"La mafia? E’ la prima azienda italiana"
Per Sos Impresa 90 mld di utili l’anno *
ROMA - Con un utile annuo pari a 90 miliardi di euro, una cifra equivalente a cinque manovre finanziarie o, se si preferisce, alla somma di otto "tesoretti", l’"azienda mafiosa" si classifica al primo posto nella classifica dell’imprenditoria italiana. Un primato difficile da spodestare, dato che il giro d’affari che ruota intorno a sfruttamento della prostituzione, traffico di droga e armi, estorsione, rapine e usura non sembra conoscere crisi.
Il rapporto sulla criminalità di "Sos Impresa" della Confesercenti delinea un quadro drammatico. In base ai dati raccolti, l’usura rappresenta la principale fonte di business criminale per la mafia, con circa 30 miliardi di fatturato. Il racket frutta ai clan 10 miliardi, 7 miliardi arrivano dai furti e dalle rapine, 4,6 dalle truffe, 2 dal contrabbando, 7,4 dalla contraffazione e dalla pirateria, 13 dall’abusivismo, 7,5 dalle mafie agricole, 6,5 dagli appalti e "solo" 2,5 dai giochi e dalle scommesse.
Dati che fanno ancora più impressione, se messi in relazione a tutti gli organismi e ai cittadini coinvolti nel giro dell’illegalità. Il racket delle estorsioni coinvolge 160 mila commercianti italiani, con una quote di oltre il 20 per cento dei negozi e punte dell’80 per cento negli esercizi di Catania e di Palermo. I commercianti e gli imprenditori subiscono 1.300 reati al giorno, praticamente 50 l’ora.
La collusione degli imprenditori. "Uno degli elementi che colpisce maggiormente - sottolinea il documento - è l’espansione della cosiddetta "collusione partecipata", un fenomeno che investe il gotha della grande impresa italiana, soprattutto quella impegnata nei grandi lavori pubblici. Gli imprenditori preferiscono venire a patti con la mafia piuttosto che denunciare i ricatti".
Confesercenti fa anche alcuni nomi di aziende che hanno "ceduto" alla criminalità. "Il colosso Italcementi - si legge nel rapporto - è uno di quelli che ha ceduto alla morsa, supportando maggiori costi, assumendosi numerosi rischi ed agevolando, così, l’espansione economica della cosca dei Mazzagatti.
Anche per i lavori della Salerno-Reggio Calabria gli imprenditori sono stati costretti a trattare con le cosche calabresi. La Impregilo - sempre secondo Sos Impresa - aveva insediato nelle società personaggi che, secondo gli inquirenti "da sempre avevano avuto a che fare con esponenti della criminalità organizzata e con imprese di riferimento alle cosche".
*la Repubblica, 22 ottobre 2007.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
Mafia, l’Impero guadagna ancora
di Elio Veltri *
La ricerca della Confesercenti sul fatturato delle mafie, calcolato 90 miliardi di euro, colloca la Mafia SpA al primo posto tra le aziende italiane. Ma la cifra è per difetto dal momento che si tratta del “fatturato commerciale”, quello che riguarda da vicino la vita e l’attività regolare degli esercenti. Se a questo aggiungiamo la voce più significativa che è quella della droga, seguita dal traffico di armi, il fatturato totale diventa ancora più impressionante. Per quanto riguarda la sola cocaina di cui la ‘ndrangheta, per i rapporti con Mancuso, leader dei cocaleri, rinchiuso in un carcere d’oro della Colombia e non estradabile in virtù dei buoni rapporti con il presidente Urribe, si calcola che il fatturato sia 60 volte quello della Fiat che nel 2006 è stato di 13 miliardi di euro. Si tratta quindi di una potenza economica che se potesse entrare nelle graduatorie ufficiali farebbe impallidire gruppi come Telecom, Eni, Fiat, Fininvest, ecc. A tutto questo va aggiunto che il valore dei patrimoni consolidati della mafie viene stimato 1000 miliardi di euro e cioè 2 milioni di miliardi di vecchie lire e che secondo la Dia (direzione investigativa antimafia) gli affiliati, dedotti dalla densità criminale delle regioni meridionali sarebbero (dati del 1993) un milione e ottocentomila. Sarebbe sufficiente confiscare e vendere il 20 per cento dei patrimoni per risolvere il problema del debito pubblico e dei servizi prioritari.
