni governative, l’Internet Governance Forum, prevede la partecipazione a pari dignita’ di tutti i portatori di interessi che hanno a che fare con la rete, i cosidetti multistakeholders, non ci sono state conferenze preparatorie e non sono previsti documenti ufficiali, che pur sono auspicati.
La discussione dei temi legati all’Openness, in particolare ai diritti in rete, con un panel composto da rappresentanti dei governi, delle imprese e delle ONG e di associazioni come Creative Commons, cui potevano rivolgere domande tutti gli accreditati in platea filtrati da Nik Gowing, giornalista della BBC, moderatore rigoroso e plurale, ha consentito di mettere a fuoco questioni essenziali chiamando direttamente in causa le parti interessate.
Cosi’ e’ finita rapidamente al centro della discussione la vicenda che ha visto alcune delle principali corporations del digitale, come Microsoft, Yahoo, Cisco, Aol, Google, collaborare con il Governo della Cina all’individuazione di navigatori e bloggers che usavano parole quali "liberta’, partecipazione, democrazia".
Lo stesso Ministro Greco ha dovuto rispondere con goffo imbarazzo alla domanda relativa all’arresto di un blogger greco effettuato in questi giorni.
Vint Cerf, uno dei padri di Internet, a nome di Google, ha precisato che Google ha preferito autocensurarsi rispetto alla richiesta di alcune parole/tematiche rispondendo sullo schermo che in quel caso il Governo cinese vietava, piuttosto che collaborare all’identificazione di coloro che digitavano quelle richieste.
Cerf ha altresi’ precisato che Google ha rifiutato la stessa richiesta di identificazione avanzata dal Governo Bush.
Mentre anche Richard Sambrook, direttore delle Global News della BBC, denunciava l’oscuramento del proprio sito in China a causa della rifiutata collaborazione con il Governo, Art Reilly di Cisco e Fred Tipson di Microsoft, giustificavano il loro comportamento con la necessita’ di rispettare le regole del paese in cui volevano fare affari.
Ricordo che la Cina in pochi anni e’ passata da 80.000 utenti internet a 130 milioni alimentando appetiti disposti a tutto.
Mentre la parlamentare europea Catherine Trautmann, gia’ Ministro della Cultura Francese, ha sostenuto il diritto alla liberta’ di espressione che lo stesso Parlamento Europeo ha sancito con una Dichiarazione lo scorso Luglio, Il Rappresentante della Repubblica Popolare Cinese ha negato qualsivoglia restrizione da parte del suo Governo, preoccupato della tutela dei bambini dalla pornografia e della tutela dei turisti, dimenticando che un anno fa ha chiuso 12.500 blog perche’ non conformi alla morale socialista (sic!) mettendo poi in carcere i giornalisti chelo avevano denunciato.
Suo malgrado ricordava cosi’ Martin Feldmann in Frankestein Junior che rispondeva all’indicazione di Gene Wilder " Gobba? Quale Gobba?".
Joy Hito di Creative Commons ha richiamato la platea a tener conto della situazione contraddittoria nella quale si trovano ad operare le imprese, e’ qui che alcuni interventi hanno posto la questione di una cornice di regole cui riferirsi.
Un puntuale intervento dalla platea ha ricordato che oltre alla Cina e all’Iran, anche il nord del mondo conosce restrizioni significative della liberta’ attraverso la rete come nel caso del Patriot Act Statunitense.
Come non ricordare l’uso estensivo del Patriot Act, fuori dalla giurisdizione nordamericana, con il sequestro del server di Indymedia in Inghilterra nel nome della lotta al terrorismo.
Si e’ messo cosi’ in evidenza il rischio di una miopia e di uno strabismo da parte occidentale, mentre la "rete delle reti" tutto connette e tutto mette in discussione.
E’ cascata a fagiolo la proposta della Sottosegretaria all’Innovazione Beatrice Magnolfi di promuovere ed ospitare in Italia nella prossima primavera, una Conferenza Internazionale sull’"Internet Bill of Rights" su una Carta dei Diritti per la Rete.
Proprio a questo tema e’ dedicato uno dei trenta Workshop selezionati dall’ONU per il Forum di Atene.
