Dopo le parole di Chirac, l’ambiente torna nell’oblio.
Se la fine del mondo resta solo una notizia
di Carla Ravaioli (Liberazione, 7 febbraio 2007)
“Questa è l’ora della rivoluzione. La rivoluzione delle coscienze. La rivoluzione dell’economia. La rivoluzione della politica.”
Mai avrei immaginato di poter affidare le mie speranze di ambientalista alle parole di un vecchio e per più versi screditato gollista come Jacques Chirac. E però debbo riconoscere che le ineludibili urgenze imposte dalla crisi ecologica, e in tutta la loro catastrofica reatà illustrate dall’ultimo Rapporto Ipcc, mai (ch’io sappia) sono state lette da un politico con più puntualità e intelligenza di quanto ha fatto il presidente francese venerdì scorso, aprendo la Conferenza di Parigi “Per una governance ecologica mondiale”.
Per tentare di arrestare lo squilibrio ecologico è necessaria una rivoluzione, anzi una “tripla rivoluzione” da aprire e combattere su tre fronti, dice Chirac. Se “una trasformazione radicale dei nostri modi di produzione e consumo” ne è la condizione prima, a completarla, anzi a consentirla, occorre però una “rivoluzione culturale”, capace di imporre tra l’altro una diversa contabilizzazione della ricchezza, che contempli e integri anche la qualità ambientale. Ma una trasformazione dell’economia di tale portata è resa possibile solo dalla “rivoluzione delle coscienze”, cioè dalla liberazione degli individui dai comportamenti acquisiti e dai modelli imposti, cioè dall’ideologia dell’ iperconsumo (e del produttivismo quindi, della competitività, della crescita, del Pil, di tutti i totem del nostro tempo): solo così si rimettono in causa le basi stesse della macchina economica, e può trovare spazio la “crescita zero” come possibile risposta alla sfida ecologica. E’ a questo punto che s’impone la terza rivoluzione, quella dell’agire politico. Ma l’estrema difficoltà dell’impresa e la sua dimensione planetaria esigono una conduzione internazionale. Di conseguenza la proposta è quella di un organismo ad hoc in seno all’Onu, sul modello dell’Oms o dell’Unesco, che operi sulla base di delibere condivise, facendosi carico della moltitudine dei problemi ecologici e soprattutto delle minacce più gravi e imminenti.
Certo, se a dire queste cose fosse un qualche leader delle sinistre radicali, lo preferirei. Ma onestamente, anche dette da Chirac, non posso non apprezzarle. Perfino perdonandogli il tono insopportabilmente enfatico, che nell’esordio aveva trovato il suo apice, alla peggiore maniera francese: “Il pianeta soffre... La natura soffre... Siamo sull’orlo dell’ irreversibile...”, ecc.
La Conferenza di Parigi ha dato retta al vecchio presidente. Una United Nations Environmental Organization è stata già virtualmente istituita. Un “gruppo pioniere” di stati, tra cui tutti i membri dell’Unione Europea, si è costituito allo scopo di sollecitare le inevitabilmente non brevi procedure per il varo della commissione. Esperti di varia natura e provenienza (dal grande sociologo Edgard Morin all’economista inglese Nicholas Stern, autore di un allarmante rapporto sul costo della crisi ecologica, ad Al Gore che in Usa sta spopolando con il suo documentario ambientalista “Inconvenient Truth”) sono mobilitati ad affiancarla, e nel frattempo hanno lanciato un loro “Appello da Parigi”, onde risvegliare le sonnacchiose coscienze politiche. E tuttavia che cosa concretamente seguirà a tutto ciò, non è facile dire, o piuttosto si possono fare previsioni non proprio entusiasmanti. Non solo gli Usa come sempre si sono tirati fuori, ma tutt’altro che positive sono le posizioni dei paesi terzi, Cina, India, Stati africani, esitanti quando non decisamente contrari sia a far parte della Commissione, sia ad accettarne rigide normative per la salvaguardia degli ecosistemi, al massimo disposti a considerare come consultivo il nuovo organismo. E gli industriali già alzano la voce contro la produzione di auto a livelli obbligati di emissione di Co2, mentre più che mai si fa sentire il sempre più folto gruppo favorevole al rilancio del nucleare.
