Francesco Saverio Alessio, con me autore di "La società sparente", un libro sulla Calabria vinta dalla ’ndrangheta e dal clientelismo politico, è stato minacciato lo scorso 26 ottobre. Ha ricevuto a casa un biglietto non firmato. Lo abbiamo interpretato quale scherzo cattivo, per ora.
Come da copione, la notizia è stata data in Calabria solo da pochi organi di stampa, i quali da tempo seguono con grande sensibilità i temi forti in loco. La Rai regionale ha taciuto completamente, invece. E mi chiedo il perché di questo strano silenzio, costante, poi. Quindi, scarsa solidarietà in generale, a eccezione di amici e interessati al fermento per la legalità in Calabria, di cui Alessio e io siamo anche parte.
Nessun commento, non un gesto di vicinanza né voci d’appoggio da forze interne alla società civile, salvo l’immediato conforto di Giovanni Pecora, di "Per la Calabria", a nome di tutta la rete. Qualche blog su Internet s’è aggiunto con coraggio (http://giustizia-perseo.blogspot.com); poi nessuno, niente.
A me sembra che il dibattito sul dramma calabrese sia fermo all’occhio e all’eco della tv. Se la Calabria entra nel discorso sul sistema italiano come emblema della corruzione, ritengo che s’inquadri e divulghi nell’errore il suo problema: la malavita. Che è in primo luogo assenza, volontaria deresponsabilizzazione.
La questione, a mio avviso, è anzitutto culturale. Me ne rendo conto meditando sull’isolamento che con Alessio sto vivendo dall’uscita del libro.
Osservare i fenomeni legati alla criminalità, analizzarli e descriverli nel profondo non suscita condivisione e non è materia di confronto, sia in Calabria che presso gli intellettuali e i media italiani.
Sono in gioco interessi e poteri troppo grossi. E tanto basta, e come, perché il quarto potere si fermi con clangore solo su aspetti in emersione del problema calabrese; ignorando del tutto il fondale da cui originano.
Alessio e io abbiamo individuato nell’assistenzialismo a oltranza, voluto da Roma, e in movimenti elettoralistici fuori dello schema bipolare italiano alcune delle cause dell’espansione della ’ndrangheta.
Se la società non c’è, s’allarga il crimine organizzato. L’assistenza di Stato e la dipendenza prodotta dallo scambio di voti e dalla gestione degli elettori come matricole da sistemare sono il centro d’un carcinoma in metastasi. Per ciò, la Calabria si distingue dal resto del Sud e dell’Italia.
L’antropologo Francesco Mauro Minervino, che per ragioni professionali ben conosce la regione e la sua gente, parla della marginalità locale come impossibile da raccontare.
Lo scrittore Vittorio Messori, invitandomi alla cautela rispetto alla capacità propulsiva di Internet circa l’aggregazione dei calabresi reattivi, mi ha offerto uno spunto di riflessione. Per Messori, noi calabresi confermiamo il malaffare proprio quando i fatti ci impongono di combatterlo senza tregua. "Chi è causa del suo mal, pianga se stesso", verrebbe da chiosare.
Tutto il recente movimento per la giustizia e i diritti negati in Calabria non può limitarsi alla piazza. Né può continuare solo con un linguaggio di rumori e astrazioni, generalizzazioni, emozioni.
Ci vuole una rivoluzione culturale. Serve per moltiplicare le voci che chiedono libertà e aumentare la vigilanza critica su provvedimenti e fatti politici funzionali alla strategia della confusione, dell’abuso e dell’illegalità.
La brutta vicenda di De Magistris non è da limitare allo scontro sui media col guardasigilli Mastella. Lì a Catanzaro, in procura, ci sono apparentamenti noti e rapporti particolari di cui nessuno dice pubblicamente.
Oggettivamente, il punto vero è l’esistenza di "parentele" allargate, cui l’ex ministro Castelli ha fatto un piccolissimo accenno da Vespa, e l’uso di postazioni chiave per sbrogliare faccende molto ingombranti.
Che, in ordine a certe alleanze, si voglia parlare di massoneria, di ’ndrangheta tout court o di adeguate rappresentazioni geometriche dei rapporti in gioco, la sostanza non muta.