E’ il tema che insieme a Stefano Rodota’, e a migliaia di firmatari nel mondo, avevamo lanciato prima del summit di Tunisi con il manifesto "Tunisi mon amour", e pone la questione dei diritti individuali come questione universale, quindi non relativizzabile.
E’ proprio a partire dalle liberta’ individuali che gli organismi internazionali e le realta’ governative che concorrono alla definizione della governance di Internet possono definire delle modalita’ ufficiali di coordinamento al fine di armonizzare e rendere coerenti le risoluzioni ONU sui diritti dell’uomo, piuttosto che dell’Unesco sulla condivisione della conoscenza.
Come vedete e’ in atto un processo complesso e contraddittorio, probabilmente non breve, che vede ormai coinvolte e compromesse le esperienze pubbliche insieme a quelle private e della sussidiarieta’, l’esatto contrario di ogni unilateralismo.
Un saluto da Atene Fiorello Cortiana
(MEMBRO DELLA DELEGAZIONE ITALIANA)
* WEB NOTES di Anna Masera: www.lastampa.it/masera, /31/10/2006
Governance Forum ad Atene: dito puntato alla Cina, intanto la Grecia arresta un blogger... *
Visto che non sono andata ad Atene, ho chiesto a Fiorello Cortiana di aggiornarci sull’Igf in corso in questi giorni. Ricevo e volentieri pubblico il riassunto della giornata qui sotto. Intanto non si può fare a meno di segnalare la notizia dell’arresto del gestore greco di BlogMe, un aggregatore di notizie sul Web...Ma ad Atene se non altro visto che ospita il vertice sulla Governance di Internet - la libertà di espressione in Rete non dovrebbe essere sacra? La blogosfera s’indigna e noi sottoscriviamo.
* WEB NOTES di Anna Masera: www.lastampa.it/masera/ 31/10/2006
LIBERTA’ E SICUREZZA
Garanti uniti contro il Grande Fratello
Intanto ad Atene il futuro di Internet fra nuove regole e cyber-repressione *
«Contro il Grande Fratello ci vuole un Governo Mondiale della Privacy». La proposta del Garante Francesco Pizzetti arriva alla vigilia del vertice annuale internazionale delle Authority che si terrà a Londra domani e dopodomani, mentre ad Atene 1200 delegati da tutto il mondo sono riuniti questa settimana per discutere del futuro di Internet al Forum sulla Governance.
«Ma Internet è solo una piccola parte della sfida che dobbiamo affrontare per garantire la protezione dei dati personali» sottolinea Pizzetti.
«Basta guardare allo scandalo delle intercettazioni telefoniche in Italia per rendersi conto che le nuove tecnologie ci impongono la ricerca di nuove regole condivise da tutti».
«C’è una nuova presa di coscienza delle Autorità Garanti dei propri limiti» spiega Pizzetti: per ottenere più consenso e diventare più efficaci mettendo a punto una nuova strategia di comunicazione, i Garanti europei hanno deciso di unire gli sforzi per proteggerci dalla società della sorveglianza.
Se è vero che privacy e sicurezza sono legate a doppio filo, «serve un salto di qualità: la protezione dei dati non può essere un problema lasciato ai tecnocrati, ci vuole consenso politico».
Intanto da Atene arriva il monito di Vint Cerf, uno dei padri di Internet e presidente dell’Icann, l’ente che la controlla e che dal 2009 non sarà più solo americano: «Il funzionamento della Rete è minacciato dall’interferenza dei governi».
«Internet deve appartenere a tutti e la ricerca di regole non può prescindere da un metodo democratico, centrato sui suoi utenti» dichiara la delegata italiana Beatrice Magnolfi, sottosegretario di Stato per le Riforme e le Innovazioni nella pubblica amministrazione.
Ad Atene la delegazione italiana, coordinata da Stefano Rodotà, terrà domani un gruppo di lavoro per una «Carta dei Diritti» della Rete.
L’obiettivo è quello di definire anche i doveri fondamentali della cittadinanza digitale. Su questi temi l’Italia offre la propria disponibilità ad organizzare un confronto a livello europeo nei prossimi mesi.
