Per questo Socrate fu messo a morte
Diceva Oscar Wilde: "Se hai trovato una risposta a tutte le tue domande, vuol dire che le domande che ti sei posto non erano giuste"
Risponde Umberto Galimberti *
Gli studenti sono, e tutti noi siamo, in Italia, cattolici. Se non lo siamo più, lo siamo stati. Abbiamo ricevuto, sin dalla più tenera età, un’educazione religiosa. E ci siamo trovati cattolici senza averlo mai davvero scelto.
Per questo il metodo della catechesi è il più diffuso, penetrante e non tematizzato metodo di insegnamento-apprendimento cui sia sottoposta la stragrande maggioranza degli italiani dai tre ai diciotto anni. Ciò comporta una serie, poco studiata, di implicazioni. Le quali, tra parentesi, sono abbastanza simili a quelle che conseguono dai metodi dell’imbonimento televisivo.
Intanto si bombarda subito il bambino con una serie di risposte già date e presentate come vere, e non si permette che nelle piccole menti acerbe si formi l’abitudine a porre domande e a cercare risposte. Difficilmente verrebbe in mente a un bambino di tre anni di domandarsi chi abbia creato il mondo. La domanda, così formulata, non è affatto spontanea e naturale, ma risente di millenni di cultura. Non può essere che una domanda indotta. Apprenderà la risposta e la ripeterà solo perché così gli è stato chiesto di fare e perché vede, che, facendolo, incontra approvazione.
Le risposte date continueranno a precedere le domande, nell’orientare il sapere. In questo modo non si trasmette la consapevolezza della storicità del sapere, della relatività dei punti di vista. Si otterrà il consenso, non la consapevolezza. Si indurrà ad aver fede nell’autorità, non a credere in se stessi e alla ricerca come metodo.
Lungo tutto il percorso degli studi una "materia" come la religione - fondata sulla credenza e sul principio di autorità - convive beatamente, nelle scuole di ogni ordine e grado, con discipline che si richiamano all’esperienza e alla razionalità scientifiche, cioè a fondamenti contrari a quelli della religione e sviluppatisi storicamente in conflitto con essa. Su menti così forgiate dalla pura ideologia faticheranno a mettere radici altri saperi.
Come stupirsi se nelle classi i visi, davanti alle sollecitazioni a pensare, restano attoniti, vagamente inebetiti? Se la lucidità e il rigore logico lasciano spazio a un disordine intellettuale in cui convivono un po’ di razionalità, un po’ di superstizione, in perfetta par condicio e non suscita problema alcuno consultare l’oroscopo e riconoscere il valore della scienza? E nessuno nota le contraddizioni, nessuno ne è disturbato o si premura perlomeno di spiegarle agli studenti. Ma se il professore, il preside, i capi non dicono niente, significa che andrà bene così. Dopotutto, è dall’alto che deve calare la predica, no?
Lei pone, per la pratica didattica nelle nostre scuole, un problema di fondamentale importanza che antecede la buona capacità o meno degli insegnanti di avviare al sapere e la buona volontà o meno degli studenti di accedervi.
Le scuole, non solo in Europa, ma in ogni parte del mondo sono state istituite dall’ordine religioso (sia esso cattolico, musulmano, ebraico, buddhista, taoista), il quale è persuaso di possedere la verità e di avere solo il compito di trasmetterla a quei vasi vuoti (vasum receptionis, diceva Paolo di Tarso) che sono le menti dei giovani. Di qui la loro passività nell’apprendimento, il loro disinteresse, la loro demotivazione.
Solo in Grecia, 2500 anni fa, con la nascita della filosofia, si affacciò un nuovo metodo che, in contrapposizione a quello "catechetico" che si pratica in ambito religioso dove si presume di possedere la verità, prese il nome di "metodo socratico".
Socrate, a differenza dei sapienti, riteneva di non possedere alcun sapere (sophia), ma solo amore per il sapere (philo-sophia), ossia di un buon metodo di ricerca per rinvenirlo, non cessando di interrogare e mettere in crisi le opinioni diffuse e condivise, ma mai verificate. Era il primo abbozzo del metodo scientifico, che rifiuta l’autorità perché questa paralizza e rende vana la ricerca.