Guardando in trasparenza, questo è il male della Calabria: il fatto che viviamo sotto uno stesso tetto un po’ tutti. E quindi non possiamo sbilanciarci, non possiamo dissentire, non possiamo solidarizzare con chi i fatti ricostruisce, non possiamo denunciare.
Chi lo fa, è avvertito. Poi, non si sa. Ma si può immaginare.
Emiliano Morrone
emiliano.morrone@libero.it
Un verbale di interrogatorio della prima donna che ha "tradito"
la potentissima organizzazione calabrese dopo che le hanno ucciso il figlio
Angela, la pentita della ’ndrangheta
Amante e moglie di boss, ha scelto di parlare
"Ero stimata per capacità e indipendenza. Rifiutai di essere ’battezzata’
ma conoscevo le regole e partecipavo a molte attività"
di FRANCESCO VIVIANO
CATANZARO - Amante e moglie di due boss della ’ndrangheta, ex amica anche dell’assassino del figlio, "affiliata" alla cosca di Lamezia Terme, ora ha deciso di pentirsi svelando 20 anni di storia, misteri ed omicidi anche "eccellenti" alla squadra mobile di Catanzaro. Per la ’ndrangheta, che basa (molto più di Cosa Nostra) la sua forza su strettissimi rapporti famigliari, è un colpo durissimo. Il "pentito" nelle cosche calabresi è una figura rarissima.
Angela Donato è madre di Santino Panzarella, ucciso due anni fa. Venne assassinato perché aveva una "storia" con la moglie di un altro boss della ’ndrangheta che era in carcere. Fu sequestrato e ucciso; il suo corpo fatto a pezzi e gettato in un torrente. Soltanto alcuni mesi fa, grazie alla collaborazione di un pentito, sono stati ritrovati tracce di Santino Panzarella: un osso del piede che l’esame del dna ha permesso di attribuire al giovane. Adesso la donna vive sotto una discreta scorta della polizia. Le "voci" a Lamezia Terme del suo pentimento girano insistentemente e si teme per la sua vita.
Storia di una donna di ’ndrangheta. Ecco il suo racconto fatto agli uomini della squadra mobile di Catanzaro. "Agli inizi degli anni sessanta emigrai da Marcellinara a Lamezia Terme dove conobbi il padre dei miei figli Panzarella Sebastiano il quale era un agricoltore che conduceva un fondo a Marina di Acconia. Invero in quegli anni in Lamezia Terme abitavo presso la famiglia Vescio alla quale prestavo i miei servigi in qualità di domestica. Successe che con Vescio Giuseppe, il quale era un appartenente alla Criminalità Organizzata, intrattenni anche un rapporto sentimentale che mi iniziò alla conoscenza dell’allora compagine criminale lametina".
"Ancor prima alloggiai presso una mia amica il cui compagno era amico della famiglia De Sensi il cui capo, Antonino De Sensi per un certo periodo fu capo dell’intera Criminalità Organizzata lametina. Per suo tramite conobbi Luciano Mercuri, Cadorna, Egidio Muraca e sua moglie, Cannà e tutti i capi dell’epoca dai quali ero visibilmente stimata per le mie capacità e la mia intraprendenza".
La proposta d’iniziazione. "Successe che addirittura mi venne proposto di essere " battezzata" con il rito "’ndranghetistico" ma che effettivamente non fu mai attuato poiché dissi apertamente che volevo essere amica di tutti ma non volevo alcun vincolo verso una persona o un gruppo in particolare e che avevo lasciato il mio paese di origine per un miglioramento delle mie condizioni di vita che non potevo sicuramente trovare negli obblighi che mi avrebbe comportato l’affiliazione ad una famiglia mafiosa. Questa mia presa di posizione sebbene apparisse inconsueta fu tenuta in considerazione per la mia risolutezza e fu comunque talmente apprezzata al punto tale che fui comunque considerata una di loro e quindi partecipavo attivamente seppur con ruoli marginali a tutti i discorsi che riguardavano le loro attività delittuose".