In complesso il discorso di Chirac, il suo accorato invito a un radicale mutamento di approccio alla dimensione economica del nostro esistere, non pare aver lasciato traccia significativa. E nemmeno la Conferenza di Parigi nel suo complesso sembra aver prodotto nella collettività reale consapevolezza della situazione ambientale. Decine di comunicati che gareggiavano nella descrizione di scenari agghiaccianti e avvertivano come i rapporti scientifici precedenti fossero stati di eccessiva prudenza, per cui è prevedibile che la temperatura aumenti fino a 4.5° entro il secolo, che l’innalzamento dei mari tocchi i 45cm, che migliaia di chilometri di coste finiscano sott’acqua, che milioni di persone siano costrette a fuggirne, ecc.; ripetute e concordi dichiarazioni della comunità scientifica mondiale secondo cui tutto questo è senza dubbio alcuno conseguenza delle attività umane. Il tutto seguito per alcuni giorni dall’informazione del globo intero, con l’incontenibile eccessività del nostro tempo: réportages e titoli a sensazione, gran clamore per i simbolici cinque minuti di buio da tutto il mondo osservati “in favore del pianeta”, per Monsieur Hulot, divo del piccolo schermo francese che s’improvvisa ambientalista e sfida i candidati alla presidenza di Francia a dichiarare la loro “fede verde”, cosa a cui prontamente a gara aderiscono (salvo dimostrare, ad apertura di labbra, la loro massiccia ignoranza del problema), proprio come già Bush s’era affrettato a fare nella speranza di recuperare qualche punto negli scoraggianti sondaggi della sua popolarità. Ecc. ecc.
Oggi tutto finito. Appena chiusa Parigi, tutto - parrebbe - caduto nell’oblio. Sparita ogni notizia del genere dagli schermi televisivi e dai programmi radiofonici, come dalle prime pagine dei giornali (non solo quelli italiani, preoccupati soprattutto delle domeniche senza partita) e spesso dall’intero fascicolo. Le rarissime eccezioni ci raccontano di un “medieval warming” che colpì l’Europa nei primi anni del millennio scorso, a consolarci dei guai attuali con le “bizzarrie climatiche d’antan”, oppure - guarda un po’ - affermano che non serve il “terrorismo climatico”.
In compenso continuano ad abbondare le notizie economiche improntate a sincero ottimismo. In Usa il Pil è aumentato del 3.5, in Cina del 10.7, e anche da noi l’ultimo quadrimestre ha registrato una ripresa dei consumi, benché il governatore Draghi con vigore sostenga la necessità di una maggiore crescita. La Fiat ha in programma la produzione di 46 nuovi modelli di auto, e per non so quale di essi prevede la vendita di 120mila unità all’anno. La Cina, affamata di energia e materie prime, sbarca trionfalmente in Africa. Praga e Budapest accettano l’installazione di rampe per missili americani. Preoccupa un poco, è vero, l’ipotesi di un Opec del gas, patrocinata da Putin. Esalta invece il progetto di un tunnel sottomarino che consenta l’attraversamento dello Stretto di Gibilterra a secco, a 1700 metri di profondità. Ecc.
Ma non si creda che in questo quadro manchi l’ambiente. La Generlal Motors sta puntando attivamente sull’idrogeno per la macchina del futuro, mentre altri industriali dello stesso settore stanno lavorando sul mais come biocombustibile a emissioni zero. Su treni e mezzi pubblici si orientano invece con fervore molte compagnie dell’acciaio. In sessanta città d’Europa l’alta velocità trova sempre più frequenti applicazioni anche nei trasporti locali. Fatturati da capogiro vengono realizzati con i nuovi business di neve artificiale per lo sci e di erba artificiale per il calcio. E anche i produttori di bicilette se la cavano niente male, essendo le due ruote al centro della vulgata verde, che a gran voce, insieme alla chiusura del rubinetto mentre ci si lavano i denti e allo spegnimento della spia rossa della tv, prescrive sollecita rottamazione del vecchio frigo, della veccia lavatrice, ecc., ovviamente allo scopo di risparmiare energia. “La difesa dell’ambiente è la nuova frontiera dello sviluppo,” ha di recente dichiarato un noto leader dei verdi italiani.