Ciò era ben chiaro anche a Galileo che, nella sua difesa al processo che gli era stato intentato dalla Chiesa, ebbe a rispondere che sarebbe assurdo pensare che Dio abbia fornito agli uomini organi di senso e capacità mentali per scoprire i segreti della natura, la cui verità sarebbe già contenuta e rivelata nel gran libro della Bibbia.
Galileo fu costretto a ritrattare e il metodo catechetico, che abolisce la ricerca a favore dell’apprendimento passivo di una verità già costituita, ebbe il sopravvento e diventò la forma dell’insegnamento nelle nostre scuole anche quando furono laicizzate.
Se vogliamo costruire la testa ai nostri giovani dobbiamo stimolare in loro, in primo luogo, non tanto l’apprendimento quanto la "ricerca", che si combina con la naturale "curiosità" giovanile, su cui si radica l’"interesse", della cui carenza gli insegnanti sono soliti lamentarsi ogni volta che parlano con i genitori.
Ma che interesse può avere uno studente per un sapere che gli si offre come già costituito senza il suo anche minimo contributo? E ancora, che atteggiamento critico può acquisire uno studente se in tutti gli ordini di scuola che ha frequentato non gli è mai stata data la possibilità di interrogare il sapere costituito, ma solo di acquisirlo per poi riferirne nei termini in cui gli è stato insegnato? Nel metodo catechetico, invece che socratico, io vedo il peggior male della scuola e la sua funzionalità al potere, che meglio può governare se nessuno si pone domande e supinamente accetta tutto ciò che dall’alto gli viene detto.
* la Repubblica/D, 23.11.2006
Formazione: Fare domande
di Maria G. Di Rienzo °
Fare domande é l’attrezzo base per il cambiamento, giacché le domande muovono verso l’azione. Fare domande può cambiare l’intera vostra vita, può cambiare istituzioni e culture. Fare domande può rivelare il potere e i sogni che giacciono inascoltati dentro di voi e darvi la capacità di creare tecniche e soluzioni nuove. Fare domande ai vostri oppositori può spostarli verso la guarigione e la riconciliazione. Chiamiamole "domande chiave": sono quel tipo di domande che fanno la differenza. Esse danno inizio ad un processo che trasforma sia chi le pone, sia chi risponde. Quando ci apriamo ad altri punti di vista, le nostre stesse idee devono "muoversi", per accogliere informazioni diverse, nuove possibilità, tecniche differenti per risolvere i problemi. Vi hanno insegnato come fare domande? Siete state/i incoraggiate/i a farlo? E’ accettabile negli ambienti che frequentate porre domande di cui non si conoscono in anticipo le risposte?
Probabilmente no. A scuola, per esempio, ogni domanda ha la sua precisa risposta: quanto fa sei per sette? Dove morì Garibaldi? Quante mogli ebbe Enrico VIII? Noi abbiamo così appreso che le domande hanno risposte "fisse" e "corrette" e che, usualmente, vi é una sola risposta per ogni domanda. La risposta errata viene punita con una valutazione più bassa ed il vasto scenario dell’apprendere si divide in due rigidi contenitori: giusto e sbagliato. Naturalmente, sei per sette non può che fare quarantadue in questo mondo, e porre domande simili é utile per allenare la memoria, ma non offre alcuna preparazione alle questioni che le/gli studenti dovranno affrontare fuori dalla scuola.
In alcune famiglie, le bambine ed i bambini imparano che devono evitare di porre domande a cui non vi sia una risposta certa, perché ciò mette le persone adulte in imbarazzo. I genitori sembrano odiare il momento in cui devono dire "Non lo so". Può anche accadere che essi pensino meritevole di castigo o rimprovero il sentirsi porre domande imbarazzanti, al che i loro figli e le loro figlie smettono di farne. Questo é assai inefficace nella nostra epoca, in cui siamo circondati da domande che non hanno risposte immediate e certe. E se nessuno vi ha insegnato come maneggiare situazioni simili, é probabile che esse vi appaiano intimidatorie, spaventose, non risolvibili.