Ma mentre ad Atene si spendevano parole di biasimo per la Cina che reprime i cyberdissidenti con il beneplacito delle multinazionali del Web (Microsoft e Google in testa), proprio ieri sulla Rete correva la notizia dell’arresto di un blogger greco, reo di aver linkato contenuti di satira politica.
Nemmeno il Paese che ospita il vertice sul futuro di Internet riesce a far valere il diritto alla libertà di espressione? Atene dovrà chiarire se per «Governance» di Internet si intende repressione.
* WEB NOTES di Anna Masera: www.lastampa.it/masera/, 31/10/2006
Internet e la libertà: davvero business è solo business?
di Arturo Di Corinto *
da Atene/nostro servizio. Internet Governance Forum: ad Atene finalmente si entra nel vivo del dibattito. Nel secondo giorno, la plenaria sul tema dell’Openness, cioè la libertà di informazione, d’espressione e il libero scambio di conoscenze, comincia con uno scivolone del ministro greco che allude alla eventualità di porre limiti alla libertà d’espressione via Internet e prosegue con una raffica di accuse contro le ripetute violazioni di quel diritto basilare da parte della superpotenza cinese. Poi arriva la carica dell’IFF - Foundation For a Free Information Infrastructure - che dice a chiare lettere «no» ai brevetti software, e tanti altri che parlano di connettività a basso costo, libertà di religione, trasparenza nel rapporto fra stato e cittadini, di blog ed etica dell’informazione.
Sembra avere stappato il vaso di Pandora. Sì, perchè viene chiamata in causa la responsabilità sociale delle imprese, in particolare di quelle come Microsoft, Cisco, Yahoo!, che vendendo tecnologie e conoscenze ai paesi autoritari contribuiscono indirettamente a comprimere i diritti degli utenti della rete. L’uomo di Microsoft tenta una timida risposta, evasiva, «non è il tema di stamattina», «dobbiamo rispettare la legge dei vari paesi», «Internet ha un grande valore per il business, la formazione e la crescita di ogni paese». È poco convincente, la platea non apprezza, e tantomeno gli altri panelist. Ma «che Cisco abbia venduto router speciali alla polizia cinese, è o no un problema etico?», insinua il moderatore, Nik Gowing della Bbc. Art Reilly, l’uomo di Cisco nel panel risponde: «Non se sono a conoscenza», «certo il libero flusso dell’informazione è in pericolo, lo sappiamo, ma quello che noi vendiamo è lo stesso per tutti gli acquirenti, in tutti i paesi», ma dalla platea incalzano, «ci sono le prove che siete collusi con il governo repressivo di Pechino».
Interviene anche Annette Estherhuysen della Apc - un organizzazione non governativa che promuove Internet nel campo dei diritti umani - «È un problema reale, ma come evitarlo?» Difficile da dire. Per la parlamentare europea Catherine Trautmann la risposta è che purtroppo per molti operatori commerciali il mercato è più importante della libertà d’espressione e aggiunge: «Va bene vendete, ma noi dobbiamo proteggere gli utilizzatori». «Abbiamo chiesto di stabilire una carta di diritti della rete (ne ha parlato anche la senatrice Beatrice Magnolfi il primo giorno e mercoledì verrà presentata la proposta italiana), che non è una cosa astratta» «è proprio questo che si chiama governance». «Altrimenti», continua, «a livello europeo potremmo smettere di cooperare con governi repressivi e fare pressione su di loro».
Insomma, per tutti la questione diventa come le aziende possono far valere il loro potere contrattuale verso i governi. Impossibile? Non secondo Richard Sambrook, direttore news della Bbc secondo cui i principi sono più importanti del business e per questo non sono entrati nel mercato cinese. «Se in Cina non ci vedono ci dispiace, ma non vogliamo censure». Tutto il contrario della scelta di Google, difesa dalle accuse di collusioni da Vinton Cerf nel ruolo del pompiere una volta di troppo, che ricorda come l’azienda per cui lavora, Google, rispetta le leggi cinesi (no ai contenuti politici nei suoi database in Cina) ma non offre piattaforme di blogging né servizi di email all’impero mandarino per evitare di diventare delatori loro malgrado.
Per Jamie Love, tuttavia, Internet rappresenta ovviamente una minacca per i regimi autoritari ma è incredibile che mentre in Cina denunciano i giornalisti, negli Usa le stesse aziende chiedono maggiore libertà di manovra.
