La lingua di Provenzano
di Attilio Bolzoni (la Repubblica, 08 marzo 2007)
Chi è il numero 21? E chi è il numero 63? E il 9, il 18, il 44? E, soprattutto, chi è quell’«Adorato Gesù Cristo» che lui ringrazia insistentemente ogni qualvolta i poliziotti piombano in un casolare e non lo trovano mai? Dietro ogni numero c’è un compare, un vivandiere, un parente, un insospettabile, dietro ogni numero c’è un fidato postino dei suoi messaggi di carta. Ma l’«Adorato Gesù Cristo» è qualcosa di più e di diverso da tutti gli altri: è probabilmente l’uomo che gli ha permesso di fare la sua latitanza sempre al riparo, sicura, priva di rischio. Una clandestinità difesa molto in alto e per molto tempo. Dopo la cattura di Bernardo Provenzano l’antimafia è alla caccia dei grandi protettori di Bernardo Provenzano.
L’ultima trama siciliana è giallo ed è anche ricerca, studio di un linguaggio, di uno stile di comunicazione, di un modo di sopravvivere. È il gergo della vecchia nuova mafia di Corleone.
Quella che era partita come inchiesta giudiziaria nel lontano giorno che - nel 1994 - intercettarono i primi «pizzini», è diventata oggi anche un libro che tenta di spiegare il potere di un capo avvolto nel mistero per quasi mezzo secolo. Il titolo anticipa tutto il resto: Il Codice Provenzano. L’hanno scritto un magistrato e un giornalista. Il primo è Michele Prestipino, il sostituto procuratore della Repubblica di Palermo che per otto anni ha inseguito il Padrino con i poliziotti di un reparto scelto. Il secondo è Salvo Palazzolo, un giornalista di Repubblica che da otto anni raccoglie anche il più piccolo dettaglio sulla vita del boss dei boss di Corleone. Il Codice Provenzano (Laterza, pagg. 332, 15 euro) sarà in libreria da questa mattina.
Più che un racconto è un documento che entra per la prima volta nel «sistema di informazione» e trasmissione di notizie inventato dall’ultimo dei Corleonesi, una sorta di ministero speciale delle Poste che ha consentito a Provenzano di sfuggire a intercettazioni ambientali e telefoniche, di neutralizzare le più sofisticate apparecchiature utilizzate dagli «sbirri» che lo braccavano. Nel libro sono raccolti o ricordati praticamente tutti i «pizzini» sequestrati al Padrino e ai suoi fedelissimi di cosca fino all’11 aprile del 2006, l’ultimo giorno di libertà di Bernardo Provenzano dopo quarantatré anni. È un archivio. Ordini mandati in tutta la Sicilia dentro bigliettini arrotolati con lo scotch, disposizioni segretissime, spedite con un esercito di messaggeri che se le passavano di mano in mano.
«Chi sono i misteriosi destinatari dei messaggi indicati dal capo di Cosa Nostra con la sequenza di numeri da 2 a 164?», è questa la domanda dalla quale parte l’indagine sul Codice. Da 2 a 164. E poi, sempre quell’«Adorato Gesù Cristo» citato con maniacale cura dal Padrino. E mai a sproposito. Mai per caso.
Come quella volta che Bernardo Provenzano rassicurava il suo braccio destro Antonino Giuffrè. Il capo dei capi era appena sfuggito alla cattura mentre un altro dei suoi colonnelli - Benedetto Spera - era stato preso. Scriveva il Padrino: «Grazie ancora per la tua disponibilità per una due settimane lato Cefalù, se era 25 20 giorni addietro sarebbe stata una Grazia, ma grazie al mio Adorato Gesù Cristo al momento ha provveduto lui».
Chi era lui? E quante altre volte aveva «provveduto» per avvisarlo di una retata, di un’indagine pericolosa, di una microspia? «Solo in apparenza Bernardo Provenzano è stato il più fortunato dei Padrini. Ma non è così», scrivono Michele Prestipino e Salvo Palazzolo addentrandosi nella decifrazione del Codice e ricordando la lunga lista dei blitz falliti, delle ricerche impantanate, delle piste investigative affossate dagli spifferi. Come accadde nella primavera del 2002.