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Apprendere come porre "domande chiave" é il sentiero su cui trasformiamo una percezione passiva e timorosa del mondo in un’esplorazione dinamica delle informazioni e delle soluzioni di cui abbiamo bisogno. Noi siamo in grado di assemblare una risposta per quasi ogni problema. Torniamo un attimo alla scuola tradizionale. L’insegnante vi ha chiesto "Quanto fa sei per sette?" e voi avete risposto "Ventinove". Che accadrebbe se invece di replicare: "Sbagliato!", l’insegnante vi chiedesse di spiegare attraverso quale processo siete giunte/i a tale risultato? Avreste l’opportunità di apprendere, assieme alla matematica, qualcosa su voi stessi, su come si forma il vostro pensiero, su come si interviene attivamente nell’apprendimento. E l’insegnante avrebbe la possibilità di capire come migliorare l’efficacia delle tecniche che usa per spiegare la lezione. Nelle famiglie in cui il porre domande non é incoraggiato, raramente gli adulti faranno seguire al loro "Non lo so" qualcosa del tipo: "Vediamo se si può trovare una risposta". Essi sono così presi dal loro imbarazzo da non essere in grado di offrire altro. Oggi questo "altro" ve lo offro io. Non é mai troppo tardi, d’accordo?
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Ci sono sette caratteristiche principali per formulare una "domanda chiave":
a) Una "domanda chiave" crea movimento.
La maggior parte delle domande che poniamo sono statiche. Una domanda chiave chiede esplicitamente: "Come possiamo muoverci?". Si tratta di domande dinamiche, che tendono a non permettere alle situazioni di restare inchiodate dal senso di impotenza. Poniamo il banale caso che la vostra amica Sara abbia l’occasione di trasferirsi in un’abitazione che, a differenza di quella in cui vive ed é nata, é più grande, o ha un giardino, ecc. Sara é molto attaccata alle sue origini e pur essendo tentata non sa cosa fare. Voi potete dirle: "E’ un’occasione. Perché non ti trasferisci?", ma non le sarete di molto aiuto. Le state facendo un suggerimento, non una domanda. Per le vostre ragioni, quali esse siano, voi pensate che dovrebbe trasferirsi, ed é probabile che più farete pressione in questo senso, più Sara si irrigidirà. Una "domanda chiave" potrebbe invece essere: "In che tipo di posto ti piacerebbe trasferirti, se volessi farlo?"; oppure: "Che posto ti viene in mente se pensi ad un futuro felice?", o ancora: "Che significato ha il cambiare residenza, nella tua vita?". Sara, in questo modo, viene incoraggiata a parlare delle qualità delle sue scelte, dei suoi scopi e di come raggiungerli: ed é in questo che potete aiutarla.
Porre domande simili può muovere le persone verso l’attivismo: "Che cosa ti piacerebbe fare per ripulire il fiume dall’inquinamento?", "Che cosa potresti fare per la pace?". Molte idee di valore nascono dalle repliche: soprattutto perché le domande implicano il valore delle persone a cui vengono poste, sottintendono la loro volontà e la loro capacità di cambiamento. Quando ci troviamo incastrate/i in un problema, ciò che ci trattiene dall’agire per il cambiamento é la mancanza di informazioni, o l’aver sperimentato una ferita personale rispetto all’istanza che stiamo fronteggiando, o il percepire che non vi sia posto e modo per muoverci rispetto ad essa. Quando io pongo la domanda: "Cosa ti piacerebbe fare per ripulire il fiume?" apro una porta, e invito le persone a muoversi oltre la sofferenza, il senso di colpa e di impotenza relativi all’inquinamento; le invito a sognare attivamente ed a creare il proprio contributo originale.
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b) Una "domanda chiave" crea opzioni.
Se chiedete a Sara: "Perché non ti trasferisci in quella casa?", state ponendo una questione che é dinamica solo in un senso (quella casa) e limitate le opzioni a disposizione della vostra amica. Una "domanda chiave", che é più potente, ne offrirà altre: "In che tipo di posto ti piacerebbe trasferirti?". E’ importante riuscire ad uscire dal pensiero binario (o/o) per porre domande di questo tipo: usualmente noi consideriamo solo due opzioni e non facciamo lo sforzo creativo di guardare a tutte le possibilità. Mi si dirà che la scelta fra due opzioni ci é familiare, e che é più facile operare scelte in questo modo, ma rifletteteci un attimo: poiché due alternative sono comunque più complesse di una, allora perché non smettere semplicemente di pensare? Prendete quest’altra situazione. Una giovane donna decide all’improvviso di andarsene di casa: in famiglia si é litigato spesso, la ragazza ha avuto problemi seri di qualsiasi tipo, ecc. La madre sa che treno prenderà la figlia e dove ella é diretta, e pensa di avere solo due opzioni a disposizione: lasciarla andare, o correre alla stazione e tentare di convincerla a non prendere il treno. Pensando creativamente, ovvero ponendosi la domanda: "Cos’altro potrei fare per agire questo conflitto in modo positivo?", la madre potrebbe avere l’idea di prendere il treno con la figlia, e di parlare con lei durante le sei ore di viaggio...