Ma non è finita. La maggior parte dei proventi delle attività criminali viene investita in economia legale, con la conseguenza di turbare profondamente i mercati e la concorrenza sul mercato interno e la competitività delle imprese sul mercato globale, dal momento che nessun imprenditore costretto a prelevare denaro in banca può reggere la concorrenza. È sufficiente osservare il livello di cementificazione del paese per rendersi conto che non è dovuto alla domanda di case a prezzi di mercato quanto alla necessità di lavare denaro sporco. La verità è che la finanza legale non ha più confini certi e si mescola ogni giorno con la finanza criminale o comunque illegale, compresa quella che serve per organizzare il terrorismo. Altrimenti i paradisi fiscali, che nessuno chiede di chiudere, a cosa servirebbero?
Nel nostro Paese, almeno un terzo della ricchezza prodotta, essendo illegale e criminale, evade fisco e contributi, per cui il peso di mantenere il Paese ricade sul rimanente 65-70 per cento della ricchezza prodotta, alla quale concorrono lavoratori dipendenti, imprenditori, finanzieri senza scrupoli, banche e società finanziarie, che tutti insieme si dividono il carico fiscale del Paese. L’Italia, con il governo precedente e il cosiddetto scudo fiscale, è riuscita persino a fare una grande operazione di Stato di riciclaggio. Altra considerazione: quando partecipo a convegni sulla mafia nel nord del Paese, scopro che gli amministratori locali (non sempre in buona fede) e i cittadini disinformati, pensano che le mafie siano un problema del sud e ignorano che i soldi da ripulire oltre che in tanti altri Paesi del mondo (la ‘ndrangheta investe il 12-13 Paesi) vengono investiti soprattutto nelle regioni del nord. Ma se qualcuno osa dirlo, i sindaci replicano subito che si vuole creare discredito. Poche sere fa ero a Busto Arsizio, in un teatro pieno di giovani e ho informato i presenti che la loro città è al centro degli affari di alcune cosche siciliane e calabresi tra le più note del paese. Inoltre, una di queste, che è di Gela, si è introdotta anche a Pavia e con attività immobiliari.
Sono novità che hanno colto di sorpresa i governanti che negli ultimi 30 anni si sono succeduti? Assolutamente no. Nel 1983 Giovanni Falcone aveva spiegato come tutto sarebbe cambiato con la raffinazione della morfina in Sicilia e l’esportazione di eroina negli Stati Uniti in cambio di valige di dollari portati a spalla e quello che sarebbe avvenuto «nell’intero arco dei Paesi europei utilizzando il nuovo spazio come terreno fertile per investire, con le buone o con le cattive, in attività lucrative di ogni genere, le migliaia di milioni di dollari che si ricavano dalla produzione e dallo smercio di qua e di là dell’Atlantico di eroina e di altri stupefacenti». Nel 1992, nella sua ultima intervista che ne ha accelerato l’assassinio, Paolo Borsellino, del quale ancora oggi non si conoscono i mandanti, diceva le stesse cose. Ora siamo al fallimento e alla sconfitta. L’11 Luglio 2007 nella commissione antimafia Giuseppe Lumia ha detto: «siamo a 25 anni da quella straordinaria intuizione della legge Rognoni - La Torre e siamo a 11 anni dall’approvazione della legge 109 del 1996: per la confisca dei beni i tempi sono insopportabili e le confische sono diminuite». Violante aveva definito su l’Unità una vera vergogna le confische mancate.
Non c’è alcun tumore maligno con metastasi che consenta di intervenire dopo 25 anni dalla sua diagnosi. Purtroppo lo Stato ha alzato da tempo bandiera bianca e ha delegato alle forze dell’ordine e alla magistratura il problema più politico di questo paese e, cronaca di questi giorni, impedendo persino di operare ai magistrati più tenaci e capaci.
* l’Unità, Pubblicato il: 23.10.07, Modificato il: 23.10.07 alle ore 8.36
Il magistrato in un intervento a Radio 24 chiede la revisione del provvedimento di avocazione
E rilancia le accuse: "Ho denunciato una situazione grave di carattere generale fondata su fatti concreti"
De Magistris: ’Rivoglio l’inchiesta’
Di Pietro polemico con Napolitano
Il ministro: "Ormai la frittata è fatta, sarà difficile andare avanti"
CATANZARO - Luigi De Magistris rilancia. Dopo l’avocazione della sua inchiesta da parte della Procura generale (fascicolo nel quale risulta indagato il ministro Mastella), il magistrato si dice "fiducioso" e dice ai microfoni di Radio24 che utilizzerà tutti gli strumenti previsti dall’ordinamento giuridico affinchè il provvedimento di avocazione dell’inchiesta venga rivisto: è inconsistente in punto di fatto e di diritto". E sulle polemiche politiche dice: "Non mi interessano, io faccio il magistrato e basta".
