TERRA |
Italiano - buon Natale e felice anno nuovo
Aragonese - Goyosa Nadal y millor año nuebo
Asturiano - bon Nadal y feliz añu nuevu
Basco - zorionak eta urte berri on
Bolognese - bån Nadèl e un ân nôv pén ed felizitè
Bresciano - bon Nedal e bu an nof
Bretone - Nedeleg laouen ha bloavezh mat
Calabrese - buonu Natali e filici annu nuovu
Cornish - Nadelik lowen ha blydhen nowydh da
Croato - cestit Božic i sretna nova godina
Danese - glædelig jul og godt nytår
Esperanto - felican Kristnaskon kaj prosperan Novjaron
Estone - häid Jõule ja õnnelikku uut aastat
Ferrarese - auguri’d bon Nadal e bon an nòv
Fiammingo - zalig Kerstmis en gelukkig Nieuwjaar
Francese - joyeux Noël et bonne année
Friulano - bon Nadâl e bon an gnûf
Galiziano - bo Nadal e próspero aninovo
Gallese - Nadolig llawen a blwyddyn newydd dda
Genovese - bon Denâ e feliçe anno neuo
Giudeo Spagnolo - Noel alegre i felis anyo muevo
Griko Salentino - Kalò Kristù ce na chrono nèo comào ’zze charà
Inglese - merry Christmas and a happy New Year
Italiano - buon Natale e felice anno nuovo
Latino - Natale hilare et annum faustum
Leonese - Bon Nadal y Prestosu Añu Nuevu
Limburghese - ne zaolige Kiësmes, e gelèkkig Nauwjoër, ên al wo wènselek ès!
Mantovano - bon Nadal e bon an
Mapunzugun - ayüwün-ngechi lleqün antü ka küpalechi we tripantu
Modenese - bòun Nadêl e bòun ân
Napoletano - buonu Natale e felice nuov’anno
Norvegese - god Jul og godt nyttår
Olandese - prettige kerstdagen en een gelukkig nieuwjaar
Papiamento - Bon Pasku i Felis Aña Nobo
Parmigiano - bon Nadèl e dla felicitè par al an nòv
Piemontese - Bon Natal e Bon Ann neuv
Polacco - Wesolych Swiat i szczesliwego Nowego Roku
Portoghese - bom Natal e feliz Ano Novo
Portoghese Brasiliano - feliz natal e um feliz ano novo
Rapanui - koa ite navidad ote mata hiti api
Romagnolo - bon Nadél e feliz ’an nov
Siciliano - bon Natali e filici annu novu
Spagnolo - feliz Navidad y próspero año nuevo
Svedese - god jul och gott nytt år
Tedesco - frohe Weihnachten und ein schönes neues Jahr
Umbro-Sabino - bon Natale e fecunnu annu nòu
Ungherese - békés karácsonyt és boldog új évet
Veneziano - Bon Nadal e Bon Ano Nóvo
fonte:Logos Quotes
Direttore artistico Marco Balich, già ideatore e produttore delle cerimonie delle Olimpiadi di Torino
Capodanno 2008, a Venezia per il bacio collettivo
Il progetto ’LoVe 2008’ vuole riunire 60mila persone che si vogliano baciare in piazza San Marco allo scoccare della mezzanotte. Un’immagine che ’’farà il giro del mondo’’. Per preparare l’evento ci sarà persino un casting, il 18 e 19 dicembre, per trovare 100 coppie disposte a farsi immortalare
Roma, 10 dic. (Adnkronos) - Un bacio collettivo a Capodanno in piazza San Marco. E’ l’ambizioso progetto di Venezia che punta a conquistare un posto di primissimo piano tra le immagini del Capodanno che faranno il giro del mondo.
Il progetto è stato presentato, alla presenza del sindaco Massimo Cacciari, questa mattina da ’Venezia Marketing Eventi’, la nuova società costituita e partecipata dal Casinò di Venezia. Un progetto chiamato ’LoVe 2008’, un format destinato a cambiare l’immagine del Capodanno veneziano: 60mila persone si baceranno in piazza San Marco allo scoccare della mezzanotte.
Per preparare l’evento ci sarà, il 18 e 19 dicembre, persino un casting per trovare 100 coppie che hanno voglia di baciarsi.
’’Vogliamo che Venezia diventi la quinta immagine del Capodanno che passa nei tg e nei media di tutto il mondo, insieme a quella di Sidney, Londra, Parigi e New York - spiega Marco Balich, direttore artistico di ’Venezia Marketing Eventi’ e già ideatore e produttore delle cerimonie di apertura e chiusura delle Olimpiadi di Torino - Abbiamo proposto un format, un gesto che si ripeterà ogni anno, legato al concetto di Venezia come città romantica e capitale della pace e dell’amore universale: il bacio. A Piazza San Marco ci saranno 60 mila persone che parteciperanno a questo bacio collettivo per un’immagine che girerà il mondo. Il bacio è un gesto meraviglioso, che appartiene agli anziani e ai giovani e che toglie quell’aggressività che a volte è protagonista negativa del Capodanno nelle città’’.
Nulla sarà casuale: a gestire l’evento è stato chiamato un maestro di cerimonie come Doug Jack, coreografo e staging director che ha realizzato le movimentazioni di massa per 6 cerimonie olimpiche.