Le regole della ’ndrangheta. "Appresi così fin dalla giovane età, (avevo circa venti anni) le regole con le quali la ndrangheta gestisce gli affari delittuosi che a quell’epoca consistevano soprattutto nel contrabbando di tabacchi. In quell’epoca cominciarono anche i sequestri di persona e qualche omicidio. Essendo inserita in quella famiglia conobbi personalmente i protagonisti dell’epoca tra i quali Cerra Nino, e comunque la famiglia Torcasio di cui vi riferirò in seguito. Per mezzo dell’amicizia di Vescio Giuseppe cominciai anche a lavorare presso l’ospedale civile di Nicastro dove conobbi Sebastiano Panzarella, quest’ultimo del pari di Vescio, inserito nella Criminalità Organizzata . Con Panzarella Sebastiano inizia una convivenza nel suo luogo di origine che era Acconia di Curinga. Panzarella Sebastiano si occupava di contrabbando, di guardianie dei fondi agricoli e comunque aveva buoni contatti con le famiglie criminali di Nicastro. Panzarella Sebastiano riuscì ad ottenere una guardiania molto importante infatti fu "assunto" dalla ditta Asfalti Sintex che stava eseguendo dei grossi lavori stradali da Campora San Giovanni a Serra Aiello. Invero aveva buoni contatti anche con le famiglie criminali di Cosenza che avevano il controllo di quei lavori per cui, sebbene fosse di fuori zona fu favorito per la garanzia di quel cantiere".
La morte del marito. "Panzarella effettivamente subì parecchie vicende giudiziarie e numerosi periodi di detenzione nel corso dei quali tra i processi ed i colloqui in carcere ebbi modo di consolidare i rapporti con i familiari di altri codetenuti e di altri coindagati e quindi, fino alla morte di mio marito avvenuta nel 1985, di conoscere l’evolversi delle compagini criminali, soprattutto di Lamezia Terme e del comprensorio lametino. Infatti con i familiari dei detenuti ci vedevamo spesso alle carceri o in occasione dei processi e quindi da loro stessi apprendevo di che cosa si occupassero le varie famiglie".
Omertà e rispetto. Nei miei confronti non vi erano assolutamente delle riserve poiché godevo della loro massima fiducia in quanto avevo più volte dimostrato che sebbene fossi una donna, avevo saputo tener fede ai vincoli di omertà e mi ero messa a disposizione fattivamente per ogni emergenza. Ad esempio quando abitavamo a Curinga vi fu un grosso traffico di sigarette ed ero io stessa mi occupavo dello smistamento in quanto potevo facilmente eludere i controlli delle forze dell’ordine. Un’altra volta addirittura mi trovai ad accompagnare tre evasi che si chiamavano Scriva, Dattilo e Belvedere e quindi avevo avuto modo di dimostrare che non solo avevo coraggio ma ero una persona per loro affidabile. Peraltro in quel periodo abitavo anche vicino al vecchio Tribunale di Lamezia Terme ed avevo modo di seguire costantemente i vari processi e quindi di incontrarmi con tutti. Per un certo periodo addirittura prestai servizio presso la casa dell’allora Procuratore di Lamezia Terme che era di Cosenza".
Da qui, da queste rivelazioni della donna-boss sono partite numorose inchieste sulla ndrangheta, sulla finta morte di Belvedere e sugli assassini del figlio uno dei quali si è poi pentito.
* la Repubblica, 2 novembre 2007.
il male della calabria è il chiassoso silenzio che la avvolge. hai tutta la mia solidarietà caro Maestro.
" Non ho nulla di nuovo da insegnare al mondo. La verità e la non violenza sono antiche come le montagne."
Gandhi
Carissimo Jascu,
le tue parole valgono molto più d’una summa. E’ tempo che anche la nostra bella città si svegli. Ti ringrazio per la stima espressa nei miei confronti. Ma non sono un maestro. Mettiamola così: tento, nel mio piccolo e con scarsi mezzi e competenze, di suscitare un dibattito, un confronto, una qualche reazione della nostra società. La Calabria è oggi al bivio. Dico un’ovvietà. Ma troppo spesso l’ovvio è invisibile. Ti abbraccio e ti saluto con l’affetto e l’amicizia di sempre.
emiliano
Quell’elogio del giornalismo
di Furio Colombo *
Lucia Annunziata, editorialista de La Stampa e già direttore del Tg3, non ascolta Radio Radicale. È un peccato, e poiché la stimo, la prego di farlo e le spiego il perché.