È l’altra faccia della medaglia. Il doppio standard dell’etica della comunicazione. Non tarda molto infatti perché gli interventi si concentrino sugli apparati censori degli stati occidentali e così un blogger, un giornalista, ricorda al ministro greco presente, che in Grecia è stato arrestato un blogger per avere linkato informazioni scomode. Anche in questo caso la difesa d’ufficio del ministro è debole: «Non ne sono a conoscenza». Eppure era stato proprio lui a sollecitare il tema del rapporto fra la libertà d’informazione e le leggi contro la diffamazione via Internet. Tema su cui non si sposta di un millimetro: le informazioni false non vanno diffuse.
Prova a replicare Joichi Ito, controverso imprenditore nella veste di partecipante al progetto Creative Commons che gli dice che le bugie le dice la televisone come la radio, la differenza è che su Internet si può chiederne la rettifica, protestare, correggere il tiro e scusarsi nello spazio di un minuto. È la rete bellezza.
Il dibattito prosegue su controllo, censura, carta delle Nazioni Unite. C’è chi è pronto a barattare la propria libertà con più sicurezza. La retorica guerresca di Bush ha fatto breccia. Ma non tutti ci stanno: meno privacy non significa più sicurezza.
A chiudere la plenaria sull’Openness arriva il discorso su brevetti e copyright che minacciano il libero scambio di conoscenze. L’argomento è meno controverso del precedente, anche le grandi aziende presenti, ma che non si occupano di contenuti, valutano positivamente gli «user generated contents» ma storcono il naso alle parole della Esterhuysen: «Bisogna ridefinire il dominio pubblico e guardare ad alternative come Creative Commons. Accesso a informazioni e conoscenza, significa accesso a beni pubblici informativi collettivi». Per molti degli intervenuti il diritto alla condivisione è un imperativo, e l’open source e gli open standard creano lavoro, impresa e comunità. Un’idea che fa dire all’onorevole Trautmann che «ci vuole un forte rinnovato ruolo del pubblico nella produzione di informazioni e conoscenza». «Per diffondere l’innovazione», ripeteranno gli uomini della Bbc. «I contenuti prodotti dagli utenti sono una grande fonte di ricchezza per tutti». E Jamie Love rivolto alle imprese del software: «Oltre che nei contenuti, anche nell’informatica, il codice software, gli standard liberi e aperti, sono una ricchezza. Siete sicuri che vi conviene mantenerne il monopolio?»
* www.unita.it, Pubblicato il: 31.10.06 Modificato il: 31.10.06 alle ore 20.43
Al Forum mondiale sulla governabilità della rete in corso ad Atene le organizzazioni internazionali attaccano le grandi società americane
Internet e censura, annuncio di Microsoft: "La Cina cambi o lasceremo il mercato"
"Potremmo riconsiderare tutti i nostri investimenti in paesi non democratici" *
ATENE - Il muro di omertà delle grandi società americane di internet che fanno affari in Cina comincia a sgretolarsi. Da Atene, dove si sta tenendo il primo Forum Mondiale sulla governabilità di Internet (Fgi), un alto consulente di Microsoft ha svelato alla Bbc che la società di Bill Gates sta valutando se abbandonare il mercato cinese. "In Cina le cose stanno andando male", ha detto Fred Tipson, e Microsoft potrebbe "riconsiderare" il suo business non solo in Cina, ma in tutti gli altri paesi non democratici.
"Dobbiamo decidere - ha spiegato Tipson alla Bbc - se la persecuzione dei bloggers da parte delle autorità di quei paesi ha raggiunto un punto inaccettabile e incompatibile con il fare business lì". Fino a oggi le maggiori società tecnologiche americane, quali Google, Yahoo!, Microsoft e Cisco system hanno accettato le censure e i controlli preventivi imposti dal governo cinese pur di restare sul mercato potenzialmente più appetibile dei prossimi anni.
L’aver piegato la testa alle richieste di Pechino, tuttavia, ha portato alcuni contraccolpi a Google e Yahoo!, fortemente criticate quando hanno accettato di auto-censurarsi su temi quali le aspirazioni indipendentiste del Tibet, i rapporti con Taiwan o le istanze democratiche in generale. La stessa Microsoft aveva a sua volta ammesso, nel gennaio di quest’anno, di aver bloccato di sua iniziativa il blog del dissidente cinese Zhao Jing, troppo critico verso il governo di Pechino.