Era marzo, in una di quelle antiche masserie della campagna siciliana i boss si erano dati appuntamento per un summit. Prima di cominciare la «riunione», uno di loro fece cenno a tutti gli altri di stare zitti. Poi cominciò a cercare qualcosa in una stanza, quando la trovò puntò quell’oggetto verso il pavimento. Era una telecamera. L’avevano sistemata là i carabinieri. Da un monitor, in caserma videro in diretta solo i piedi di alcuni uomini. Erano quelli dei boss. Qualcuno li aveva messi all’erta.
Chi? Un «pizzino» del vecchio Bernardo Provenzano consegnato al solito Giuffrè: «Faccia guardare, se intorno all’azienta, ci avessero potuto mettere una o più telecamere, vicino ho distante, falli impegnare ad osservare bene, e con questo, dire che non parlano, né dentro, né vicino alle macchine, anche in casa, non parlano ad alta voce, non parlare nemmeno vicino a case né buone né diroccate, istruiscili, niente per me ringraziamenti. Ringrazia a Nostro Signore Gesù Cristo».
Una delle tante soffiate partite dagli uffici investigativi, uno dei tanti servizi fatti al Padrino. «Difficile pensare che Bernardo Provenzano avesse avuto il privilegio di una visione divina che gli aveva rivelato l’esistenza di una telecamera», commentano il magistrato e il giornalista che - pizzino dopo pizzino - hanno scoperto qualcosa di veramente sorprendente nel sistema di comunicazione fra il boss di Corleone e i suoi: l’arte dello storpiare le parole. Sarà anche un mezzo analfabeta il vecchio Bernardo, ma quei messaggi sgrammaticati, quelle parole in siciliano duro, quei pensieri attorcigliati che riempivano i suoi messaggi erano tutti concordati. Erano il Codice.
A pagina 44 del libro c’è una rivelazione che conferma quella tecnica di scrittura scelta dalla mafia di Corleone. Viene riportata la registrazione di una telefonata intercettata fra Pino Lipari - uno degli insospettabili al servizio del clan - e suo figlio Arturo: «Io sgrammaticatizzo.. è fatto apposta, hai capito? Sbagliare qualche verbo, qualche cosa... mi hai capito Arturo?». Come se dietro ogni errore ci fosse una chiave per decifrare, come se dietro ogni parola malamente scritta ci fosse un segreto. E’ ancora dalle chiacchiere captate da una microspia che affiorano altri sospetti. Ed è sempre Pino Lipari che discute con il figlio Arturo a proposito di uno dei pizzini di Provenzano: «L’hai letto tu? Però non era tutto completo, vero?».
Il figlio è agitato, capisce di non avere ricopiato bene il messaggio del Padrino da portare a suo padre. Si giustifica: «Ma c’erano un sacco di Ave Maria...». Il padre si arrabbia, lo rimprovera: «Un’altra volta tutta, perché in mezzo all’Ave Maria io devo capire». I riferimenti religiosi - sempre presenti nei bigliettini di Provenzano - trasportavano informazioni criptate. Dal numero 2 al numero 164, da un’Ave Maria a un Buon Gesù.
Misteri del passato e misteri del presente. «L’arresto del Padrino di Corleone non ha rappresentato la fine della lotta alla mafia», scrive il pubblico ministero Prestipino. E aggiunge: «Perché ancora molti sono i misteri da svelare. Dietro il codice si nascondono i nomi dei mafiosi reclutati dopo le stragi del 1992 e le tracce degli insospettabili complici».
Ma dopo la sua cattura chi ne è diventato il depositario? Chi conosce la chiave per decrittarlo? Gli indizi sono solo nei pizzini. Il magistrato e il giornalista li hanno studiati per mesi, esaminati da varie angolature. Hanno anche ipotizzato che ci sia un cifrario nel cifrario. Molti pensieri del Padrino sono citazioni della Bibbia accompagnati da sequenze di lettere e altri numeri. «Il Signore vi benedica e vi protegga», era il saluto che c’era in ogni foglietto. Frase tratta dal Vecchio Testamento, libro dei Numeri, capitolo 6, versetto 24.
Un’ostentazione di religiosità che si ritrova sempre. E a volte nemmeno tanto criptica. Come questa: «Preghiamo il Nostro buon Dio, che ci guidi, a fare opere Buone». Favori. Da avere e da offrire.
Il Codice è come una via che ha attraversato la Sicilia. Con lui, il Padrino, sul ponte di comando. Cercando di essere sempre uguale e sempre diverso. L’ultimo volto è stato quello di «Pilato», così almeno riferisce quell’Antonino Giuffrè che gli è stato accanto per tanti anni prima di pentirsi. Bernardo Provenzano come Pilato per quel suo modo di prendere sempre tempo, di non decidere mai subito. Un’altra arte, quella dell’indugio. Ogni pizzino è un capolavoro di rallentamento, di pausa. Di incertezza.