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c) Una "domanda chiave" va a fondo.
Avete mai provato ad aprire un barattolo di pittura murale quando il coperchio si é incrostato con la pittura secca? Certo, avete fatto leva con qualcosa. E avete usato un bastoncino per rimestare la pittura, andando a fondo. Con le "domande chiave" é lo stesso. Alcune persone affrontano i problemi come se le loro teste fossero barattoli con il coperchio incrostato: se ponete loro la domanda che fa leva, e se questa riesce a smuoverle in profondità, vedrete scaturire da quelle teste una miriade di soluzioni creative, innovative, originali.
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d) Una "domanda chiave" evita il "perché".
Ricordate Sara? Quando le avete chiesto "perché" non si trasferiva, la vostra domanda intendeva conoscere le ragioni per cui lei non avrebbe voluto farlo, piuttosto che creare un contesto creativo sulla questione. Molti "perché" sono di questo tipo. Forzano a difendere la prima decisione presa e creano resistenza al cambiamento. Riuscite a percepire la differenza fra il chiedere: "Perché non vieni più alle riunioni?" e "Cosa ti trattiene, o ti impedisce, dal partecipare al lavoro di gruppo?". Chiedere "perché" può servire quando state definendo valori e significato del vostro gruppo o del vostro lavoro, ma in generale é una leva corta.
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e) Una "domanda chiave" viene formulata in modo da evitare le risposte "sì/no".
Una domanda a cui si possa rispondere solo sì o no é un vicolo cieco: lascia la persona a cui é stata fatta in uno stato passivo, non creativo, e non incoraggia l’approfondimento della questione. Fate una prova: mettetevi d’accordo con qualcuno (il vostro migliore amico, vostro marito o vostra moglie, il vostro gruppo di attiviste/i, ecc.) e per una giornata riformulate tutte le domande che vi ponete l’un l’altro di modo da rendere impossibile rispondere solo sì o no. Preparatevi a dire, felici e meravigliati, il giorno dopo: "Non ho mai parlato tanto in vita mia. Sembra che in realtà ci conoscessimo assai meno di quel che credevamo".
* f) Una "domanda chiave" dà potere.
Essa crea infatti fiducia: la fiducia che ci si può muovere insieme, e che ciascuno ha la capacità di intervenire. La domanda "Cosa ti piacerebbe fare per ripulire il fiume dall’inquinamento?" implica che colui/colei a cui viene posta ha il potere di cambiare qualcosa, ha una parte attiva nel processo di guarigione. E questo non é limitato ai nostri amici e compagni. Una delle domande da fare sempre, ove possibile, ai nostri oppositori é: "Cosa potrebbe indurla a cambiare idea sulla questione?". Ciò significa che noi intendiamo percorrere con essi il sentiero della trasformazione, che abbiamo fiducia nella loro capacità di cambiamento. Immaginate che io vada a protestare contro un’azienda agricola i cui lavoratori stanno tagliando alberi centenari e chieda loro: "Cosa potrebbe farvi cambiare idea, e indurvi a non tagliare alberi così antichi?". La domanda é un invito a chi ha in mano la sega a posarla un attimo, per trovare con me opzioni differenti. I lavoratori potrebbero rendermi palesi i loro ostacoli e i loro bisogni, io potrei porre alla loro attenzione le preoccupazioni dell’intera comunità per quell’area, ecc. Se questo approccio riesce, la pianificazione risultante dal dialogo molto probabilmente non sarà la prima opzione che entrambe le parti avevano in mente, ma una nuova via che terrà insieme gli interessi di tutti. Dare potere é l’opposto della manipolazione. Quando usate le "domande chiave" permettete alle persone di tirar fuori ciò che avevano in testa e di lavorarci sopra, piuttosto che cercare di stipare le vostre idee nei loro cervelli.
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g) Una "domanda chiave" chiede ciò che non si deve chiedere.