Si inizierà alle 22.45 del 31 dicembre con la prima azione che prevede il bacio di 200 coppie di ’baciatori’. Un quarto d’ora dopo ancora un’azione di prova di bacio collettivo. Alle 23.45 terza azione di prova, poi il countdown della Torre dell’orologio tra un medley di canzoni d’amore e azioni coreografiche fino ad arrivare a 20 secondi dopo la mezzanotte quando ci sarà l’azione vera e propria con il bacio di 60mila persone.
’’Si tratta - spiega il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari - della prima iniziativa organizzata dalla nuova società ’Venezia Marketing Eventi’, nata dal desiderio di creare una struttura ad hoc che possa dedicarsi, per organizzazione e tempo, agli eventi. Sarà una società fortemente partecipata dal privato. Si trattava di inventare l’immagine del Capodanno e del Carnevale di Venezia, un’immagine che ogni anno potesse ripetersi in modo da facilitare la ricerca di artisti e sponsor. L’obiettivo è che l’insieme delle manifestazioni veneziane si autosostenga’’.
’’Il costo complessivo - spiega Mauro Pizzigati, presidente del Casinò di Venezia e della neonata società - è invariato rispetto a quello dello scorso anno, 300.000 euro: ci stiamo già muovendo in modo decisivo in termini di sponsorizzazioni’’.
In linea con la nuova immagine, il logo scelto dalla manifestazione, ’LoVe 2008’ ha colori contemporanei e psichedelici, oltre che la ’V’ di Venezia come simbolo.
Tra storia e leggenda, il loro culto rivive nella tradizione
Epifania, a Betlemme seguendo la stella: i Re Magi
Nel mondo cristiano il 6 gennaio è una delle principali feste religiose dell’anno: è la venuta dei sovrani a Gesù e il primo manifestarsi di Cristo all’umanità *
Roma, 4 gen. (Ign) - Sono le ultime statuine a impreziosire il presepe. Sono il simbolo dell’incontro tra Occidente e Oriente. Sono venuti da lontano seguendo una stella per “adorare il Re dei Giudei”. Sono i Re Magi. Tra storia e leggenda hanno attraversato secoli per rivivere nel nostro immaginario come i tre saggi che il 6 gennaio portano in dono a Gesù l’oro, l’incenso e la mirra. L’Epifania, è, infatti, nel mondo cristiano una delle principali feste religiose dell’anno. Dal greco ‘Epifaneia’, ovvero ‘manifestazione’, rappresenta secondo la tradizione cristiano-cattolica, la venuta dei Re Magi a Gesù e, quindi, il primo manifestarsi di Cristo all’umanità. Più profana che sacra, ma legata alla storia dei Magi, l’Epifania è anche la festa della Befana. (Fotogallery)
La storia dei Magi comincia intorno agli anni 120-140, ma nuovi elementi sono poi comparsi nel corso del tempo in considerazione anche che le Sacre Scritture non documentano molto sulla identità e il viaggio compiuto dai tre personaggi. Solo il Vangelo di Matteo, infatti, parla del’episodio (2.1-2.2) “Nato Gesù in Betleem di Giuda, al tempo di Re Erode, ecco dei Magi arrivarono dall’Oriente a Gerusalemme, e chiesero: ‘Dov’è il Re dei Giudei nato da poco? Perché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo’”.
Sui Magi invece dai Vangeli Apocrifi si possono trarre più notizie. Soprattutto da ’’Il libro della Caverna dei Tesori’’, di origine siriaca e l’’’Historia Trigum Regum’’ di Giovanni da Hildesheim, è stato possibile raccogliere elementi importanti per tracciare la loro storia e il loro viaggio. Ma anche mettendo assieme tutte le fonti in nostro possesso (anche Marco Polo ne parla nel "Milione") rimane comunque incerta la loro provenienza (dalla Persia?). Quello che si sa è che erano in tre, sovrani o sacerdoti, a cui corrispondevano i nomi latini di Balthasar (Baldassarre), Caspar (Gasparre) e Melchior (Melchiorre). E rispettivamente furono i portatori a Gesù di oro, incenso e mirra, doni emblematici (maestà divina, regale potestà ed umana mortalità) che usualmente Persiani e Caldei usavano regalare ad un re. Altri simboli sono i colori associati ai tre saggi: il bianco, ovvero l’aurora; il rosso che rappresenta il mezzogiorno; e il nero la notte.
Ma nel labirinto della simbologia legata ai Magi è proprio il caso di dire che brilla una stella. Il viaggio dei Re Magi, è, infatti, legato alla stella cometa che guidò il loro cammino da Oriente verso Betlemme. Messa più volte in dubbio la sua esistenza è stata ipotizzata la sua identificazione con la cometa di Halley. Ma l’ultima ipotesi avanzata è di poche settimane fa. Si tratta di una riedizione del ’600 che conferma, infatti, calcoli già effettuati 4 secoli fa da Keplero: un particolare allineamento di pianeti nel sistema solare, con Giove e Saturno principali protagonisti, potrebbe essere stato l’evento astrale rilevato dagli astronomi/astrologi del primo secolo. A spiegarlo l’astronomo Juergen Hamel in un’intervista pubblicata il mese scorso sul settimanale Die Zeit.