Cos’è dunque, alla fine, il codice Provenzano? Il magistrato e il giornalista, nelle ultime pagine del loro bel libro, rispondono: «E’ stato un sistema di comunicazione dinamico, che era composto da relazioni in evoluzione». Relazioni che nascondono anche il vero segreto dei delitti eccellenti di Palermo: Mattarella, Dalla Chiesa, La Torre, Falcone, Borsellino. Ma il codice è anche la combinazione per aprire i grandi forzieri delle ricchezze alla mafia siciliana. Quelle mai trovate.
Parlano i figli del boss: dalle stragi al ritorno a Corleone "Falcone e Borsellino anche vittime della ragione di Stato" "Io e mio padre Provenzano così faccio i conti con la mafia"
DAL NOSTRO INVIATO FRANCESCO VIVIANO*
CORLEONE - Sono i figli del Boss dei Boss, il capo dei capi di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, classe 1933, da Corleone, detto Zu Binnu: 43 anni vissuti in clandestinità fino all’arresto del 2006, l’uomo accusato di essere dietro tutte le stragi di mafia che hanno insanguinato l’Italia. Ora per la prima volta i due figli di Provenzano, Angelo, 30 anni, diploma di geometra, e Francesco Paolo, 27, laureato in lingue, rompono il silenzio. Dicono che per parlare con i giornalisti non hanno ricevuto il "permesso" del padre, da sempre contrario ai contatti con la stampa; dicono che è una loro scelta, e che lo fanno per liberarsi, una volta e per tutte, dalle pressioni dei media che scavano nella loro vita.
Vostro padre è accusato di aver guidato Cosa Nostra, di essere il mandante, insieme a Totò Riina, di delitti e di stragi. Per questo è in galera, dove sta scontando alcuni ergastoli proprio perché considerato il Padrino della mafia. "Quando mio padre fu arrestato lo scoprii dalla radio", dice Angelo, che parla per tutti e due. "E quando andai su internet per avere conferma, restai interdetto: la foto che pubblicarono, confondendola con un altro arrestato, non era quella di mio padre. Ora, a tutti quelli che dicono che mio padre è il Padrino di Cosa Nostra, io dico che ci sono tanti Padrini. Arrestato uno ne spunta un altro. E parlando ancora di mafia in senso lato, io mi chiedo: lo Stato che ruolo ha ed ha avuto in tutti questi anni? Se andiamo indietro nel tempo ricordo stragi come quelle di Bologna e di Ustica oppure la morte del bandito Giuliano. Cosa c’era dietro? Per la morte di Giuliano, per esempio, sono dovuti passare almeno cinquant’anni per fare un po’ di chiarezza. Dobbiamo aspettare altri 50 anni per conoscere le altre verità, anche quella su mio padre? Ecco perché dare una definizione compiuta di mafia adesso è difficile".
La mafia è soprattutto un’organizzazione criminale. "La mafia... Siamo ancora oggi alla ricerca di una risposta definitiva su che cosa sia. Di primo acchito mi verrebbe da dire che è un atteggiamento mentale. La mafia viene dopo la mafiosità, che non è comportamento solo ed esclusivamente siciliano. La mafiosità si manifesta in mille modi, a cominciare dalla raccomandazione per arrivare prima a fare una radiografia o ad avere un certificato in Comune. Mi chiedo: dov’è il limite, tra mafia e mafiosità? Tra l’organizzazione criminale per come la intende il codice penale, e l’atteggiamento mentale per come la intendono i siciliani? Secondo me la mafia è un magma fluido che non ha contorni definiti. Per quanto riguarda i fatti di sangue e le sentenze di condanna, il codice dice che la mafia è un’associazione per delinquere. E su questo non discuto e non entro nel merito. Ma il discorso è molto più ampio, non si può ridurre tutto a persone che sparano".