Alle società americane è stato anche rimproverato di essersi impegnate in prima persona a segnalare a Pechino gli internauti pericolosi. Lo scorso anno l’ufficio di Hong Kong di Yahoo! ha fornito alla polizia cinese l’indirizzo web del giornalista Shi Tao, inviso al regime perché aveva diffuso sulla rete una circolare governativa che vietava ai giornalisti di parlare dell’anniversario del massacro di Tienanmen del 1989. Ad aprile del 2005, Shi Tao è stato poi condannato a dieci anni di carcere per aver "divulgato segreti di Stato".
La dichiarazione di Tipson è arrivata dopo un duro attacco portato a Microsoft e agli altri colossi di internet durante il Forum. Le organizzazioni per i diritti umani che prendono parte al convegno hanno accusato le grandi società di non fare abbastanza per difendere e sostenere la libertà di espressione nei regimi autoritari in cui operano. Il rappresentante di Microsoft e quello di Cisco hanno ribattuto che, al contrario, si sta "massimizzando l’accesso all’informazione" agli utenti di quei Paesi messi all’indice da Amnesty.
In Cina, in particolare, l’accesso ad internet rappresenta l’unico canale - sebbene censurato - di informazione alternativa alla propaganda del regime: da 80mila navigatori nel 1994, ora 120 milioni di cinesi si connettono alla rete. Il mercato è destinato a superare anche quello nord-americano nel giro di un paio d’anni e ciò lo rende essenziale per le aziende di internet. Microsoft però, che lo scorso febbraio è stata richiamata in tal senso anche da rappresentanti del Congresso Usa per il suo "riprovevole" comportamento in Cina, potrebbe fare un passo indietro. (1 novembre 2006)
* www.repubblica.it, 01.11.2006
Internet, il mondo in una stanza. Per chi ha già casa
di Arturo Di Corinto *
Atene/nostro servizio. Quasi il 90 per cento delle 6000 lingue parlate nel mondo non sono rappresentate su Internet. Non è possibile creare nomi di dominio in molte varianti linguistiche e molti gruppi etnici non possono accedere col loro linguaggio alla rete. Molti popoli inoltre, hanno una tradizione orale, che pertanto non risulta facilmente trasferibile via Internet. Si chiama linguistic divide, il divario linguistico.
La gran parte della popolazione dell’Africa Centrale non ha accesso alla rete e quando ce l’ha deve pagarla molto di più di quanto accade nei paesi ricchi per gli alti costi di connessione alle dorsali di telecomunicazione e per l’assenza di ripetitori e cavidotti locali. Si chiama infrastructural divide. Il divario infrastrutturale.
Molti utenti della rete sono controllati o filtrati dai loro governi. E per questo si autocensurano. Sono oggetto di un privacy divide.
Le donne soprattutto nel Sud del mondo non possono accedere alla rete per un’antica discriminazione. Si chiama gender divide.
Molte scuole, università e biblioteche nei paesi in via di sviluppo non hanno accesso alla letteratura scientifica perché costa troppo e questa non si può riprodurre liberamente a causa del copyright. È il cultural divide.
Ugualmente, molti Paesi non possono permettesri di acquistare il software necessario per interagire con internet perché i costi di licenza del software commerciale sono molto alti. Technology divide.
In una parola, viviamo in un mondo affetto dal morbo del digital divide. Una "malattia" che rende impossibile alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale di accedere alle opportunità del mondo digitale. Se aggiungiamo che Reporters sans frontières ha individuato almeno 61 cyberdissidenti, giornalisti e blogger, arrestati fino ad oggi per aver pubblicato informazioni scomode ai loro governi, si capisce meglio perché c’è bisogno di una carta dei diritti della rete. Proprio di quella carta che mercoledì la delegazione italiana guidata da Stefano Rodotà, ha proposto al forum sull’Internet Governance di Atene. Rodotà, già a capo del consiglio delle Autorithy europee della privacy , insigne giurista e docente all’Università di Roma, ha ribadito tale necessità affermando che «Internet è un luogo di conflitto», sintetizzando indirettamente il motivo per cui centinaia di persone sono convenute ad Atene per il forum. «Internet è il più grande spazio pubblico della storia e deve restare tale per dare ai cittadini e alla democrazia nuove opportunità», «e per fare questo - ha aggiunto - occorre garantire al che i diritti offline, quelli della dichiarazione dei diritti dell’uomo, vengano rispettati nel mondo online».