Avvolta nel mistero anche la sepoltura dei Re Magi. Morirono in Oriente ma il vescovo milanese Eustorgio, ottenne la possibilità di traslare le spoglie dei tre saggi a Milano. Secondo la tradizione le salme sono state trasportate all’interno di un grosso sarcofago ancora oggi presente nella Cappella dei Magi nella Basilica milanese di Sant’Eustorgio dove, infatti, qui è particolarmente vivo il culto dei Re Magi. Le reliquie, però, passarono nel 1164 nella cattedrale di Colonia. Il reliquiario fu poi danneggiato nel corso della seconda guerra mondiale e restaurato nel 1973, anno in cui l’arcivescovo di Colonia decise di restituire un frammento dei Magi alla chiesa di Sant’Eustorgio di Milano.
* adnkronos. 04.01.2007.
La lunga notte
di Furio Colombo *
Mi piacerebbe dire che questo - il giorno in cui il mondo, adulti e bambini, ha visto in televisione l’impiccagione di Saddam Hussein - è un giorno da dimenticare. Purtroppo non lo dimenticheremo. Nessuno di noi pensava di appartenere a una civiltà e a un tempo in cui puoi chiamare «vittoria per la democrazia» l’enorme cappio che boia mascherati mettono al collo di un uomo che li guarda e che ti guarda. La nostra presenza tramite la televisione dichiara e conferma la squallida verità: siamo i testimoni partecipi di un periodo barbaro. Stiamo attraversando una lunga notte di violenza stupida e inutile che ci mette tutti sullo stesso piano.
Hanno perso San Francesco e Ghandi. A causa dell’ottusa visione del mondo di George Bush e di Tony Blair, resta al centro della scena il volto di quell’uomo che muore col cappio al collo. In un mondo di immagini è lui il vincitore. I cosiddetti carnefici iracheni di Saddam Hussein non sono altro che povere comparse. Sono, come è giusto, mascherati perché non esistono. Sono parte di una spaventosa e negata guerra civile. A quella guerra civile, impiccando Saddam, hanno dato una nuova, poderosa fiammata. Lo hanno fatto su mandato e per ordine di due leader del mondo che credevamo moderno e civile. Qualcuno ha detto alla radio: «Nessun danno. Gli arabi amano la vendetta». Affermazione imbarazzante, razzista ma anche falsa. Infatti abbiamo assistito, angosciati e impotenti, alla vendetta ordinata dai capi di due grandi democrazie.
Ma c’è un riscatto per noi italiani, ed è bene dirlo con riconoscenza e persino con orgoglio. Ho scritto che non possiamo illuderci di dimenticare il cappio che penzola accanto a un uomo vivo da mettere a morte come rito di fine d’anno, celebrato, con inconsapevole scherno, come «giustizia» e «democrazia». Allo stesso modo, per la stessa ragione non dovremo dimenticare il «no» febbrile e irremovibile di Marco Pannella, non solo a tutte le esecuzioni (che è stato l’impegno militante e non violento di tutta la sua vita) ma a questa esecuzione. Perché in questa esecuzione non era in gioco l’innocenza o la colpa (che è immensa) di Saddam Hussein, ma la nostra. A parte alcune civili dichiarazioni di governo e di opposizione contro una decisione che ci identifica con i boia mascherati, solo la voce, il gesto, il digiuno, l’ostinazione di Marco Pannella hanno reso meno solitaria l’umiliazione di chi è stato costretto a veder penzolare quel cappio e, con orrore, ha sentito pronunciare la frase: «si tratta di una pietra miliare per la democrazia». Invece, ci ha detto Pannella, è una pietra tombale. Dobbiamo dirgli grazie, perché la sua testimonianza ci riporta nel mondo della ragione.
* l’Unità, Pubblicato il: 31.12.06, Modificato il: 31.12.06 alle ore 9.48
Dal Sole a Gesù, la lunga storia del 25 dicembre
di Manlio Simonetti (Avvenire, 21.12.2006)
Quando, nel IV secolo, il cristianesimo viene favorito dagl’imperatori fino ad assurgere a religione di Stato, la Chiesa attivamente si adopera per la cristianizzazione, oltre che dello spazio, anche del tempo, e a tal fine pratica pure la sovrapposizione di festività cristiane a precedenti celebrazione pagane: la più importante fu la sostituzione, il 25 dicembre, della festività romana del Sol invictus col giorno commemorativo della natività di Gesù. La sovrapposizione fu tutt’altro che casuale in quanto ebbe precisa motivazione ideologica. Vediamo perché.
Siamo nell’antica Roma: nel mese di dicembre sono terminati i lavori dei campi e il solstizio invernale comporta il giorno più breve dell’anno; come il tempo oscuro prevale su quello luminoso, così si conclude il ciclo dei lavori dei campi: è un periodo dell’anno logoro ed esaurito, in attesa di essere restaurato. In questo contesto s’inseriscono le feste, per lo più notturne, di dicembre, ultimo mese dell’anno secondo il sistema calendariale romano che fa cominciare l’anno a gennaio. Tra queste feste, nei Saturnalia - che celebravano, col rovesciamento di usi e costumi dell’abituale vivere quotidiano, il mitico tempo felice in cui aveva regnato Saturno - Giove, che avrebbe spodestato il padre Saturno, era presentato come ancora troppo giovane per regnare, come ancora «bambino». Tra le festività di questo periodo c’era anche quella del Sol Indigetes, che sembra essere stata molto antica.
Nel 276 l’imperatore Aureliano trasferì al 25 dicembre la festività del Sol invictus, il cui culto l’imperatore Eliogabalo aveva introdotto dall’Oriente nel 218 e che Aureliano potenziò grandemente, considerando il solo dio universale quant’altri mai, oltre che suo personale protettore. Il significato della festa e del suo trasferimento era evidente: a partire da questo giorno si sospendeva l’atmosfera caotica delle feste di fine d’anno e si intendeva che il sole, e con esso il tempo, ormai rinnovato, fosse in grado di iniziare il nuovo anno.