A questo modo, per il momento, parrebbe richiudersi la parabola del problema ambiente. A lungo ignorato, anzi nevroticamente “rimosso” (da gran tempo ne sono convinta) per via della sua ingestibile magnitudine, della infinita molteplicità delle sue manifestazioni, ma soprattutrto della sua radicale incompatibilità con l’intero impianto economico, sociale e culturale della società capitalistica, il problema si ripropone oggi in dimensioni gigante, non solo denunciate con la massima attendibilità dalla scienza mondiale, ma ormai da ognuno di noi in modo più o meno grave direttamente sperimentate: imponendosi dunque in modi che vietano ogni velleità di negarlo. Ma ciò che si tenta oggi è ridimensionarlo, assimilarlo alla forma stessa, addirittura alla patologia, del sistema che ne è causa, solo a questo modo accettandone anzi valorizzandone la presenza, capovolgendone il senso da problema a risorsa. “La buona crescita” è l’ultimo ossimoro coniato a Parigi. “Let green pay,” dicono in America: l’ambiente, facciamolo fruttare.
Mentre scrivo vedo sullo schermo tv Giacarta sommersa fino ai secondi piani da un’alluvione. Le previsioni meteorologiche dicono che le grandi piogge continueranno almeno una settimana.
Penisola tropicale
di MARIO TOZZI (La Stampa, 26.07.2007)
Al di là di ogni ragionevole dubbio, il caldo micidiale di questi giorni ci pone di fronte scenari a tinte forti che rischiano di trasformare perfino la nostra indole mediterranea. Altre volte le estati sono state afose e spesso il tempo è stato bizzarro, ma oggi sono i dati a darci l’esatto conto del cambiamento climatico in atto, al di là delle nostre singole percezioni del caldo. L’Italia è già praticamente spaccata in due: le regioni meridionali stanno subendo una perdita irreversibile di terreni utili alle colture, progressivamente distrutti dagli sprechi agricoli e dalla siccità. Siccome per formare un solo centimetro di suolo ci vogliono 200 anni - e ne occorrono almeno 15 per coltivare - l’unica soluzione sarà quella di abbandonare le campagne del Sud alla desertificazione. Al Nord (se si eccettua l’isola per ora felice di Torino) almeno piove, ma l’acqua che in passato cadeva in una settimana, si rovescia adesso in un paio d’ore.
Si rovescia su città di asfalto e cemento e finisce direttamente nei fiumi senza riuscire ad alimentare le falde profonde. Acquazzoni tropicali li avremmo chiamati, se non ci trovassimo ben lontani dai tropici.
Ai litorali, lungo i quali un tempo si cercava riparo dal solleone, bisogna accedere ormai con attenzione: la temperatura dell’acqua superficiale del Mediterraneo centrale è infatti salita in modo anomalo rispetto alle consolidate medie ventennali che pure riportavano un incremento di 0,6°C ogni dieci anni (contro gli 0,3°C degli altri oceani). Nella scorsa primavera un picco di 3°C in più rispetto agli anni precedenti ha conferito al Mare Nostrum temperature da Golfo del Messico. Vista la massa d’acqua più limitata non si scatenano cicloni tropicali, ma le trombe d’aria e quelle marine raggiungono una frequenza settimanale e i danni rischiano di essere molto più gravi di quelli descritti da Machiavelli nel 1456 (un «turbine spaventoso» che spazzò l’intera catena appenninica da Ancona fino in Toscana).