Nelle intenzioni del gruppo di esperti che hanno illustrato la proposta, tra essi anche Fiorello Cortiana, Vittorio Bertola e Robin Gross di Ip Justice, la Carta va creata attraverso un metodo basato sul consenso, processuale, condotto dagli utenti della rete, piuttosto che essere calata dall’alto dai governi e poi andrebbe portata alle Nazioni Unite, l’unico organismo che forse potrà essere in grado di applicarla e di farla rispettare. Per Fiorello Cortiana però al processo devono partecipare anche le imprese, e non solo per il clamore suscitato dalla denuncia della loro collusione con sistemi repressivi da parte degli attivisti per i diritti umani, mentre per Vincenzo Vita, rappresentante dell’Unione delle province italiane, vi devono partecipare anche le autonomie locali. Su questi temi l’Italia con Beatrice Magnolfi, sottosegretario all’Innovazione, ha già offerto la propria disponibilità ad organizzare un confronto a livello europeo da tenersi nei prossimi mesi con i Paesi membri dell’Unione europea. Una strada che dovrebbe portare ad inserire la proposta nel programma di Rio de Janeiro dove il prossimo anno si terrà un altro round del forum.
* www.unita.it, Pubblicato il: 01.11.06 Modificato il: 02.11.06 alle ore 9.15
Ciao Atene, e tutti felici: abbiamo molto parlato Arturo Di Corinto
Atene/nostro servizio
Equità e libertà: sono questi i due assi principali lungo i quali dovrà svilupparsi l’Internet del futuro. Lo ha detto Nitin Desay, l’inviato speciale delle Nazioni Unite alla conferenza riassuntiva dell’Internet Governance Forum di Atene sintetizzando in questo modo 4 giorni di incontri con 3000 partecipanti e 500 delegazioni di quasi cento paesi. Ma il governo futuro di Internet non sarà né semplice né lineare. Tutti ne sono consapevoli. Ed è stato ripetuto anche nella conferenza finale. Occorre lo sforzo di tutti.
La governance di Internet, cioè le azioni necessarie a garantire la stabilità, la compatibilità e l’interoperabilità dei sistemi su cui si basa, la salvaguardia dei diritti e la definizione delle responsabilità di chi la usa, la protezione dall’abuso da parte degli utenti finali e il suo svilupo tecnologico, richiede la partecipazione di tutti i soggetti interessati, i famosi "stakeholder", e cioè la società civile, i governi, le imprese, l’Università, e non può darsi senza la loro cooperazione. Che non è facile né immediata. Gli interessi in gioco sono molti, e si configurano in un arcipelago di poteri e di interessi spesso confliggenti. Internet, ha ragione Stefano Rodotà, è uno spazio di conflitto, e ormai è chiaro quanto importante è trasformare questo conflitto in nutrimento per la democrazia.
Chi si aspettava un risultato immediato dal meeting potrebbe essere rimasto deluso, ma il valore profondo dell’incontro, che non aveva mandato per statuire raccomandazioni o linee guida, come ha ricordato il coordinatore del forum, Markus Kummer, è stato quello di aver contribuito ad innalzare il livello di consapevolezza su tutti i temi del governo di Internet. L’importanza degli standard aperti ad esempio, per garantire l’interoperabilità dei dati, l’incremento delle misure di protezione da virus, spamming e malware, l’utilità del software libero per i paesi in via di sviluppo, la necessità riequilibrare i diritti di "proprietà intellettuale" per ripagare i titolari senza penalizzare utenti e consumatori digitali, favorire la produzione di contenuti locali nei linguaggi locali e tramandare, attraverso la rete, storia e memoria di tutti i popoli e di tutti i gruppi etnici. Infine, garantire un adeguato livello di protezione per l’esercizio dei diritti fondamentali, come quelli d’opinione ed espressione, per pretendere i quali Amnesty International ha depositato nelle mani dei rappresentanti delle Nazioni Unite 50 mila firme contro la censura online.