A questo punto si capisce facilmente perché i cristiani abbiano fissato proprio a questa data la celebrazione della natività di Gesù, inizio del nuovo decisivo tempo della storia, tanto più che li soccorreva anche il ricordo di Giove «bambino» dei pressoché contemporanei Saturnalia, e soprattutto la suggestione del messianico «sole di giustizia» predetto da Malachia (3, 20), identificato per tempo con Cristo e perciò diventato uno dei principali appellativi cristologici.
Ma forse è possibile aggiungere ancora un tassello a questa ricostruzione. Nei primi giorni di gennaio nell’Egitto ellenizzato si celebrava una festa in onore della dea Iside, e certamente questa festività sarà stata celebrata anche a Roma dagli egiziani qui residenti. Orbene, il tipo iconografico di Iside, madre con in braccio il figlio Horus bambino, identificato col sole, a detta di vari studiosi ha costituito la base per la raffigurazione della Madonna con Gesù Bambino.
La festività del Natale del Signore al 25 dicembre è attestata per la prima volta, a nostra conoscenza, in un documento romano del 336 circa; si diffonde rapidamente in Occidente e verso il 380 passa in Oriente. Da una isolata testimonianza apprendiamo che in Africa la festa del 25 dicembre celebrava il ricordo, oltre che della nascita del Signore, anche dell’adorazione dei Magi, a testimonianza dell’interferenza della festività del Natale con quella orientale dell’Epifania (in greco epiphàneia).
Nel IV secolo questa festa era celebrata in Oriente il 6 gennaio e aveva significato ideologico, celebrando la «manifestazione» dell’opera redentrice e benefattrice di Cristo (Mohrmann). Questo concetto si concretava nella celebrazione di tre episodi della vita di Gesù: l’adorazione dei Magi, il battesimo nel Giordano da parte di Giovanni Battista, il miracolo delle nozze di Cana. Ma ci sono buoni motivi per ritenere che in origine con questa festività si celebrasse anche la natività di Gesù, che poi fu trasferita al 25 dicembre quando, nel IV secolo avanzato, la festa del Natale fu importata in Oriente.
Parallelo al trasferimento del Natale dall’Occidente all’Oriente fu quello dell’Epifania dall’Oriente all’Occidente. La prima attestazione è del 360 in Gallia, e alcuni anni dopo a Roma e in Spagna. Come in Oriente, essa celebra adorazione dei Magi, battesimo e miracolo di Cana, ma già verso la fine del IV secolo il ricordo dell’adorazione dei Magi comincia a prevalere, fino a imporsi gradualmente in Occidente.
La grotta, i Magi, l’anno zero... La critica storica attacca spesso gli elementi del presepio come leggendari; ma lo studio delle fonti dà nuovi supporti al testo evangelico
Natale: cosa c’è sotto la stella
La data del 25 dicembre fu fissata soltanto nel IV secolo e in Occidente per un insieme di ragioni di carattere astronomico, profetico, scritturistico e simbolico, nonché probabilmente per la coincidenza di una festa profana molto popolare nel tardo Impero romano, quella del «Sole invitto». L’Epifania invece venne importata dall’Oriente per ricordare il battesimo di Cristo
I Vangeli citano solo una mangiatoia, non il luogo in cui era posta, però il ricordo della grotta della Natività è antico: ne parla già Origene nel III secolo
di Danilo Mazzoleni (Avvenire, 27.12.2006)
Il Natale riporta all’attenzione di tutti alcuni elementi, che sono strettamente legati a questa grande festa della cristianità, prima di tutto la data stessa dell’evento, poi la grotta, che tradizionalmente ospitò il Salvatore appena nato, o ancora la stella, che guidò i Magi ad adorare il Figlio di Dio. Ma si tratta solo di pie tradizioni, oppure lo studio attento delle fonti letterarie e delle testimonianze archeologiche ha consentito di acquisire elementi concreti in merito a questi aspetti apparentemente di contorno, ma in realtà importanti, connessi con tale ricorrenza?