Per ogni individuo, gruppo o società esistono delle domande tabù. Una "domanda chiave" é spesso una di queste, perché mette in discussione strutture, valori e assunti di base su cui l’istanza in questione si regge. Dunque, pensate a quella fiaba in cui l’imperatore, convinto di indossare dei meravigliosi abiti, si presenta nudo ad una parata. C’é un bambino, o una bambina, che fa la domanda tabù: "Perché l’imperatore é senza vestiti?". Se il piccolo o la piccola fossero stati attivisti politici avrebbero magari fatto altre domande tabù: "Abbiamo davvero bisogno dell’imperatore?"; oppure "Come potremmo avere un governo più saggio di questo?". Ragionare su valori, abitudini, schemi di pensiero e azione, é essenziale per il cambiamento. Se riuscite a farlo in maniera non faziosa, senza suscitare in chi parla con voi imbarazzo o senso di colpa, ma dirigendo le vostre domande verso il comune futuro, avrete reso un incomparabile servizio all’istanza di cui vi occupate.
° Fonte: La nonviolenza in cammino, Numero 546 del 25 marzo 2003
il superamento dell’odio e della vendetta nella direzione della giustizia (il terzo) è un cammino ancora da compiere (U. Galimberti)
Due punti di vista, per un obiettivo: trovare soluzioni ai conflitti
Ottenendo l’indipendenza si riconquista la propria identità?quali sono i confini della mente? abbiamo davvero bisogno di un leader? ne parlano Vamik Volkan e Umberto Galimberti. *
Vamik Volkan:
"Nelle aree di conflitto non si può dire che oggi manchi il dialogo. Anzi, c’è una comunicazione costante: ci sono i governi impegnati in questo, ci sono le organizzazioni non governative (ong) e le diverse fondazioni. Sono tutti concentrati a far dialogare tutti con tutti. Io stesso, da psicoanalista, sono stato coinvolto in colloqui con diplomatici e personalità politiche e mi è stato chiesto di capire come mai nei grandi gruppi avvengano certe dinamiche di tensione.
Esistono scambi ufficiali e altri che non lo sono, ma che comunque possono essere determinanti. Durante la guerra tra Israele ed Egitto, un ruolo importante l’ha avuto per esempio un giornalista della CBS news, che ha fatto da vero trait d’union tra i due Paesi, più di quanto forse non abbiano fatto i rispettivi assetti istituzionali. Oggi poi ci sono molte, forse troppe, ong. Sono ovunque: alcune non appartengono a nessuno, altre sono affiliate a gruppi religiosi, altre sono legate all’Onu. E se è vero che queste associazioni smuovono parecchie cose e sono in grado di riunire moltissimi ragazzi, è anche vero che spesso scivolano in errori che stanno diventando sempre più lampanti.
Penso alla gestione dei rapporti tra serbi e croati: è stato un disastro. Alcune ong si sono impegnate ad avvicinare i ragazzini serbi ai croati, facendo fare loro dei viaggi insieme od organizzando partite di pallone in giro per il mondo. Poi però quando ognuno di loro tornava in patria, a casa sua, veniva trattato dagli altri quasi alla stregua di un traditore. Si sono creati non pochi problemi in seguito a queste iniziative alternative. È diventata una moda del XXI secolo: si vogliono creare ponti, accordi, alleanze e amicizie. Ma bisogna saper fare le cose, bisogna avere un approccio sistematico e i diplomatici ufficiali sono stanchi di queste persone che pretendono di dire la loro, con modalità non sempre corrette".
Umberto Galimberti:
"Per dialogare la precondizione è che io riesca a catturare la simbolica dell’altro, i suoi valori di fondo, la cultura che sostiene la sua posizione. Questa simbolica dell’altro è inconscia e si verifica anche nei rapporti duali, d’amore. Per cui due innamorati si comprendono al di là delle parole perché conoscono i valori di riferimento a partire dai quali l’altro parla. È la stessa condizione da cui è nata la filosofia che ha inaugurato il dialogo, il dialogo socratico: per parlare ci deve essere un rapporto di philia, ovvero l’atteggiamento non deve essere quello di superare l’avversario e vincere la partita (euristica), ma di comprendere le ragioni per cui l’altro sostiene le sue tesi. Ne consegue che la comunicazione è un’impresa assolutamente difficile e finché non si perviene alla comprensione di queste ragioni, il dialogo è solo una forma di buona educazione dove ciascuno resta dalla sua parte".