Insomma, insieme a questo processo di consapevolizzazione, l’altro risultato è stato quello di far incontrare e mettere insieme persone diverse con lo stesso obiettivo: rendere Internet uno strumento sempre più democratico, inclusivo e ubiquo. A questo fine negli ultimi giorni si sono create delle "coalition", gruppi di lavoro impegnati a dettagliare le problematiche individuate e a suggerire delle soluzioni pragmatiche e praticabili. L’università di Brema ha creato una "coalition" su privacy e sviluppo umano; lo Swiss internet user group, una coalition per la totale accessibilità di Internet alle persone con disabilità, altri gruppi composti da Ong, imprese, enti intergovernativi lavoreranno sugli standard aperti, sul copyright e l’Internet bill of rights proposto dagli italiani (e che ha avuto un inatteso successo), e infine la coalition sulle questioni di genere che si incontrerà a breve in Costa Rica. Tutte insieme si ritroveranno a Rio De Janeiro il prossimo novembre del 2007, per continuare nel 2008 in India, nel 2009 in Egitto e nel 2010 in Lituania oppure Azerbaijan.
Certo non sono mancate le voci stonate, come quella di chi ritiene che nel forum non erano rappresentati certi valori o certe categorie di persone, nonostante che, come ha detto Desai, «le porte del forum siano sempre aperte, e non c’è bisogno di essere invitati per partecipare». «Semmai - ha aggiunto - dobbiamo porci il problema di come finanziare la partecipazione di chi non può permetterselo». Qualcuno ha sollecitato l’invenzione di un nuovo format per questi incontri che permetta di giungere a risultati concreti ad ogni round. E probabilmente accadrà attraverso il luogo di ritrovo virtuale suggerito alle coalitions: www.Igf2006.info, è il posto dove con un click potranno depositare i propri documenti e discutere via mailing list le proposte con un metodo collaborativo e basato sul consenso. Esattamente il metodo con cui è nata e cresciuta la rete Internet.
Se pensiamo che tutto è cominciato con la guerra dei DNS, la diatriba su chi deve gestire i nomi di dominio in Internet, c’è di che essere soddisfatti.
* unita.it, Pubblicato il: 03.11.06 Modificato il: 03.11.06 alle ore 7.06
Se gli oppressi scoprono la Rete
di Beatrice Magnolfi *
La Rete è il peggior nemico degli oppressori. È questo il messaggio che i recenti provvedimenti dei militari birmani trasmettono al mondo. Il blocco dei provider da parte del governo per fermare le testimonianze sulla feroce repressione mostra come Internet sia in grado di destabilizzare i regimi autoritari. Le violazioni di diritti umani vi sono sempre state, in Birmania come in molti altri paesi, ma oggi la comunità internazionale non ha più alibi: non può dire “non lo sapevo”.
Tutto il mondo, grazie alla nuova “resistenza tecnologica”, ha visto migliaia di monaci in tonaca rossa sfilare per le strade, soldati che sparavano a un fotoreporter giapponese e corpi di cittadini inermi sotto le ruote dei camion militari. Mai prima dell’avvento della Rete ciascun individuo aveva potuto testimoniare in tempo reale eventi tanto drammatici. Mai la sfera pubblica aveva avuto un’arena così efficace, che permette non ad un’imprecisata massa - concetto proprio di media come la tv - bensì a un insieme di individui, di comunicare liberamente.
La Rete fa spesso notizia più per i rischi connessi al suo utilizzo da parte dei “cattivi” (pedofili, terroristi, truffatori) che per le sue straordinarie potenzialità democratiche, enfatizzate dallo sviluppo del Web 2.0 (i contenuti generati dagli utenti). È vero che l’umanità, specie in occidente, deve sempre più spesso tutelare la sicurezza, ma in troppi paesi mancano ancora gli elementari diritti di libertà, per la cui affermazione la Rete si sta rivelando il mezzo più potente della storia. Il fenomeno è ancora agli inizi, solo un miliardo di persone al mondo accede ad Internet, ma l’ondata ineluttabile di cambiamento è già in atto.