LA DATA DELL’EVENTO
Nel più antico calendario della Chiesa di Roma che ci sia pervenuto, il Cronografo Romano del 354, si legge per la prima volta la celebrazione del Natale al 25 dicembre. Solo nel pieno IV secolo, quindi, un testo ufficiale riporta la data rimasta ancora oggi nella tradizione. Non è documentata, comunque, per questa festività una tradizione di origine apostolica; tanto è vero che ben presto gli scrittori cristiani si posero il problema di determinare il giorno in cui era venuto alla luce il Salvatore. Clemente Alessandrino, vissuto all’incirca fra il 150 e il 215, già riporta tre opinioni diverse, diffuse ai suoi tempi: alcuni proponevano il 20 maggio, altri il 10 gennaio, ma i più il 6 gennaio. Altri pensavano che, individuando nell’equinozio di primavera (fissato prima il 25, poi il 21 marzo) l’inizio della creazione dell’universo, simbolicamente la medesima data avrebbe segnato la nascita del Figlio di Dio. In ogni modo, in Occidente si affermò sempre più la data tradizionale del 25 dicembre, avallata anche da sant’Agostino. D’altro canto, nel 274 l’imperatore Aureliano aveva fissato proprio al 25 dicembre la festa del «sole invitto», che dopo il solstizio invernale a poco a poco riprendeva il sopravvento sulle tenebre. Non erano estranei a questa celebrazione influssi del culto orientale di Mitra, che ebbe grande seguito nella Roma tardo-imperiale. Perciò, sostituire ad una solennità profana una cristiana, legata all’incarnazione del Cristo, «Sole di giustizia», fu certamente un’operazione carica di significati simbolici, oltre che polemici nei confronti del paganesimo, ormai al declino, tanto è vero che, intorno alla metà del V secolo, il papa san Leone Magno in un suo sermone ammonì i cristiani a non confondere la nascita di Cristo con la celebrazione del sole naturale, ricorrenti nello stesso giorno. Quindi, in base all’esame delle diverse fonti disponibili, si può giungere alla conclusione che la data tradizionale del Natale fu fissata per un insieme di ragioni e di considerazioni di carattere astronomico, profetico, scritturistico e simbolico, nonché probabilmente per la coincidenza di una festa civile profana molto popolare, che era stata istituita in epoca tardo-imperiale. Se questa è la situazione nel mondo occidentale, è più difficile precisare quando ciò avvenne in quello orientale; in ogni modo, risulta che l’imperatore Giustiniano intorno alla metà del VI secolo proclamò il 25 dicembre anche solennità civile. Appurato che il Natale fu una festa celebrata prima in Occidente e poi passata in Oriente, per l’Epifania avvenne esattamente il contrario. Il termine «epifania», che in età classica indicava qualsiasi manifestazione della presenza di una divinità, passò a designare dapprima (probabilmente agli inizi del IV secolo) l’incarnazione del Figlio di Dio, poi le rivelazioni più significative della sua divinità, commemorate in un unico giorno, il 6 gennaio. Anche se in seguito, specialmente nel mondo occidentale, prese il sopravvento la celebrazione dell’atto di omaggio compiuto dai Magi, rimasto ancora oggi legato alla festa, in Oriente, invece, prevalse sugli altri il ricordo del battesimo nel Giordano. Tornando alla Natività, a proposito dell’anno in cui si verificò il prodigioso evento, si può affermare che il mondo moderno si porta ancora dietro un errore di computo di un dotto monaco originario della Dobrugia, v issuto nella prima metà del VI secolo, Dionigi il Piccolo, ritenuto uno dei fondatori della cultura medievale. Egli, su incarico imperiale, intendeva sostituire l’era cristiana a quella dioclezianea, fino ad allora diffusa specie nelle province orientali, e prese come punto di partenza proprio la nascita di Gesù, ma essa fu da lui calcolata, in base alla convergenza di fatti storici e di riferimenti contenuti nei Vangeli, posponendo in realtà la data reale della nascita almeno di 4, se non - più verisimilmente - di 6 o 7 anni. La sua proposta fu comunque accettata e si diffuse dovunque, ma, a ben vedere, oggi noi saremmo, in realtà, alla fine del 2012 (o addirittura nel 2013) e non del 2006, anche se ormai una correzione sarebbe improponibile, perché rivoluzionerebbe tutta la storia.
LA STELLA
Fin dall’antichità lo studio degli astri esercitò un particolare fascino, tanto è vero che per i Babilonesi le stelle costituivano un segno di scrittura celeste, che poteva essere interpretato. Così gli astronomi di allora, che erano insieme astrologi ed esperti nell’arte divinatoria, pensavano di poter individuare nei corpi celesti luminosi segni premonitori di guerre, siccità, carestie, ma anche eventi positivi, come la nascita di sovrani e l’avvento di epoche di floridezza e fulgore. Tale scienza si diffuse anche in epoca romana e soprattutto le comete erano osservate con particolare attenzione, attribuendo loro la funzione di messaggere di eventi importanti. Certamente la stella più conosciuta di questo tipo è quella di cui parla il Vangelo di Matteo (2,2), ma, a rigore, il testo evangelico non specifica la sua vera natura. In uno scritto apocrifo, poi, il Protovangelo di Giacomo, si legge che quando nel tredicesimo giorno dalla nascita del Bambino si presentarono i Magi, un’enorme stella - come mai se ne erano viste - splendeva sulla grotta dalla sera al mattino. Tuttavia, già un Padre della Chiesa della prima metà del III secolo, Origene, pensò che si trattasse di u na cometa e altre fonti condivisero tale teoria, tanto è vero che anche oggi è opinione comune che proprio una cometa apparisse ai Magi, che erano profondi conoscitori dell’astronomia e delle leggi dell’universo. Alcuni studiosi hanno pensato che la cometa vista allora fosse quella di Halley, che, però, secondo i calcoli effettuati, passò vicina alla terra solo nel 12 a.C., prima della nascita di Gesù. Per altri il fenomeno luminoso celeste, al quale si allude nei testi fu in realtà la rara congiunzione di Saturno, Giove e Marte, verificatasi nell’anno 7 (o nel 6) a.C. Accettando quest’ultima teoria, si avrebbe conferma dell’errore di computo, già ricordato, del monaco Dionigi il Piccolo. D’altronde, ulteriori considerazioni porterebbero ad escludere che l’astro, di cui parla l’evangelista Matteo, potesse avere relazione con un fenomeno celeste. Nel passo in questione, infatti, si dice che la stella apparve ai Magi ad Oriente e li precedette, «finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il Bambino» (Mt 2,9). Secondo l’interpretazione di molti esegeti, la luce di cui si parla sarebbe simbolicamente quella del Redentore e, quindi, si farebbe metaforicamente riferimento all’avvento messianico, escludendo qualsiasi fenomeno reale dell’ordine naturale del cosmo. Questo concetto fu sviluppato e ribadito in molti scritti dei Padri: secondo alcuni si sarebbe trattato di una stella effimera, apparsa e subito scomparsa; più precisamente, per altri, di una meteora, creata da Dio nell’atmosfera celeste e poi dissolta. Come si vede, le ipotesi sono molteplici, ma non sembra, comunque, privo di significato il fatto che a questo astro sia stato riservato fin dall’epoca paleocristiana nell’iconografia del presepe e in altre raffigurazioni del ciclo della Natività un ruolo ben preciso, facendone anzi uno degli elementi chiave della composizione. Fra i tanti esempi noti, si può almeno ricordare, oltre ad un celebre affresco del 220-230 della catacomba romana di Priscilla , raffigurante un profeta (forse Balaam) che indica una stella, la lastra incisa della defunta Severa, conservata al Museo Pio Cristiano, con la scena dell’offerta dei doni da parte dei Magi, riferibile alla prima metà del IV secolo. Sopra il Bambino compare un irregolare astro a sei punte di grandi dimensioni, mentre alle spalle di Maria con il piccolo Gesù, seduta su un sedile dall’alto schienale, una figura profetica addita la stella.