L’accoppiata piogge tropicali e trombe d’aria spinge a ritirarsi nelle proprie abitazioni, magari per un recupero della siesta, al riparo dell’aria condizionata sparata a temperature bassissime, con il non trascurabile effetto di surriscaldare l’aria già rovente delle metropoli e costringere, dunque, tutti a installare climatizzatori più potenti in un circolo vizioso di cui non si vede la fine. Se per caso, invece, osiamo sfidare gli oltre 40°C delle ore meridiane e mettiamo il naso sott’acqua, non è infrequente la vista di barracuda di oltre un metro - una volta esclusivamente tunisini - che si aggirano per le coste tirreniche attratti dai bagliori degli oggetti metallici dei bagnanti; e poi pesci serra, pesci balestra, pesci pappagallo, per non dimenticare alghe come la Caulerpa, che tende a erodere il regno della benefica Posidonia. «Ospiti caldi» si sono sempre susseguiti nel Mare Nostrum, ma oggi tutto questo avviene molto più rapidamente, grazie all’apertura di canali artificiali come quello di Suez (migrazioni lessepsiane). Siccome le specie del Golfo Persico sono molto più abituate alla competizione rispetto a quelle che risiedono nel Mediterraneo (1500 specie contro 550), non c’è da meravigliarsi che prevalgano, quando la temperatura sale a sufficienza.
Anche la dieta subirà contraccolpi, così come lo sci e il golf destinati a scomparire e a essere sostituiti dal trekking d’altura e da sport che possano essere praticati di notte. Quello che era il regno candido della neve diventerà il regno delle frane e dei torrenti, come già fanno presagire i numerosi crolli di cime anche famose nelle Alpi meridionali. Sarà vietato (come già avviene in molte città degli Stati Uniti) lavare la macchina e annaffiare il giardino (se non con acqua riciclata) e si consiglierà di non esporsi alle radiazioni ultraviolette, ormai malamente filtrate, nelle ore centrali della giornata.
Il riscaldamento anomalo dell’acqua del mare fa già gonfiare gli oceani e la fusione dei ghiacciai (quelli dolomitici spariranno nei prossimi quarant’anni, tutti quelli alpini in poco più), indotta dalle temperature roventi, contribuisce a un cospicuo innalzamento del livello dei mari. Di conseguenza circa 4.500 kmq di coste italiane saranno invasi dalle acque e si riformeranno paludi dove oggi ci sono terreni agricoli. Le alluvioni saranno più frequenti e avranno carattere improvviso (come il recente caso di Torino), ma i fiumi resteranno comunque secchi per mesi, salvo trasformarsi in micidiali muri d’acqua per qualche ora. Forse avremmo dovuto diminuire le emissioni di gas-serra e cambiare qualcosa del nostro stile di vita, ma non è meglio una bella vacanza ai tropici senza spostarsi da casa?
Una catastrofe a portata di click
«L’umanità al bivio» dello studioso Luigi Cortesi per Odradek. Un’appassionata e meditata analisi sul rapporto di causa ed effetto tra deregulation dell’attività economica e crisi ecologica
di Enrico Maria Massucci (il manifesto, 14.02.2007)
Il recente intensificarsi degli allarmi sulle incombenze climatiche che gettano ombre cupe sul destino dell’umanità è il segno inequivoco che anche all’interno di settori dell’establishment si fanno strada preoccupazioni non contingenti per lo stato fisico del pianeta. E anche se è evidente che lo zoccolo duro delle classi dirigenti continua imperterrito a perseguire una rotta di collisione mortale con gli interessi di lungo periodo dell’ecosistema (che sono quelli della comunità umana, se non si ragiona nell’ottica dell’individualismo neo-liberale), il ripetersi di lesioni ed eventi catastrofici nella biosfera sembra finalmente determinare nell’opinione più vasta un’attenzione meno superficiale ed episodica, facendo intravedere una volontà dal basso di porre argini all’uso irresponsabile di risorse e natura. Nella speranza, che si sia ancora in tempo per invertire pratiche e politiche, ma soprattutto, che l’interesse per la salvezza dell’ambiente esca dai minimalismi «emendativi» e dalle genericità «compatibiliste» (che si condensano nella risibile formula dello «sviluppo sostenibile»), per entrare nel merito dei dispositivi macroeconomici di produzione del rischio ambientale.