Intanto il ministro delle Infrastrutture Di Pietro polemizza con il presidente Napolitano, che ieri ha detto di "vigilare sulla vicenda". Per l’ex pm "è la garanzia del giorno dopo". "Con tutto il rispetto per il capo dello Stato - dice Di Pietro -, da lui arriva una garanzia del giorno dopo". "La frittata è già stata fatta - aggiunge - e ora sarà difficile andare avanti". Il ministro ha spiegato che le iniziative di Mastella nei confronti del Pm De Magistris e l’avocazione dell’inchiesta che stava conducendo creeranno pesanti ripercussioni: "Se sarà archiviata resterà sempre l’ombra di un intervento della politica e una marea di persone cominceranno a non parlare più ".
De Magistris difende la correttezza del proprio operato: "Il mio comportamento è stato lineare. Il conflitto d’interessi non è mio". "Mi sono attenuto alla legge - spiega riferendosi alle contestazioni che gli sono state mosse per non aver informato i suoi superiori sugli sviluppi dell’inchiesta - ho comunicato al procuratore aggiunto le mie determinazioni. Se qualcuno sostiene che sono state violate le regole, dice il falso".
Il magistrato sostiene che non avrebbe voluto rendere pubblica la sua vicenda, ma di aver dovuto farlo, per difendersi: "Sono stato costretto ad intervenire pubblicamente perché ci sono stati troppi silenzi colpevoli e inquietanti".
"Sono dovuto intervenire quasi per legittima difesa di fronte al silenzio assordante generale", aggiunge. "Ora bisogna aspettare che il Csm decide senza interferenze e senza pressioni in tempi rapidi. Io ho denunciato una situazione grave di carattere generale fondata su fatti concreti".
* la Repubblica, 23 ottobre 2007.
MAFIA e democrazia
Che rapporto c’è, e non solo in Sicilia
Risponde Umberto Galimberti
La Sicilia: uno Stato nello Stato. Pensavo di essermi rassegnata a questa situazione dopo un po’ di anni che vivo qui e di aver metabolizzato certe regole nonostante siano così distanti dal mio assetto morale. Ma dopo la vittoria incontrastata della destra la mia rabbia è esplosa perché qui la libertà ha un senso diverso da quello enunciato nei dizionari, la legge ufficiale sottostà muta e impotente a una legge invisibile ma ben nota a tutti e rispettata da tutti, l’autonomia di quest’isola non è nello statuto speciale, è nella testa dura di questi isolani che rifiutano il contatto col mondo e con la civiltà.
Qualche anno fa, mi ero trasferita da appena un anno, qualcuno mi chiese: "Ma cos’è la mafia? Esiste davvero?". Allora questa domanda mi sembrò strana e curiosa ma rimasi interdetta e diedi una risposta piuttosto scontata, quasi da manuale scolastico... oggi vorrei qualcuno che mi facesse di nuovo quella domanda, oggi ho una percezione molto più definita di questa "cosa" ed è un bene perché almeno posso elaborare dei meccanismi di convivenza che più o meno equivalgono a faccio finta di niente e mi spalmo come tutti gli altri su questa orrida evidenza.
No, non ci riesco. È come essere in trincea ogni giorno, si lotta anche per il diritto più scontato, solo che qui nessuno sembra sapere cos’è un diritto. Qui diritto è un po’ l’equivalente di mafia per chi non la vive, un concetto astratto e indefinito e può darsi che qualcuno possa domandare: "Ma cos’è un diritto? Esiste davvero?". Qui esistono gli uffici di collocamento come in tutte le città d’Italia, ma se qualcuno vuole veramente un lavoro lo trovi in fila muto, rassegnato e umiliato davanti alla porta dell’ufficio di qualche onorevole.
Tutti lo sanno, tutti lo fanno: è normale, è quella legge non scritta che vale più della legge dello Stato. E si potrebbe continuare per ore, ma lei non ha tempo, e a dire il vero neanche io. Solo che un attimo volevo liberare questa rabbia impotente che mi stava paralizzando il cervello, volevo uscire per un istante da quest’isola terribile e meravigliosa, così faccio un salto ideale a Venezia o a Milano non ha importanza, prendo aria e torno a immergermi nella mia trincea. Chissà se capita anche a lei di aver voglia di scappare ogni tanto?
L’abbraccio con affetto.