LA GROTTA
Scriveva nel III secolo Origene: «Se qualcuno vuole assicurarsi... che Gesù è nato a Betlemme, sappia che, a conferma di quanto narra il Vangelo, si mostra a Betlemme la grotta, nella quale Egli nacque. Tutti lo sanno nel paese e i pagani stessi ripetono a chi vuol saperlo che in quella caverna è nato un certo Gesù, che i cristiani adorano ed ammirano». Questo brano prova che la tradizione della grotta della Natività è molto antica (la fonte evangelica parla solo di una mangiatoia, non dell’ambiente in cui essa era ubicata) e proprio al di sopra di una grotta, sulla collina orientale di Betlemme, Costantino, esortato anche dalla madre Elena, costruì una basilica, che voleva ricordare degnamente l’evento. Per fare ciò, i suoi architetti trasformarono quel luogo in cripta, collegata tramite due scale direttamente al coro della chiesa e il soffitto naturale, che non avrebbe retto al peso delle strutture sovrastanti, fu coperto da una volta in muratura. Sul finire del IV secolo la grotta apparve alla pellegrina Egeria ornata di paramenti di seta ricamati, arredi liturgici, lumi, torce e candelabri preziosi, mentre il pavimento era a mosaico. Molte trasformazioni interessarono la grande basilica costantiniana a cinque navate nei secoli successivi, ma quell’ambiente, largo meno di 4 metri e lungo 12, tanto frequentato da folle di pellegrini, si mantenne sostanzialmente immutato, a parte l’aggiunta di un altare rivestito di marmi e di altri arredi liturgici. Precisamente sotto l’altare principale di que sto luogo venerato oggi appare, inserita nel pavimento, una stella d’argento dorato con un’iscrizione, posta nel XVIII secolo, mentre superiormente si notano tuttora frammenti dell’antica decorazione musiva. La continuità di una tradizione antichissima costituisce quindi una prova per sostenere che proprio quella grotta, un tempo ubicata nell’area del caravanserraglio di Betlemme, costituisse il ricovero di fortuna in cui nacque il Salvatore. A circa un miglio da lì, nella località di Bet-Sahur, le fonti attestano che già nel IV secolo esistevano un edificio di culto ed un convento, con annesso un vasto impianto agricolo, sorti su altre grotte, indicate come quelle in cui i pastori sostavano di notte all’epoca di Erode e quel sito è conosciuto proprio come il «Campo dei Pastori».
I MAGI
Si sa che nel Vangelo di Matteo si parla di Magi venuti dall’Oriente, senza specificare il loro numero e ben poco di preciso e storicamente attendibile aggiungono gli scritti apocrifi di epoca successiva. I Magi erano certamente astrologi, verosimilmente appartenenti ad una casta sacerdotale, diffusa in quell’epoca in Persia, in Mesopotamia e nella Media, che seguiva gli insegnamenti di Zoroastro, fondatore della religione nota come mazdeismo. Numerosi autori cristiani, da Clemente Alessandrino a Cirillo di Alessandria, da Giovanni Crisostomo a Prudenzio, ritengono che essi fossero proprio persiani, mentre altri pensano che fossero arabi, caldei o babilonesi. Molti studiosi, comunque, sono del parere che non fossero propriamente re e che l’espressione di Tertulliano, che li definisce «quasi re», non sia da interpretare in senso letterale, ma ritenendoli personaggi dotati di grande autorità e prestigio. Anche il repertorio iconografico paleocristiano non li presenta mai come sovrani, almeno fino al pieno Medioevo, quando cominciano ad essere effigiati con la corona sul capo, mentre in precedenza apparivano semplicemente in abiti orientali, con il berretto frigio e una sorta di pa ntaloni. Tornando al numero ternario, è logico supporre che esso fin dall’antichità fosse desunto da quello dei doni che essi portavano (oro, incenso e mirra), anche se proprio l’iconografia dei primi secoli cristiani attesta che doveva esserci qualche incertezza in proposito, visto che in alcune raffigurazioni (qualche pittura delle catacombe, una scultura, alcuni vetri dorati e un reliquiario argenteo) essi appaiono in numero variabile di due, quattro, o addirittura - in un caso - sei. Si è obiettato che ciò potrebbe essere posto in relazione con un’esigenza di simmetria delle composizioni, ma, volendo considerare in parte valida questa teoria per la riduzione a due, riuscirebbe difficile spiegarlo per l’aumento a quattro o più personaggi. In ogni caso, è pur vero che si tratta di esempi abbastanza sporadici e che già la più antica testimonianza pittorica conservata, nella cosiddetta Cappella greca del cimitero di Priscilla a Roma, della metà circa del III secolo, mostra i Magi nel consueto numero di tre. Riguardo, poi, ai nomi tradizionali di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, essi si fissarono e si diffusero solo a partire dal XII secolo, anche se il più antico documento noto con tale menzione è un manoscritto parigino, che risale ad un’epoca compresa fra la fine del VII e il IX secolo. In ambito archeologico, solo una ventina di anni or sono su un’iscrizione di VII-VIII secolo dipinta su un muro di monastero del vasto complesso delle Kellia, in Egitto, si sono letti i nomi Gaspar, Belchior e Bathesalsa. Si tratta di una scoperta importante, perché è la prima attestazione nota nei monumenti dell’esistenza di tale tradizione.
