Monongah
La Marcinelle americana
Alle dieci e mezza i muri di tutti gli edifici di Monongah vibrarono spaventosamente. I tram deragliarono. Le miniere 6 e 8 erano esplose, trasformando chilometri di caverne in un inferno: il più grande disastro della storia mineraria americana
da New York Elena Molinari
L’alba era fredda ma limpida, la mattina del 6 dicembre 1907, e gli uomini - alcuni poco più che bambini - che si avviavano a gruppetti dalle case di Monongah, nel West Virginia, verso le miniere ai piedi delle colline erano più animati del solito. Il giorno prima il paese, a stragrande maggioranza cattolico, aveva festeggiato in anticipo la ricorrenza di san Nicola e le miniere erano rimaste chiuse. Una rara pausa che molti avevano passato stanando conigli o scacciando i pensieri alla taverna locale. Ma alle 5 e mezza di mattina erano già in cammino, lampade ad olio appese ai caschetti e picozze in spalla, verso l’entrata dei budelli dove per dodici ore avrebbero strappato alla terra il carbone che doveva tenere calda e in movimento l’America.
Qualche storia dell’epoca racconta che verso metà mattina tre uomini tornarono in superficie per sostituire parti del loro equipaggiamento. Ma nei cunicoli delle miniere numero 6 e numero 8, collegate sottoterra da uno stretto tunnel, sopra ad un ponte sul fiume West Fork, rimanevano ufficialmente 358 uomini.
In realtà erano molti di più. Si dice almeno il doppio, perché quasi tutti i dipendenti della Fairmont Coal Company erano soliti portarsi un apprendista, spesso un figlio o un nipote, che li aiutasse in cambio di qualche spicciolo. Alle 10 e mezza i muri di tutti gli edifici di Monongah vibrarono spaventosamente. I tram deragliarono. I passanti si trovarono per terra mentre una densa nube nera cominciava a discendere sulla cittadina. Le miniere 6 e 8 erano esplose, trasformando chilometri di caverne in un inferno di fiamme e gas letali. Il più grande disastro della storia mineraria americana si era consumato in pochi secondi, avviando una catena di eventi che si estenderà per un secolo, fino ai giorni nostri. Non ci volle molto ai lavoratori delle altre miniere e agli abitanti della città accorsi alla collina a cogliere la portata dell’orrore.
Le bocche delle miniere emettevano un alito così pestilenziale che i soccorritori, sprovvisti di maschere antigas, potevano addentrarvisi solo per pochi metri, e mai più di quindici minuti per volta. Nel giro di poche ore, inoltre, cominciarono ad emergerne alte fiamme, che resero impossibile prestare alcun aiuto agli eventuali superstiti.
Quello che la terra rigurgitò, nei giorni successivi, furono solo corpi. Bruciati, dilaniati, difficili da riconoscere. Stesi in bare di fortuna, vennero allineati prima nelle due chiese cattoliche della città, poi nell’atrio di una banca, quindi lungo la via principale. Fra una e l’altra si muovevano ansiose decine di donne con due, tre bambini per mano o in braccio, recitando preghiere o esplodendo in espressioni di sconforto in italiano, polacco, russo o armeno. Il bilancio ufficiale, sicuramente incompleto, contò 171 italiani fra i defunti, tutti emigrati da paesi calabresi, abruzzesi e molisani come San Giovanni in Fiore, San Nicola dell’Alto, Falerna, Gizzeria, Civitella Roveto, Duronia, Civita d’Antino, Canistro e Torella del Santo. A turni, i minatori ricevettero le estreme esequie nella vecchia chiesa di San Stanislao o alla Nostra Signora di Pompei, dove il 10 dicembre il vescovo della vicina Wheeling, Patrick J. Donahue, celebrò uno dei tanti funerali di massa. Per la cittadina e i suoi tremila abitanti, però, piangere e seppellire i morti fu solo l’inizio di una dolorosa lotta per la sopravvivenza.
Consci delle loro responsabilità - e delle pessime condizioni di sicurezza in cui i loro dipendenti erano costretti a lavorare - i proprietari della Fairmont Coal Company fornirono per settimane cibo, vestiti e combustibile agli oltre millecinquecento orfani e vedove.
Lo Stato del West Virginia rimase invece perlopiù a guardare, mentre nascevano organizzazioni di beneficenza private. Il 27 dicembre duemila giornali americani pubblicarono contemporaneamente un appello a nome della città di Monongah. In breve centocinquantamila dollari - una fortuna all’epoca - si riversarono sul paese e vennero distribuiti ai bisognosi o accumulati in fondi per gli orfani. Intanto rimanevano ignote le cause del disastro e ci vollero al Congresso degli Stati Uniti sei mesi per istituire una commissione d’inchiesta. Le sue risposte non furono mai conclusive, salvo individuare, come aveva scritto il New York Times meno di due settimane dopo la tragedia, la mancanza di regole chiare e adeguate per l’attività minatoria. Ma gli americani dovette aspettare fino al 1910, e assistere nel frattempo ad altri devastanti disastri, per vedere la nascita di un Bureau nazionale delle Miniere. Nel frattempo Monongah era sopravvissuta. Altri immigrati erano arrivati a rimpiazzare i defunti. Gli anniversari della tragedia passarono infatti uno dopo l’altro, senza che un monumento sorgesse sulle rive del West Fork River in onore delle centinaia di uomini periti in una limpida mattina di dicembre.