Lettera firmata
Non scrivo il suo indirizzo mail per non esporla troppo con la sua denuncia. E questa è già una condizione di impotenza, di opportuna prudenza, ma forse sarebbe meglio dire di mancanza di libertà nonostante la "Casa della libertà" abbia fatto l’en plein dei seggi in Sicilia. Ironia delle parole e paradossalità dei discorsi che vengono a comporre.
Ma non accusi troppo la sua regione e i suoi abitanti che la amano. La mafia non è confinata nella sua isola, anzi prospera proprio perché c’è un’Italia del Nord che non rifiuta di investire il suo denaro illecito. Da fenomeno insulare, la mafia è diventata nazionale e, a giudicare dalla strage di quest’estate in Germania e non solo, internazionale. La sua diffusione così capillare e così invasiva e il suo aspetto così multiforme rende sempre più difficile una sua definizione, per cui non mi meraviglia che si sia in molti a chiedere: "Che cos’è la mafia?". In questa interrogazione c’è quella forma di rimozione per cui non si crede davvero che esista quel che non si riesce ad accettare, o si ha poca speranza di poter sconfiggere. Quando poi le condotte criminali hanno una lunga storia, al punto da sembrare endemiche, allora acquistano l’aspetto dei fenomeni naturali che, per quanto catastrofici, vengono accettati con rassegnazione perché non si sa con chi prendersela.
E invece una strada da dove iniziare c’è, se solo si pone attenzione e si è disposti anche a mettere in discussione parole sacre come "democrazia". Il nostro sistema democratico, che prevede la cooptazione da parte dei partiti di coloro che assicurano un consistente bacino di voti, concorre alla diffusione delle condotte mafiose e alla loro preventiva assoluzione, perché i voti si contano e contano. Il terzo livello, quello tra mafia e politica, prima di essere accertato dalla magistratura, che per pronunciarsi ha bisogno di prove e riscontri, dovrebbe essere accertato dai partiti, per rispettare i quali, non posso credere che ignorino le persone che cooptano nelle loro liste, salvo poi, a elezioni concluse, dissociarsi quando la magistratura riesce a raccogliere prove ed emettere sentenze. Ho detto "dissociarsi" nei casi più eclatanti, perché il più delle volte assistiamo a un indecente giustificazionismo che non di rado sfocia in insulti veri e propri alla magistratura.
Finché non si chiama in causa la politica a partire da quell’elemento "tecnico" che è la modalità di cooptare i suoi amministratori e i suoi onorevoli, la mafia non potrà essere sconfitta, per quanti proclami si facciano e per quanta indignazione si ostenti per le vittime di mafia. Proclami e indignazioni vergognose se solo pensiamo che ancora non si è provveduto a fare una legge che interdica l’elezione di persone condannate con sentenza definitiva.
Lei con la sua lettera dice di avere liberato la sua rabbia manifestando in questo modo un giustificato senso d’impotenza. Ma che ne è di una politica che assiste indifferente all’impotenza dei cittadini-vittime e, se non vittime, indignati di dovere vivere in condizioni di corruzione generalizzata senza un filo di speranza? Il mio disprezzo per molti politici del Nord e del Sud incomincia da qui.
* la Repubblica/D, 20.10.2007.
Lettere
la chiesa, la destra e i tributi da pagare
Scrive J.J. Rousseau: "Se lo Stato è fiorente, il cristiano gode della felicità pubblica; se lo Stato deperisce, benedice la mano di Dio che si aggrava sul suo popolo"
Risponde Umberto Galimberti
Mentre leviti e sacerdoti discettano sulla questione se per un cristiano sia peccato o meno evadere le tasse, sulla strada che da Gerusalemme porta a Gerico un uomo assalito dai briganti rischia di morire (Luca 10). Ma al samaritano, popolo di Dio in cammino nella storia, non dovrebbe sfuggire che si ama il prossimo anche concorrendo con le tasse al bene comune. È la "condivisione" il lievito della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Matteo 14). Quando Gesù ha parlato di povertà, non l’ha pensata come valore in sé, ma come condivisione. Ha scritto Arturo Paoli, Piccolo Fratello di Charles de Foucauld: "Condivisione non è beneficenza. La dignità dei poveri si scopre quando essi vi possono ricevere a casa loro". Viceversa un Piccolo Fratello di Silvio Berlusconi, il vicedirettore di Libero Oscar Giannino, ha scritto (10/8/07): "La nostra casa è laddove poniamo il nostro denaro. Pertanto viva Valentino Rossi e viva i paradisi fiscali".