30/12/2006
Occidente il bello dell’edonismo
Il nostro vero valore è la relativa mancanza di valori: possiamo solo sperare che anche nel mondo musulmano si diffonda quella “fede debole” che ci è rimproverata
di GIANNI VATTIMO (La Stampa, 30.12.2006)
E se ci rendessimo conto che i famosi valori dell’Occidente che tanti ci chiamano a difendere non sono poi altro che il valore dell’Occidente, cioè del nostro mondo (industrializzato, moderatamente democratico, moderatamente secolarizzato) inteso etimologicamente come «terra del tramonto»?
So che è una proposta poco popolare - anche se l’hanno sostenuta grandi pensatori, e alla lettera così l’ha formulata Heidegger. Ma nella situazione del mondo che sempre più nettamente si delinea sotto i nostri occhi è forse la sola via per la costruzione di un progetto che non si identifichi con qualche «guerra infinita», o con la rassegnazione ad accettare quel tramonto che, più o meno un secolo fa, aveva preconizzato Oswald Spengler. Per lui, la civiltà europea aveva concluso il suo ciclo vitale di mille anni, cominciato con l’impero di Carlo Magno. Parlare di tramonto non equivaleva però a rassegnazione; significava che l’Occidente doveva dedicarsi alle attività appropriate per i vecchi: l’amministrazione e l’accrescimento dei propri domini (imperialismo, sfruttamento). Ma oggi che il colonialismo e le guerre imperialistiche sono (dovrebbero essere) finite, il tramonto, non che perdere ogni significato, ne acquista uno nuovo e più legittimamente progettuale.
Apertura alla pluralità di stili di vita
Quando diciamo che l’Occidente deve esportare i propri valori, non facciamo altro che raccomandare alle culture altre con cui ci troviamo in conflitto la nostra relativa mancanza di valori. Democrazia, liberalismo, diritti umani significano però, in ultima analisi, apertura alla pluralità di progetti e stili di vita in concorrenza tra loro; quando non sono manipolate, le elezioni in paesi che non le hanno mai avute non sono altro che rischi consapevolmente assunti con la speranza che, in definitiva, la libertà di tutti dia luogo a società più giuste e felici.
Nei valori dell’Occidente c’è insomma una buona quota di proceduralismo, che spesso esitiamo a riconoscere perché ci sembra che, senza qualche aspetto «sostanziale», ci venga a mancare il terreno sotto i piedi. Come se le società e le culture che hanno professato e imposto più duramente visioni del mondo determinate fossero state meglio: dovremmo lamentare che, se lo Stato è diretto da chiunque sia eletto nelle forme e con le procedure legittime, «non c’è più religione»?
Una prospettiva realistica
Ma proviamo ad applicare il ragionamento alla situazione attuale, quella che vede l’Occidente minacciato da culture altre che non condividono i suoi stili di vita e nemmeno le sue idee su ciò che è naturalmente buono o cattivo, dalla morale privata alle leggi dello Stato. Immaginiamo anzi, per un momento, che abbiano ragione coloro che ci mettono in guardia contro l’essenza violenta dell’Islam, almeno in certe sue espressioni radicali. Anche se dovessimo accettare questa ipotesi, in che cosa potrebbe consistere la nostra difesa dei valori dell’Occidente? La costruzione di una grande alleanza «occidentale» pronta a battersi contro la «barbarie» dell’Est? La prospettiva di una simile possibile guerra non sarebbe altro che la devastazione del pianeta e forse la sua distruzione.
Per quanto possa a prima vista scandalizzarci, la sola speranza realistica che possiamo coltivare è che anche nel mondo musulmano si diffonda quel secolarismo e quella «fede debole» (e edonismo, consumismo, superficialità...) che tanto spesso ci viene rimproverata. Questo è forse il solo Occidente che merita di diffondersi nel mondo.