LA CONQUISTA DELL’INDIPENDENZA
Vamik Volkan:
"Molte etnie sono state colonizzate e sono diventate indipendenti. Per alcune è stato un bene e hanno reagito positivamente, per altre è stato un danno, una rovina. Detto questo è vero che ci sono problemi condivisi nel momento in cui si recupera la propria indipendenza. Un popolo che vive sotto un altro popolo, è come se si appropriasse dell’identità del Paese che lo sta colonizzando, si identifica con questo. Allo stesso tempo, però, come nel caso dell’Estonia, della Lettonia e della Lituania, ognuno ha comunque la sua singola identità. Dopo il crollo dell’Impero Ottomano, gli europei fecero delle linee dritte - che si possono notare ancora adesso - per dividere il loro territorio dal Medio Oriente. E in Africa, con queste demarcazioni così nette, sono stati divisi interi gruppi etnici che si sono ritrovati separati da una parte e dall’altra del confine. E questo, di necessità, ha creato un’assoluta disgregazione delle tribù.
Poi può succedere come è accaduto alla Georgia e all’Ossezia. Dopo aver conseguito l’indipendenza, nel 1991, la Georgia ha abolito l’enclave autonoma osseta provocando una migrazione di molta della popolazione dall’Ossezia del Sud (della Georgia) all’Ossezia del Nord (della Russia). Gli abitanti dell’Ossezia del Sud, che si sono trovati in conflitto con la Georgia, hanno pensato di fare fronte comune con gli abitanti dell’Ossezia del Nord, che, sebbene fossero "diversi" perché facevano parte della federazione russa, erano, però, comunque osseti e non georgiani. Un’indipendenza, dunque, che ha messo sul piatto tutto il problema dell’identità.
Un’altra questione è che noi occidentali ci sentiamo così onnipotenti, così forti, che quando decidiamo di aiutare i Paesi in via di sviluppo pretendiamo che questi diventino a nostra immagine e somiglianza. Per queste popolazioni invece ci vogliono decenni per imparare cose che noi diamo per scontate".
Umberto Galimberti:
"Rispetto ai popoli, il singolo è più disposto a cedere la propria indipendenza per ragioni di protezione. È il caso di molte donne che, soprattutto nelle generazioni che ci hanno preceduto, pur di garantirsi la protezione economica rinunciavano alla propria indipendenza. E questo, che era particolarmente evidente un tempo, non è comunque estinto neppure oggi. Jung istituisce come scopo di un percorso analitico il conseguimento della propria individuazione, seguendo il detto di Nietzsche: "diventa ciò che sei". Però, per riuscirci, ci vogliono dei vantaggi sociali, come la ricchezza, la forza di carattere, la capacità di non dipendere dall’altro. L’indipendenza è così un privilegio di chi ha le condizioni oggettive per esserlo. Sarebbero più facili le separazioni coniugali se le condizioni oggettive di indipendenza fossero disponibili come invece non sempre sono. Nel caso dei popoli, invece, l’indipendenza coincide rigorosamente con la propria identità e l’identità affonda le sue radici nel dato antropologico che antecede quello politico e persino quello economico. In un mondo globalizzato noi occidentali, che abbiamo fatto del denaro il generatore simbolico di tutti i valori, possiamo tranquillamente prescindere dal dato antropologico dell’identità a differenza invece dei Paesi poveri dove l’unico dato di riconoscimento è nell’appartenenza alla stessa cultura, la condivisione della stessa tradizione".
CHE COS’È L’APPARTENENZA?