Varie volte al giorno quella radio trasmette uno spot in cui due attori interpretano rispettivamente Bruno Vespa, il noto conduttore di Porta a Porta, e Salvo Sottile, il noto assistente di Gianfranco Fini. Le voci sono teatrali ma le parole sono tratte dai verbali giudiziari. È la famosa telefonata, diventata pietra miliare nelle scuole di comunicazione (perfetto esempio di ciò che non si fa), in cui i due iscritti all’ordine dei giornalisti italiani discutono sul come creare intorno a Fini, allora ministro degli Esteri del governo Berlusconi, la migliore, la più adatta e favorevole trasmissione possibile.
Il conduttore offre amichevolmente tutti gli aggiustamenti immaginabili, finché, attraverso il portavoce Sottile, il ministro Fini (che, ci viene detto dai due, sta assistendo alla conversazione) accetta la composizione del gruppo «come un vestito tagliato su misura» (parole di Vespa).
Ho parlato diffusamente dello spot di Radio Radicale perché ha il merito di avere racchiuso in alcune battute, rigorosamente vere, un’intera epoca del giornalismo italiano. È l’epoca descritta dall’Economist, da Der Spiegel, dallo Zeit, da Indro Montanelli, quando ci ha raccontato come e perché ha lasciato la direzione de Il Giornale, da Enzo Biagi quando ha ricevuto la celebre raccomandata con ricevuta di ritorno perché accusato di «giornalismo criminoso».
Storie passate? Certo, per fortuna. Ma non è passato il conflitto di interessi. Sarà noioso ricordarlo, ma la vasta proprietà Berlusconi non è insediata nel campo dell’alluminio o dell’ottica (in quelle dimensioni una simile ricchezza a disposizione di un politico che guida assalti quotidiani a un governo farebbe paura comunque) ma sta proprio al centro di tutti i tipi di comunicazione italiana e, in parte, anche europea. Dunque, nel nostro Paese il potere, un potere molto pesante, è seduto sul giornalismo.
Tutto ciò è una replica a quanto Lucia Annunziata ha scritto - con vigore indignato - contro le poche e precise affermazioni sui media fatte da Walter Veltroni a Milano nel suo discorso di investitura. Riassumo le parole di Veltroni con quel tanto di parzialità che i lettori mi riconoscono: «Oggi è importante per un leader politico andare poco in televisione perché si entra in un paesaggio alterato in cui fai solo spettacolo». Veltroni ha anche accennato alla stampa scritta che monta intorno a ogni evento un “prima” e un “dopo” (anticipazioni e retroscena) che portano qualsiasi notizia e qualunque dichiarazione nella direzione voluta di volta in volta, a piacere.
Lucia Annunziata sa tutto questo perché ha fatto la giornalista in America, ha studiato giornalismo ad Harvard. In Usa ha imparato perché, nei mesi scorsi, i direttori di due grandi giornali, il New York Times e il Los Angeles Times, hanno chiesto scusa ai lettori per avere diffuso come vere notizie preparate da centri politici non giornalistici. Lucia Annunziata lo sa perché conosce la vicenda di Judith Miller, l’autorevole notista politica del New York Times che ha lavorato a una lunga campagna di disinformazione attraverso il suo giornale ignaro (notizie false ricevute da una fonte ritenuta ineccepibile) finché la brutta vicenda è stata rivelata non da inchieste giornalistiche ma da un’inchiesta giudiziaria.
Per questo, con stima e rispetto, mi sento di ritenere priva di fondamento (e - ho appena dimostrato - non solo nella vita giornalistica italiana) la frase finale dell’articolo domenicale di Lucia Annunziata: «Nella recente ondata di antipolitica è stata messa in discussione la credibilità dei politici, non dei media. Ed è attraverso i media che in questi mesi di tensione le élite di questo Paese stanno tenendo aperta una linea di contatto con i cittadini».
Saranno i retroscena abili e gustosi di Augusto Minzolini, sarà Porta a Porta e i tanti programmi simili, a garantire questo contatto? E ancora: potrebbe esserci un disordine così intenso e anarcoide nel rapporto fra cittadini e politica senza il ruolo attivo e interessato di televisioni e giornali che stanno al gioco o conducono il gioco? Infine: accade tutto ciò per un periodo così prolungato nelle democrazie su cui non grava un gigantesco conflitto di interessi nel cuore del sistema delle comunicazioni?
* l’Unità, Pubblicato il: 30.10.07, Modificato il: 30.10.07 alle ore 11.34