Suo padre ha battuto tutti i record della latitanza: sin da giovane, prima che voi nasceste, era già un pregiudicato, accusato di omicidi e di far parte dei corleonesi mafiosi. "Si è detto che mio padre, in 43 anni di latitanza, quale capo di Cosa Nostra ha bloccato il sistema, l’economia, la crescita di un Paese. È stato dipinto come la personificazione del "male assoluto". Con la sua cattura, ho letto, finiva la mafia. E invece la mafia non è finita. La "mitizzazione" di papà esiste, è un dato incontrovertibile, che ha fatto comodo a molti. Se la latitanza fosse durata un anno anziché 43 il personaggio Provenzano non sarebbe esistito. Avrebbero trovato qualcun altro su cui scaricare l’attenzione per non sollevare coperchi su problemi e sui grandi misteri dell’Italia".
Tutti i pentiti di mafia, anche quelli che vi hanno preso parte materialmente, accusano i vertici di Cosa nostra e quindi Totò Riina ed anche suo padre delle stragi Falcone e Borsellino. "Guardi, dei pentiti ci sarebbe tantissimo da dire, ma sono cosciente che anche la più lontana sfumatura si presterebbe a strumentalizzazione o verrebbe interpretata come una minaccia. E allora facciamo così: se a parlare è Angelo Provenzano, non dico nulla. Se a parlare è Angelo, cittadino italiano, dico che i pentiti sono una delle più grandi sconfitte dello Stato".
Le chiedevo delle responsabilità di suo padre. "Io allora ero relativamente piccolo, l’ho vissuta di riflesso. Se mi ci soffermo ora credo che i giudici Falcone e Borsellino sono da considerarsi due vittime sacrificali, giudici immolati sull’altare della ragion di Stato".
I giudici Falcone e Borsellino sono prima di tutto vittime della mafia. E lei non ha nulla da rimproverare a suo padre? Non si è mai posto delle domande su chi fosse, chi è veramente suo padre? Lo ha mai chiesto a sua madre? "Io a mio padre riconosco alcune attenuanti. Per questo non ho da rimproverargli alcunché. Chi sono io? Semplicemente il figlio di mio padre, io esisto perché lui esiste, è lui che mi ha messo al mondo".
Un magistrato, tempo fa, invitò la figlia di Totò Riina a rinnegare suo padre: non crede anche lei che sarebbe giusto farlo? "Ma come si fa solo a pensare una cosa del genere? Bernardo Provenzano è mio padre, e allora? Basta questo per essere considerato un cittadino, un figlio, di serie B? Non è giusto. Io rispondo delle mie scelte, non di quelle di mio padre che oltretutto non so quali siano e quali siano state. E poi chi ve lo dice che non abbiamo mai parlato con mia madre di mio padre, che non le abbiamo chiesto qualcosa? Diciamo che in linea di massima mi sono tenuto le mie curiosità, domande dirette mai. Però, è innegabile che poi anche noi abbiamo indagato un po’. Ma Bernardo Provenzano era, e resta, mio padre".
All’interno di Cosa nostra c’è chi sostiene che suo padre abbia "trattato" con lo Stato, attraverso l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, poi condannato per mafia, per consegnare Totò Riina ai carabinieri. "Io posso rispondere delle mie scelte, non di quelle di mio padre, che non so quali siano perché con lui mai ho affrontato simili questioni. Ma a una domanda così posta mi viene da sorridere, poiché se fosse come dice lei non si spiegherebbe perché poi lo Stato lo arresta e lo mette in prigione con il 41 bis".
Come avete vissuto il vostro ritorno a Corleone? E perché avete deciso di tornare? "Io qui ci sono nato, non l’ho scelto. È un paese come qualsiasi altro paese, siciliano e non. Pregi e difetti dei paesi: talvolta c’è una visione ristretta delle cose, una sorta di chiusura mentale. Per il resto, però, Corleone è Corleone. Ci stiamo bene. Chissà, magari al momento opportuno, a determinate condizioni, potremmo anche decidere di andare via. Il nostro ritorno? Sotto controllo. Io, mio fratello, mia madre, siamo in assoluto le persone più controllate d’Italia, se si pensa alla durata della latitanza di mio padre. Sanno tutto di noi, controllavano (o controllano) ogni ambiente, ogni spazio, in camera da pranzo, in macchina, al bagno, alle finestre. Abbiamo vissuto, e viviamo, come se fossimo dei concorrenti del Grande Fratello. Se vogliamo sdrammatizzare, diciamo che siamo stati i protagonisti del più grosso reality su Cosa Nostra. Se ci controllano ancora, non lo sappiamo. Di certo noi ci comportiamo e ci comporteremo sempre come se lo fossimo".