Matteo 25: "Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato...". Una condivisione che sia amputata della dimensione economica e politica, non è piena. Arturo Paoli: "Se io ritengo di amare l’uomo e i miei fratelli in una linea affettiva, ma praticamente nego questo amore nella linea economica, evidentemente ho una personalità schizofrenica. Non posso io amare e politicamente odiare. Perciò più che con i canti, con le preghiere, io lodo Dio se le mie tre linee: l’economica, la politica e l’affettiva sono tutte e tre aperte all’amore; tutta la mia struttura sia veramente regno di Dio, progetto di Gesù". "I care: mi prendo cura" avrebbe aggiunto don Lorenzo Milani. Don Gianni Baget Bozzo invece ritiene che evadere le tasse non è peccato, perché non infrange nessun precetto (La Stampa 2/8/07). D’altra parte mentre don Milani, come Gesù, si è fatto uomo, don Baget Bozzo si è fatto soltanto prete.
Francesco Natarelli - Pescara m.natarelli1@virgilio.it
Tra l’attuale destra italiana e la Chiesa cattolica esiste una santa alleanza che è strutturale e non occasionale, dovuta al fatto che a entrambe manca il concetto di Stato e di bene comune.
E qui non mi riferisco al fatto che il leader della destra italiana è stato sottoposto a giudizio a più riprese e in più occasioni per problemi di evasione fiscale, da cui è uscito ora assolto, ora per prescrizione dei termini, ora perché la sua posizione è stata stralciata per la funzione politico-istituzionale che all’epoca svolgeva, ma al fatto che la destra, per la sua natura conservatrice, tende a difendere i privilegi acquisiti più di quanto non tuteli il principio di solidarietà che dovrebbe promuovere il pagamento dei tributi, in modo che i più svantaggiati possano fruire di qualche aiuto. Inoltre è nel codice genetico della destra la difesa dell’individuo e della sua libertà che, come recita la "Magna Charta" promulgata nel 1215 in Inghilterra, è da intendersi come "libertas a lege", libertà dalla legge, quindi difesa dai privilegi.
La Chiesa cattolica, dal canto suo, condivide con la destra il primato dell’individuo rispetto alla comunità, perché la salvezza dell’anima è individuale. Ed essendo questa salvezza la cosa più importante, la Chiesa ha sempre concepito lo Stato non come l’istituzione preposta al "bene comune", ma come l’organismo che ha per suo compito la "limitazione del male", ossia la rimozione degli ostacoli che si frappongono al conseguimento della salvezza individuale. In questo modo la Chiesa ha separato l’individuo dalla società, e quindi l’etica (che è rimasta individuale) dalla politica comunitaria, pensata come un luogo a cui l’individuo può prendere parte, ma non come il luogo della sua autorealizzazione. La destinazione ultraterrena dell’uomo e la conseguente limitazione della sfera di influenza dello Stato risulta evidente dal confronto tra la mentalità greca che non separa l’individuo dalla società e la mentalità cristiana che questa separazione effettua di fatto e di principio.
Scrive Aristotele: "Le stesse cose sono le migliori e per l’individuo e per la comunità e sono queste che il legislatore deve infondere nell’animo degli uomini. Gli uomini, infatti, hanno lo stesso fine sia collettivamente sia individualmente, e la stessa meta appartiene di necessità all’uomo migliore e alla costituzione migliore" (Politica). Al contrario Sant’Agostino scrive: "Due sono le città: l’una è formata dagli uomini che vogliono vivere secondo la carne, l’altra da quelli che vogliono vivere secondo lo spirito. [...] La vera giustizia è solo in quello Stato, se pure si può chiamare così, fondato e retto da Cristo" (De civitate Dei). Partendo da queste premesse Rousseau non può che concludere dicendo: "Il Cristianesimo, lungi dall’affezionare il cuore dei cittadini allo Stato, li distacca come da tutte le altre cose terrene. Non conosco nulla di più contrario allo spirito sociale. Il Cristianesimo infatti è una religione tutta spirituale, occupata unicamente dalle cose del cielo. Per cui se il cristiano fa il suo dovere, lo fa con assoluta indifferenza in ordine al fatto che tutto vada bene o male quaggiù" (Contratto sociale).
A questo punto a me pare del tutto evidente che per l’attuale destra italiana e la Chiesa cattolica l’evasione fiscale non costituisca un problema né di fatto, né di principio. I principi che regolano la loro santa alleanza non impongono in proposito alcun dovere.
* la Repubblica/D, 06.10.2007.