Dovranno passare quasi cinquant’anni prima che un sacerdote nato in Massachussetts, senza radici italiane né polacche e con alle spalle dieci anni di missione in Giappone, scuotesse dall’inerzia la cittadina con la sua determinazione. Everett Francis Briggs arrivò a Monongah nel Natale 1956 e subito si appassionò alla storia dei minatori scomparsi. In meno di un anno organizzò solenni celebrazioni per il cinquantesimo anniversario e stabilì un comitato per la creazione della Casa di riposo per anziani Santa Barbara in memoria della tragedia - un’idea che gli eredi dei minatori defunti avevano incoraggiato per anni. La Casa aprì le porte nel ’61. Ma padre Briggs non si fermò lì.
Negli anni successivi scrisse articoli sulla tragedia, compreso uno sulla rivista Science in cui calcolava che il numero delle vittime del disastro era sicuramente superiore a cinquecento. E ricercò le origini dei minatori defunti, un’attività che nel 2004 gli valse la nomina a cavaliere dell’Ordine della Stella della solidarietà italiana. Lo stesso anno i sindaci dei comuni italiani dai quali erano partiti i minatori si recarono nella cittadina per piantare una croce nel cimitero in memoria di quei morti senza nome. Nel frattempo padre Briggs aveva deciso di passare i suoi ultimi giorni nella casa di riposo Santa Barbara, dove morirà il 20 dicembre 2006.
Non prima però di aver visto innalzato un monumento in marmo di Carrara alle mogli e alle madri dei minatori scomparsi, che volle chiamare: «All’eroina di Monongah».
* Avvenire, 25.11.2007
Sull’argomento, in rete, si cfr.:
Disastro di Marcinelle (Wikipedia)
Disastro di Monongah (Wikipedia)
La tragedia di Monongah (Emigrati.it)
Monongah - La Marcinelle Americana *
Il 6 dicembre ricorre il centenario della tragedia mineraria di Monongah, nel West Virginia (USA), ove perirono oltre 950 minatori di cui oltre 450 emigrati italiani.
Nel 2006 la FILEF ha realizzato l’unico film-documentario disponibile su questo evento.
"Monongah, la Marcinelle americana", ripercorre attraverso la storia della famiglia Basile, partita dall’Abruzzo, lo sradicamento e il difficile travaso nella società americana, permettendo agli spettatori di riflettere sulle tante croci che ancora oggi aspettano un nome e un volto e sulle quali vi è scritto: "qui giace un eroe".... eroe del sogno americano che molti hanno vissuto nel buio delle miniere e in condizioni di sfruttamento impressionante. Ed è impossibile, vedendo questo film che narra tra l’altro l’epopea del viaggio dei nostri migranti attraverso l’oceano atlantico, non ritornare alle immagini quotidiane delle migliaia di nuovi immigrati morti cento anni più tardi nel nostro mediterraneo alla ricerca del "sogno italiano".
Silvano Console
Editrice Filef - 2006
Cortesia di FILEF - Federazione Italiana Lavoratori Emigranti e Famiglie
Per vedere il filmato clicca qui!
* Comunicazioni Arcoiris TV
Mattarella nel 65° anniversario della tragedia di Marcinelle *
«Desidero rendere omaggio al sacrificio di 262 minatori, tra cui 136 italiani, che sessantacinque anni or sono persero la vita nella tragedia di Marcinelle.
Ricorre quest’anno anche il settantacinquesimo anniversario dalla stipula dell’Intesa Italo-Belga per l’approvvigionamento di carbone all’Italia distrutta dalla guerra. Dalle criticità di tale accordo, e da tragici eventi come quelli che si verificarono al Bois du Cazier, l’Europa ha appreso l’importante lezione di dover porre diritti e tutele al centro del processo di integrazione continentale.
Oggi viviamo una nuova fase di ripresa e ripartenza. L’Unione Europea - edificata sulla base di valori condivisi e di norme e istituzioni comuni - ha saputo trovare in sé energie per aiutare i popoli degli Stati membri nel difficoltoso cammino di uscita dalla pandemia.
Gli ambiziosi traguardi che ci siamo prefissati nei piani di rilancio e resilienza non potranno essere raggiunti senza un responsabile sforzo, individuale e collettivo. Quella responsabilità esercitata dai tanti lavoratori italiani che hanno percorso le vie del mondo.
Il mio pensiero più rispettoso e la vicinanza della Repubblica vanno oggi innanzitutto ai familiari di quanti hanno perso la vita sul luogo di lavoro, emblematicamente rappresentati dai parenti delle vittime di Marcinelle.
Possa questo messaggio raggiungere altresì tutti i nostri connazionali che si trovano all’estero per ragioni professionali, con sentimenti di viva riconoscenza per il loro contributo e il loro impegno».