Una biosfera al limite
È infatti chiaro che il modello economico vigente ha intaccato in profondità le capacità «omeostatiche» della natura, cioè la sua attitudine ad assorbire in modo indolore le quantità esorbitanti di veleni prodotti, e che lo «scambio» con le attività umane vede infliggere all’ambiente «perdite secche» che comprometteranno irreversibilmente il futuro delle specie, quella umana inclusa, questa volta.
Proprio per queste ragioni, è doveroso segnalare attori e soggetti precoci della riflessione ecologistica, per i quali l’«emergenza ambientale» non è una scoperta occasionale o postuma, ma il terreno di un professionale approfondimento storico-scientifico di lunga lena. È il caso dello storico Luigi Cortesi, già impegnato nell’ambito della peace-research, da quando con l’installazione degli «euromissili» nel 1979, sviluppò un percorso di analisi sulla «condizione atomica» e sulla drammatica novità planetaria da essa imposta, sulla scia delle appassionate, «visionarie» e inascoltate meditazioni del Günther Anders di Diario di Hiroshima.
Studioso del movimento operaio, Cortesi individuava allora nella «nuova guerra fredda» reaganiana l’occasione per un ripensamento delle categorie della liberazione alla luce dello shifting globale del rischio di «distruzione totale», e ne deduceva la priorità assoluta della lotta per la pace. Beninteso, non nel senso querimonioso e flebile di una generica ed ecumenica composizione del conflitto tout-court, ma di un coinvolgimento critico nella denuncia dei dispositivi di produzione della guerra, nella varietà delle sue componenti, politiche e materiali.
Niente irenismi o piagnistei, dunque, ma un più forte impegno di lotta, di «pacifismo realista», che integrasse nei «vecchi» disegni di emancipazione di matrice socialista e comunista le nuove prospettive storico-politiche aperte dalle implicazioni distruttive dell’escalation nucleare (e dalla prepotenza e pervasività del complesso militar-industriale).
Ne era il frutto la fondazione della rivista «Giano» (1989), cui il contributo di Sebastiano Timpanaro (altro «solitario» della sinistra nostrana) avrebbe in seguito apportato (secondo le parole dello stesso Cortesi) un nuovo prezioso input ideale ed euristico, nel quale la lotta per la pace intercettava la novità assoluta del paradigma ecologico, colto ormai come il fronte decisivo di una riflessione e di una pratica che coniughi «liberazione» e «salvezza» . Ma anche come creativo recupero delle forti ragioni umanistiche di una sinistra in verticale crisi egemonica, contro il dilagare delle pulsioni più distruttive del capitalismo, che proprio nella sinergia «ecocida» ed «umanicida» esibisce l’anima più profonda e feroce.
Fecondissimo e drammaticamente urgente orizzonte di ricerca, oggi riproposto nell’ultimo libro dello storico (L’umanità al bivio. Il Pianeta a rischio e l’avvenire dell’uomo, Odradek, pp. 223, € 16,00), contenente anche una selezione dei principali «editoriali» della rivista, riflessioni sui più recenti eventi politici internazionali (a cominciare da quelli mediorientali) e un’appendice, che richiama l’altro, importante libro dell’autore, Storia e catastrofe, del 1984, ripubblicato da manifestolibri nel 2004. La cui coerenza e drammatica attualità possono anche positivamente impressionare, nella lucida e precoce individuazione delle tendenze di medio-lungo periodo e delle radici «eziologiche» della deriva attuale. Ma rappresentano la conferma della vitalità di alcuni strumenti d’analisi di «critica del presente», applicati a quel cruciale «rapporto tra prassi umana e natura», che solo oggi la grande stampa confusamente incorpora, dopo averlo stolidamente rimosso, ancora tuttavia glissando sulla sostanza del problema, come sulle sue ragioni causali.