Un 2007 fuori dalla storia
di GUIDO CERONETTI (La Stampa, 30.12.2006)
Stiamo attenti a non identificare storia e mondo: la fine della storia non coincide con la fine del mondo (inteso non come corpo celeste orbitante ma come biosfera in cui è inscritta nella temporalità la vicenda umana). L’abitabilità per l’uomo di questa terra vivente è in pericolo a causa di un’accelerazione storica da ultimo traguardo, che con sé trascina, da cieli e ghiacci ai fondali oceanici, le teste smarrite di numerose specie costrette dalla corsa umana ad una prematura estinzione. La fine della storia non la do qui come ipotesi filosofica: è un evento non eludibile che sta avvenendo, leggibile anche nella quotidianità più banale, accompagnato da stati di preguerra e di guerra (da Marte nevrotico e schizofrenico) che coprono e livellano tutto.
Rispolverando una personale Macchina del Tempo, potremmo misurare i molti milioni d’anni di abitabilità per l’uomo che le generazioni del Ventesimo (tutte di noi, giovani o matusa), a prezzo di fatiche da manodopera forzata della Volga sovietica, hanno consumato mentre si figuravano di campare tra la quarantina d’anni di Marilyn piccola falena e i centodue del pensatore guerriero pour le mérite Ernst Jünger, due esistenze, nel proprio saturarsi d’essere, esemplari. Dove l’uomo di scienza, d’accordo con l’uomo-massa, ritiene si stia passando, in questa precisa fase lunare, dal calendario 2006 al 2007 di era cristiana, l’uomo di pensiero va più vicino alla verità collocando tutte queste nostre storie di tempo storico - di lacrime e di rose sparse, di cure e di bombe - in un altrove temporale nel quale 2006 o 7 o 8 pigliano una bizzarra sequela di zeri dopo zeri, tale che la fine della storia diventa ora e subito afferrabile e sperimentabile, farcita d’attuale come il telegiornale che andrà in onda tra poco.
Il pensiero più crudele è in questa persuasione: non cambierà più.
Si può lasciare, per pietà, la porta nel muro del miracolo socchiusa.
Vivere in una temporalità da morte di Dio era pur sempre un modo di esistenza nel divenire storico - quantunque con il respiratore malfunzionante - ma nella morte della storia la vita nel suo insieme perde i suoi appigli di senso estremi: è l’universale trionfo egualitario - dalla durata fuori calcolo - della purità liscia, agghiacciatrice, dell’Insignificante.
La storia, finché è vissuta (tre, quattro millenni) aveva dolori di puerperio come il povero Geremia, per spremere da sé un (o il) significato di tutto quanto l’essere fino all’attimo presente. C’era una nobiltà disperata e una bellezza tragica in questo sforzarsi di gruppi michelangioleschi dentro un mare di tenebra: ne fiutiamo le tracce, i segni... L’Insignificanza è però già vittoriosa da quando la dittatura totalitaria del Mercato ha occupato tutti i valichi, all’esterno e nelle coscienze, da quando la politica (che nel tempo storico era asservita a ideali di altre forme di distruttività) non ha più avuto in testa e in bocca altro che un pensiero unico di farnetico (sappiamo fin troppo che crescita -sviluppo-innovazione-ripresa-investimento-globalizzazione ne sono il torvo, avvilito refrain idiomatico) e in questo pensiero chiodato c’è il segno di un potere che ci strega senza svelarsi, un potere che ha da un pezzo instaurato un dominio assoluto in cui la storia muore asfissiata come un condannato nel Braccio di Huntsville. La Tecnica matura è questo potere: travestito da docile utilità ha potuto occupare tutto.
Cibele aveva i suoi leoni - la Tecnica ha i cani realissimi del mercato e dell’economia, di cui si compone il suo ineluttabile trono di letame.
Di là viene distribuito a tutti il menù fisso dell’Insignificante. Dopo una lunga vita spesa nella ricerca di un vero significato, anch’io mi ritrovo di fronte a questo muro - o mare.
Osservo i progressi della fascinazione che l’Occidente subisce da parte della Cina. Questo impero detto dagli sciocchi emergente (siamo ben oltre!) ha interpretato con sinistra intelligenza il segnale cosmico, e alla storia moribonda del resto del mondo si è affrettato a contrapporre la grande onnipotente pervasiva Muraglia dell’Insignificanza di tutto in tutto: guarda là e vedi il tuo domani, povera Europa dei luoghi comuni. La Cina farà di noi un altro sommerso, smisurato Tibet, in cui non abbiamo saputo leggere l’alfabeto di morte, di manette mentali, che v’iscrisse, nello stupro delle valli e dei monasteri, l’invasione maoista nel 1950. Un canarino in gabbia su cui è fisso l’occhio di un cobra siamo. Ma l’occhio del cobra Cina guarda già da al di là della storia il mondo: questo ne rende il magnetismo più terso, più spietato. Là non si trattano Affari, là si è attratti, ed è il gorgo.
La vecchia signora di Cracovia, Wislawa Szymborska, sussulto - ancora - del genio di un libero Occidente, nei suoi versi sull’Undici Settembre, alza un lembo sull’Insignificante in cui siamo, nello schema di un tragico avvertimento, entrati. Vede figure cadenti da un muro disumano incendiato, e da quei manichini atterriti scivolare via dalle tasche e dai grembiuli penne, caramelle, appunti, temperini. E quelle umane stelle cadenti non toccheranno - perché il grave poeta si rifiuta di scrivere questo troppo ordinario finale - il suolo. Immagine forte di ciò che già siamo: insignificanze che patiscono, che precipitano, ma che non hanno diritto a un termine nella loro caduta.