A dire il vero fino a sedici anni lei e suo fratello più piccolo siete stati "latitanti" anche voi con vostro padre e vostra madre. "Dei miei primi sedici anni, vissuti in clandestinità, non voglio parlare. Non per omertà o perché devo custodire chissà quali segreti ma perché quello è un periodo della mia vita che resta mio perché mai nessuno me lo ha toccato. Il 5 aprile 1992, quando sono uscito dalla clandestinità e sono andato a Corleone, è iniziata la mia crescita, dopo avere vissuto la latitanza sono entrato in contatto con la gente. Ovviamente è stato difficile l’inserimento nella cosiddetta società civile. La mia vita prima? Ripeto. Non ho potuto scegliere, è stata una latitanza forzata, sono nato e cresciuto in quel contesto".
Perché dopo tanti anni di silenzio vi siete decisi a parlare? "Ho accettato di rilasciare l’intervista anche per una sorta di crisi d’identità nei confronti di questo Stato, che prima dava la caccia a mio padre sostenendo che era la causa di tutti i mali e che con la sua cattura la mafia sarebbe stata finalmente sconfitta; dopo il suo arresto, invece, le cose continuano ad essere come prima. La mafia c’è ancora. Mi viene il dubbio che papà, pur con le responsabilità che i tribunali hanno ritenuto di riconoscergli, fosse stato fatto diventare una sorta di coperchio su cui scaricare tutti i mali".
Che cosa vuol dire? Lei non può permettersi di lanciare delle accuse generiche senza sostanziarle. "Io chiedo solo un po’ di rispetto per me, mia madre, mio fratello. Allo Stato chiedo anche il rispetto di quello che è scritto nelle aule di giustizia e cioè che la legge è uguale per tutti. È vero, noi portiamo un cognome pesante, ma è per questo che cerchiamo sempre di farci conoscere con il nome, non con il cognome. Io, per esempio, mi presento sempre come Angelo, e solo se c’è bisogno aggiungo il resto. Non solo professionalmente, noi vogliamo farci apprezzare, o farci dire di no, in base a quello che siamo, non per la famiglia da cui proveniamo. Non abbiamo paura: non l’avevamo prima, non l’abbiamo adesso. Noi famiglia Provenzano vogliamo solo essere lasciati in pace. Il nostro disagio è quello di essere personaggi pubblici senza alcun merito. Io non ho avuto la possibilità di scegliere. Si continuano a pubblicare lettere intime di mio padre, lettere mie e di mia madre, per questioni che non hanno nulla a che fare con la mafia. Se io infrango la legge, è giusto che paghi. Se sui giornali finiscono atti coperti dal segreto istruttorio, non paga mai nessuno".
La vicenda di suo padre è diventata anche una fiction tv. "Non l’ho vista, se non a tratti. Me l’hanno raccontata. Possono fare quello che vogliono, anche perché la fiction è su mio padre, non su di noi. È quando invadono la nostra sfera che stiamo male".
Signor Provenzano, lei vota? "Noi non votiamo, e poi non parliamo di politica, come non parliamo di religione, perché mezza parola potrebbe essere strumentalizzata in un senso o in un altro".
* la Repubblica, 1 dicembre 2008
LA STORIA
Il bluff del codice Provenzano
Niente messaggi cifrati, il boss citava la Bibbia per sembrare colto
di FRANCESCO LA LICATA *
ROMA.Non esiste un codice segreto, il cosiddetto «Codice Provenzano», che - dietro nobili parole rubate alla Bibbia o ad altri Testi sacri - nasconda un cifrario assassino capace di impartire ordini all’intera organizzazione. Don Binu, dunque, non è quel gran sacerdote amanuense, un po’ ispirato, ascetico e parco fino a nutrirsi di miele e cicoria. No, il padrino - stando alle conclusioni cui sono giunti i tanti esperti chiamati ad «indagare» le bibbie sequestrate all’attempato capomafia - è solo un contadino descolarizzato che fa ricorso alla prosa del Vecchio Testamento per apprendere l’arte del carisma e imparare parole che lo facciano apparire al suo «popolo» un distillato di saggezza.
La favola del «Codice Provenzano» era nata quando a Montagna dei Cavalli, nel nascondiglio dove viveva in clandestinità il padrino, furono trovati i famigerati «pizzini», infarciti di abbondanti citazioni bibliche, e un numero esagerato (quattro o cinque) di «Libri» (cioè Bibbie) pieni di contrassegni, annotazioni e segni definiti criptici. L’equivoco fu alimentato anche dalla confusione di termini adoperati per descrivere il «sistema» con cui il boss regolava i suoi rapporti epistolari con l’esterno, e il cifrario numerico che copriva l’identità dei numerosi destinatari della sua fitta corrispondenza.