Vamik Volkan:
"Ci sono diversi elementi che creano un’identità di gruppo. Un grande gruppo è fatto da milioni di persone che non si incontreranno mai. E, nonostante le sue divisioni interne, un gruppo è capace velocemente di ricompattarsi. Prendiamo l’Italia per esempio. C’è l’Italia del Nord e l’Italia del Sud, che ci tengono a essere ben distinte. Poi però immaginiamo che gli albanesi vengano in Italia e invadano l’Italia del Sud. Bene, in realtà l’Italia intera si sentirebbe attaccata: non farebbe più differenza se l’attacco è stato al Nord o al Sud. La verità è che quando c’è un trauma, le differenze si annullano e il trauma diventa condiviso. Ogni Paese individua dei simboli, che possono essere degli animali, una montagna, un piatto caratteristico e li identifica come simboli della propria appartenenza. Così, per esempio, per i finlandesi lo è la sauna e per gli italiani i maccheroni o la pizza: sono elementi di coesione, nonostante tutte le altre differenze, magari anche più sostanziali. Guardiamo ai Paesi che io chiamo "sintetici", come può esserlo Israele. Israele ha una forte connessione religiosa, ma è composto da realtà molto disparate: ci sono gli askenazi, i safarditi, le vittime dell’Olocausto e quelli che non hanno vissuto l’Olocausto, ci sono quelli che arrivano dall’Etiopia e i russi. Ma come si fa a creare un’identità israelita e tenere unite tutte queste realtà? In Israele hanno addirittura un ministro che se ne occupa: c’è il cosiddetto ministero dell’assorbimento. Ero ospite al cinquantesimo anniversario dello Stato ebraico e, in quell’occasione, il tema dominante era proprio questo: come mettere tutti insieme? Spesso, infatti, per creare coesione si ha bisogno di focalizzare un nemico comune: il nemico serve a rafforzare la propria identità. E lo stesso vale per i palestinesi, per i musulmani in generale, per gli americani. Se non si capisce questo scoglio, non ci sarà mai una reale soluzione del conflitto".
Umberto Galimberti: "Stabilire identità e appartenenza a partire dall’individuazione di un nemico è la macchina più antica del mondo e siccome anche noi occidentali procediamo secondo questo schema il nostro "progresso" sembra faccia acqua da tutte le parti. Di per sé identità e appartenenza sono tra di loro antitetiche. Nel senso che l’identità è ciò che si individua a scapito dell’appartenenza. L’adolescente che cerca la sua strada è obbligato a sganciarsi dalla famiglia di appartenenza (i genitori ne sanno qualcosa).
Ancora una volta però dobbiamo dire che l’identità è di coloro che si possono permettere di prescindere dall’appartenenza, come ad esempio i ricchi: i deboli sono invece costretti a reperire la loro identità nell’appartenenza. Questa è la ragione per cui noi occidentali, essendo i più ricchi del mondo, e avendo sviluppato per secoli il concetto di individuo, siamo facilitati nel prescindere dall’appartenenza. Un giocatore nero che sia valido sul campo è più legato alla sua identità che al legame con la sua tribù d’origine. I ricchi si intendono al di là delle appartenenze etniche. Per cui potremmo dire che l’appartenenza è il sostegno dei poveri, e invece l’identità che prescinde dall’appartenenza è il privilegio dei ricchi".
TROVARE IL PROPRIO LEADER
Vamik Volkan:
"Quando una società è in crisi, di solito crea un leader con una personalità narcisistica. La gente cerca un salvatore. D’altra parte un buon leader deve essere un narcisista, perché si deve sentire a suo agio nell’essere il numero uno. E un buon leader deve essere anche un po’ paranoico, perché deve avere sempre sotto controllo la propria popolazione. Poi, di certo, è bene che sia intelligente e che abbia sense of humor.
Caratteristiche non facili da avere tutte insieme. La personalità del capo, nelle situazioni difficili, è importante, determinante direi. Se il leader regredisce a livello della società, se arriva a provare le stesse ansie che prova la sua nazione è grave e negativo. Colui che sta al comando deve distinguere i pericoli reali dai pericoli fantasticati ed esagerati: solo così la società può trarne beneficio.
Farò due esempi, per capirci meglio. Un caso positivo è sicuramente quello di Nelson Mandela: lui di certo non si è ridotto a provare le paure e le umiliazioni della sua gente. Racconterò un episodio esplicativo: tre mesi prima che lui prendesse il potere, era a un meeting con il suo futuro governo. Ricevette una telefonata e dovette uscire per un quarto d’ora. Quando tornò, gli altri gli dissero: "Abbiamo preso una decisione mentre tu non c’eri: cambieremo l’inno nazionale. Quello che c’è è pensato per i bianchi...". Mandela si contrariò: "Non potete farlo, umiliereste la nostra gente: l’inno è un simbolo della loro identità". Era riuscito ad avere una visione più ampia. Al contrario George Bush, quando ci fu l’11 settembre, cedette ai timori del suo popolo e contribuì ad incrementarli. All’improvviso questo grande Paese era stato umiliato e per lui si trattò di un’umiliazione personale. Fu lì che perse la sua battaglia da leader".