Deregulation nichilista
Si tratta di una messa a punto del pensiero di Cortesi, che non deflette dalla denuncia del carattere sistemico del precipizio ambientale odierno, né pensa ingenuamente che esso sia contenibile e gestibile entro le coordinate di una governance continuista, implicando, al contrario, la rimessa in campo e l’attualizzazione di un’istanza trasformativa radicale. Forse risibile alle orecchie di chi si è riconciliato e comodamente installato nel cuore di questa modernità, ma non nelle coscienze di quanti percepiscono il carattere ultimativo e finale dei segnali più recenti della natura e la scelleratezza delle scelte autistiche dei gruppi dominanti, avvertendo l’urgenza della ribellione alla marxiana «comune rovina delle classi in lotta». Sono i frutti, avverte Cortesi, «di una rottura del patto con la natura (...) entro il quale si è svolta tutta la storia umana», della «potenza terribile di una prassi sregolata che ha come riferimenti il profitto e la crescita, l’avere e non l’essere».
Alla quale afferiscono parecchie complicità, non ultime quelle dei media che «non hanno comunque messo in chiaro la relazione tra deregulation dell’attività economica e deregulation dei rapporti con l’ambiente». E nella quale viene a tragica evidenza una costituiva e amorale attitudine ad un «uso inumano degli esseri umani» come della natura, dispiegata come rifiuto di qualsivoglia cultura del limite e cieca disponibilità ad un esito distruttivo generale.
E’ contro questo esito nichilista che occorre mobilitare l’altra parte dell’umanità, Ed è qui che «l’etica della responsabilità di Max Weber deve cedere il passo al "principio responsabilità" di Hans Jonas». Perché, come dice Cortesi, «l’uomo che si salva non è lo yesman del sistema, ma un ’apocalittico consapevole’ e quindi un ribelle».
Sono profondamente addolorato per l’angoscia e la disperazione che traspare nel Suo articolo. Vorrei proporre un punto di vista che può realmente "rivoluzionare" e ristabilire ogni cosa. Chi è in grado di influire profondamente nelle coscienze degli uomini? Chi ha dimostrato, nell’arco della storia, di poter radicalmente cambiare e realizzare una “rivoluzione delle coscienze” ? Anche se molte volte interpretato e manipolato per interessi diversi fino a stravolgere completamente il pensiero originale , la pregherei non per questo, di scartare a priori, l’intento di proporle un pensiero incoraggiante. L’uomo che che ha influito più profondamente e per lunghissimo tempo sulle coscienze degli uomini aveva predetto questa situazione. A tal fine noi di solito, proponiamo la verifica diretta, lasciando che la fonte stessa interpreti se stessa, senza la presunzione di manipolare a proprio interesse o stravolgerne il messaggio. Le parole che le rivelerò in un primo momento le sembreranno poco incoraggianti ma se avrà la forza (in contrapposizione alle Sue ideologie, che oggi anche i più grandi statisti mettono in discussione) di approfondirle risulteranno molto più incoraggianti di quanto si possa lontanamente immaginare! Gesù Cristo parlò di un tempo di grande ansietà e incertezza che si sarebbe abbattuto su un’intera generazione. Usando un linguaggio efficace, disse: “Ci saranno segni nel sole e nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia delle nazioni, che non sapranno come uscirne a causa del muggito del mare e del suo agitarsi, mentre gli uomini verranno meno per il timore e per l’aspettazione delle cose che staranno per venire sulla terra abitata; poiché le potenze dei cieli saranno scrollate” Luca 21: 25,26. Nella Bibbia sono descritti molti altri particolari di quello che stiamo vivendo oggi e vivremo nel prossimo futuro. L’incoraggiamento che ci da Gesù e questo "Così anche voi, quando vedrete avvenire queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino" Luca 21:31. La invito a verificare i particolari predetti nel Suo prossimo incontro con un Testimone di Geova.
Cordialmente
Sergio Garbagnati
È da oltre cento anni che lo proclamate....
"Ora vi preghiamo fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare; nè da preteste ispirazioni, nè da parole, nè da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi inganni in alcun modo !" (2Ts 2,1-3)
Cordiali saluti
Biagio Allevato