Non è solo la Birmania a cercare di controllare la Rete; il rapporto annuale sulla libertà di stampa nel mondo, pubblicato di recente da Reporters sans frontières, mostra come sempre più paesi, in particolare Malesia, Thailandia, Vietnam, oltre al Myanmar, temano Internet. Decine di persone sono in carcere in tutto il mondo per aver espresso online opinioni sgradite ai governi: 50 nella sola Cina, stato che ha oscurato 18.000 siti in occasione dell’ultimo Congresso del partito comunista.
I Paesi più virtuosi sono Islanda, Norvegia, Estonia; gli ultimi Turkmenistan, Corea del Nord, Eritrea. Tuttavia Internet esercita una grande pressione, destinata a crescere, per scardinare gli argini repressivi dei governi illiberali. Fino a quando la Birmania potrà bloccare i provider senza nuocere alla propria economia? Senza considerare che, come ha osservato acutamente Seth Mydans sullo Herald Tribune (in un articolo pubblicato lunedì su l’Unità) «anche un blog chiuso è un blog potente»: anche il silenzio grida al mondo un messaggio di libertà.
I regimi lo hanno capito, le grandi democrazie meno. Con la conseguenza che le azioni repressive sopravanzano le azioni positive.
Più di 80 milioni di blog, oltre 100 milioni di video su YouTube, grandi comunità di social network non sono fenomeni arginabili e non si può pensare che non si ripercuotano sui rapporti tra politica e cittadini. Ma questo cambiamento deve essere indirizzato, affinché non scivoli verso derive populiste e ambigue tentazioni di democrazia diretta; verso quella «democrazia delle emozioni», come la definisce Stefano Rodotà, già in agguato anche in Italia. Si tratta della più ambiziosa e necessaria sfida che la politica deve assumersi, partendo dal presupposto che l’agire politico tradizionale non è disgiunto dalle azioni condotte online.
Un altro luogo comune da sfatare è che la Rete non abbia bisogno di essere regolamentata: l’assenza di regole per il web non significa libertà, ma affermazione dei più forti sui più deboli. D’altronde, alcune ricerche scientifiche, fra tutte quella di Albert-László Barabási, mostrano come persino i nodi della Rete non abbiano una distribuzione democratica, rendendo alcuni contenuti meno accessibili di altri.
Servono dunque nuove regole per Internet.
Bisogna partire dal rafforzamento dei diritti umani già sanciti, perchè la Rete li ha esposti a un’enorme forza d’urto, rivelando la fragilità delle misure poste a loro protezione. Ma non è sufficiente. L’affermazione dei diritti umani codificata nei secoli scorsi non coglie appieno il salto di paradigma introdotto da Internet, che richiede il riconoscimento di nuovi diritti: l’accesso al sapere, la sicurezza dei dati, il rispetto della privacy, la tutela degli utenti più vulnerabili, la salvaguardia delle diversità delle opinioni, la responsabilità dei contenuti.
Ma insieme a nuovi diritti occorre un nuovo metodo di regolamentazione; non si può più pensare a norme imposte dall’alto: è necessario piuttosto un processo condiviso e inclusivo che interessi, insieme ai governi, tutti gli stakeholder, imprese, ricerca, utenti, associazioni. Sarebbero poi velleitarie iniziative legislative di rango nazionale: Internet scavalca le frontiere, travolgendo nell’era della globalizzazione l’ultimo residuo dell’idea di sovranità.
La proposta del governo italiano, presentata di recente a Roma in un convegno internazionale organizzato insieme all’Onu, è quella di un Internet Bill of Rights, una carta dei diritti e dei doveri della Rete condivisa e multistakeholder, secondo un nuovo modello politico e sociale di regolamentazione. Hanno risposto al nostro invito ben 70 Paesi e numerosi attori sociali, che ci incoraggiano ad andare avanti in questo percorso.
È un’utopia? Forse si, ma un’utopia necessaria, che proprio in quanto tale, chiede alla comunità internazionale, a tutti noi, di essere tradotta in un progetto concreto.
* l’Unità, Pubblicato il: 20.10.07, Modificato il: 20.10.07 alle ore 8.40