Umberto Galimberti:
"Confermo che il leader per essere tale deve essere un narcisista e paranoico e ciò in omaggio a quanto ci racconta Jung secondo il quale non tutte le nevrosi devono essere guarite, alcune possono essere utilizzate. Il problema è che il leader crea una società di massa. Il solo fatto che la massa desideri un leader rivela la condizione infantile del bambino che senza il padre non sa sopravvivere. Il leader era particolarmente in auge nella società umanistica che io ritengo conclusa con la Seconda Guerra Mondiale dove si riteneva che un uomo potesse risolvere i problemi di un Paese. Questo spiega perché in Occidente un Hitler, un Mussolini, uno Stalin non possono più affermarsi: nelle società complesse, come quelle di oggi le dinamiche sono troppo complicate perché un singolo uomo possa tenerne il controllo.
Nella stessa America il presidente degli Stati Uniti è un leader costruito. In realtà è un rappresentante della composizione di interessi che stanno alle sue spalle. E così, anche nel campo del lavoro la figura del leader è pressoché sparita: al massimo abbiamo a che fare con dei capoufficio dove la dimensione del mansionario e della procedura prevale sulla personalità di chi comanda.
Troviamo invece dimensioni da leader in quelle forme sociali primitive come la mafia, dove la personalità del singolo è decisiva per l’organizzazione. Il leader infatti è tale se riesce a muovere le paure e le fascinazioni dei suoi subordinati, quindi se opera su fattori irrazionali. Leader ad esempio sono i capi religiosi (di qualsiasi religione), ma si sa che le religioni affondano le loro radici nella parte irrazionale di ciascuno di noi, giocando sulle nostre paure, le nostre ansie, il nostro desiderio di reperire un senso. In ogni caso dove c’è un leader si ha la regressione infantile di un popolo a massa. Consiglio di leggere, in proposito, il bellissimo saggio di Freud sulla psicologia delle masse".
L’ODIO PERPETUO
Vamik Volkan:
"L’odio è necessario per creare un’identità di popolo. E questo odio viene portato avanti per anni e anni. Si è notato come non si riesca a capovolgere la propria umiliazione, né la propria impotenza, né si riesca a elaborare il lutto fino in fondo se si sono avute delle perdite gravi. Così, se le madri e i padri non risolvono questi nodi, li delegano ai propri figli. E se i figli si dovessero trovare nella stessa situazione di crisi, passerebbero la questione alla generazione successiva. Finché queste situazioni di conflitto non diventano croniche, insite nell’essere di quel popolo: ci si sente in diritto di provare odio e di considerare il nemico quasi non umano. I confini fisici diventano confini della mente. Ma, benché tutto ciò sia risaputo è come se mancasse uno sforzo sistematico e globale per risolvere la grande questione del conflitto".
Umberto Galimberti:
"Odio e vendetta sono le grandi macchine che garantiscono identità e appartenenza. Infatti nell’odio e nella vendetta sono in gioco le soggettività dei contendenti. E questo vale nel rapporto tra i vicini di casa fino all’odio dei popoli. Questa situazione è stata pensata e tematizzata dalla cultura greca prima dell’avvento della filosofia, nella grande stagione della tragedia. Le tragedie avevano un andamento triadico, raccontavano la storia dei padri quella successiva dei figli e la terza dei nipoti in cui si perpetuava il rapporto dell’odio e della vendetta.
Il superamento di questa dimensione è stato istituito con l’inaugurazione del dikasterion (tribunale) dove dike, la giustizia, toglieva il conflitto, la carica soggettiva, e giudicava i fatti oggettivamente cosa che non può essere fatta dai due contendenti ma solo da un terzo, che non è soggettivamente coinvolto. Questo il grande lavoro della mediazione che prevede sempre un terzo, che, esonerato dalle cariche soggettive di odio e di vendetta, sia in grado di computare colpe e pene sul piano oggettivo.
I greci l’avevano capito e in questa direzione si è mosso l’Occidente che ha fondato un ordine giuridico laico anche se ancora questo ordine giuridico subisce le pressioni della soggettività di solito politica o affaristica. Per cui il superamento dell’odio e della vendetta nella direzione della giustizia (il terzo) è un cammino ancora da compiere".
* la Repubblica/D, n. 556, 07.07.2007