Certo, esistono un sistema e un codice Provenzano (correttamente illustrati in un buon libro scritto dal giornalista Salvo Palazzolo e dal magistrato Michele Prestipino) che riguardano le regole di Cosa nostra, ma non si tratta di nulla di criptato attraverso i versetti della Bibbia. Eppure per più di un anno i «Libri» sequestrati a Provenzano sono stati oggetto di studio di specialisti sparsi per il mondo: il Servizio centrale operativo della Polizia di Roma, un coltissimo sacerdote esperto di Testi sacri che vive in un convento di Ascoli e l’ufficio del Fbi di Washington. Dopo mesi e mesi sono arrivati i primi due responsi, quello dello Sco di Roma e una lapidaria conferma al lavoro della polizia italiana, affidata al portavoce del Fbi, Stephen Kodak, che - condividendo lo scetticismo italiano - afferma: «E’ corretto dire che non esiste alcun codice». Parola di esperti capaci di strappare, se ve ne sono, segreti protetti da collaudatissimi codici terroristici.
La spiegazione dell’atteggiamento negazionistico del Fbi arriverà quando gli americani ufficializzeranno con un rapporto. Per il momento bisogna fare riferimento all’analisi del Servizio centrale operativo di Roma. Il senso della conclusione, trasmessa alla magistratura, è che appare difficile l’esistenza di una chiave segreta nel mare di «pizzini» che spesso tradiscono la consegna della riservatezza, indicando alcuni personaggi con nome e cognome. L’unica cosa che somigli a un codice, dicono gli esperti, «è quella che vede i nomi degli appartenenti all’organizzazione, ma non tutti e non sempre, sostituiti da sigle numeriche». Spesso, invece, «i corrispondenti di Provenzano ricorrono a giri di parole (facilmente intellegibili ndr) quello che si chiama come il tuo paesano, usano iniziali, nomi di battesimo o appellativi (l’irresponsabile)». L’attribuzione di ciascuna sigla, inoltre, non sembra patrimonio dell’intera organizzazione, e lo stesso Provenzano - scrivono gli esperti - «è costretto a scriversi veri e propri promemoria» per non confondersi. Il ricorso alla numerazione
Gli investigatori hanno scoperto come comunicava che il boss mafioso
Utilizzava alcuni passi del Nuovo e del Vecchio Testamento
Usava la Bibbia per scrivere pizzini
Il codice segreto di Provenzano *
PALERMO - Poche ore dopo l’arresto, chiuso nel suo mutismo, aveva aperto bocca solo per chiedere agli investigatori la sua Bibbia. Non una qualsiasi, ma quella che Bernardo Provenzano aveva sempre accanto a sè. Quella con quelle note scritte di suo pugno con grafia incerta e minuta.
E oggi si capisce il perché di tanto interesse. Il boss mafioso utilizzava un codice nascosto tra le frasi della Bibbia, per ricordare chi fossero i propri interlocutori. E usava alcuni passi del Nuovo e del Vecchio Testamento della Bibbia per indicare alcuni dei suoi interlocutori con i ’pizzini’.Una scoperta fatta dopo l’operazione antimafia che la notte scorsa ha portato nel palermitano all’esecuzione di nove fermi.
In uno dei biglietti a sfondo vagamente religioso, Provenzano scrive: "Benedica il Signore e ti proteggi. Il Signore faccia risplendere su di... E ti conceda la sua". Una frase che sembra un’invocazione religiosa, seguita da una seria di numeri. Siglie che apparentemente sembrano indicare gli autori del Vecchio e del Nuovo Testamento. E invece si riferiscono ad altri boss mafiosi. P.bd 65 è Pietro Badagliacca. .N 25 è Nino Rotolo, NN 164 è Nino Cinà, Aless parente 121 è Matteo Messina Denaro, 30 gr, e pic. sono Salvatore Lo Piccolo e il figlio Sandro, entrambi latitanti come Messina Denaro. Tra loro c’è anche uno degli uomini finiti in carcere oggi, cioè ’Gius 76’, che dovrebbe essere Giuseppe Bisesi.
* la Repubblica, 23 giugno 2007