*
Fonte: Quirinale, 08.08.2021
La miniera di Marcinelle diventa patrimonio Unesco
In Vallonia nel 1956 morirono 136 minatori italiani.
Oggi il luogo della strage è un museo e un memoriale
di Marco Zatterin (La Stampa, 02.07.2012)
Forse non c’era bisogno del certificato. Il Bois du Cazier è scolpito nel patrimonio di tutti, da quell’8 agosto di 56 anni fa in cui nelle viscere della terra persero la vita 262 minatori tra cui 136 italiani. La tragedia della miniera di Marcinelle ha impiegato poco a diventare il simbolo di un’epopea drammatica e gloriosa, un luogo della memoria fra i più simbolici per l’emigrazione del dopoguerra, la seconda più grave sciagura nel suo genere dei tempi moderni. Era un lembo di ricordo collettivo eppure è stato a lungo sul punto di diventare un supermercato. Ora è chiaro che non succederà più. L’Unesco l’ha riconosciuto, insieme con altri tre siti minerari della Vallonia, patrimonio dell’umanità, come il centro storico di Firenze o Mont Saint-Michel. E l’ha salvato per sempre dalla speculazione.
Il carbone al Cazier non lo estraggono dal 1967. Dalla fine del conflitto sono stati 140 mila gli italiani venuti in Belgio per scavare sino a mille e passa metri nel sottosuolo. I loro posti di lavoro venivano scambiati per carbone da importare, 200 chili al giorno per emigrato, e col tempo s’è scoperto che il prezzo imposto dalle autorità di Bruxelles (nazionali) non era poi così conveniente. Era la ricchezza del Paese eppure, una volta chiusi gli impianti, c’era chi era pronto a dimenticare.
«All’ inizio degli Anni 90 le strutture della miniera erano in stato di totale abbandono», racconta Maria Laura Franciosi, autrice di un libro («Per un sacco di carbone») che ha contributo molto a sensibilizzare l’opinione pubblica. I minatori in pensione e i loro eredi si sono battuti perché la storia non finisse. Oggi il sito nei pressi di Charleroi è un museo sull’industria d’antan, oltre che un toccante memoriale. Jean-Louis Delaet, direttore del centro e promotore della campagna Unesco, lo definisce «luogo di confluenza culturale che ha assimilato scambi di tecnologie e apporti di conoscenze umane di origine assai diversa». Un luogo vivo, senza dubbio. Adesso ancora di più.
Marcinelle, Mattarella: "Pensare alle sofferenze dei migranti". Ira Salvini: "Vergogna"
’Paragona italiani morti a clandestini. Non parla a mio nome’, ha detto il leader della Lega
di Redazione ANSA *
"L’8 agosto di 61 anni fa a Marcinelle, dove persero la vita, tra gli altri, 136 nostri connazionali, si consumò una sciagura che ha lasciato un ricordo indelebile nella memoria europea". "Il nostro pensiero va ad essi - aggiunge Mattarella - al Bois du Cazier, luogo simbolo del lavoro italiano nel mondo e, mentre onoriamo la loro memoria, siamo esortati a mantenere vivo il senso di riconoscenza per i sacrifici affrontati da tutti i lavoratori italiani, emigrati alla ricerca di un futuro migliore per sé e per le proprie famiglie. Le loro fatiche sono state feconde. Esse hanno contribuito a edificare un continente capace di lasciarsi alle spalle le devastazioni della seconda guerra mondiale e di offrire alle generazioni più giovani un futuro di pace, di crescita economica, di maggiore equità sociale".
"Il dramma di Marcinelle - prosegue il Capo dello Stato - ci invita a riflettere anche sul tema irrisolto della sicurezza nei luoghi di lavoro, ancor oggi di grande attualità: rimane un impegno prioritario delle autorità italiane ed europee. Generazioni di italiani hanno vissuto la gravosa esperienza dell’emigrazione, hanno sofferto per la separazione dalle famiglie d’origine e affrontato condizioni di lavoro non facili, alla ricerca di una piena integrazione nella società di accoglienza.
E’ un motivo di riflessione verso coloro che oggi cercano anche in Italia opportunità che noi trovammo in altri Paesi e che sollecita attenzione e strategie coerenti da parte dell’Unione Europea". "In questo giorno dedicato al ricordo del sacrificio del lavoro italiano nel
mondo - conclude il presidente della Repubblica - rivolgo ai familiari e ai colleghi delle vittime della tragedia di Marcinelle, e di ogni altra nella quale sono periti nostri emigranti, un solidale e affettuoso saluto".
Salvini, Mattarella si vergogni - "Mattarella paragona gli italiani emigrati (e morti) nel mondo ai clandestini mantenuti in Italia per fare casino? Si vergogni! Mattarella non parla a nome mio. #STOPINVASIONE". Lo scrive su Facebook il leader della Lega Matteo Salvini commentando il messaggio del presidente della Repubblica in occasione dell’anniversario di Marcinelle.
"La propaganda di Salvini non si ferma nemmeno di fronte alle commemorazioni di tragedie come Marcinelle. Anche oggi le sue parole sono indecenti, questa volta in modo inqualificabile contro il presidente Mattarella. È solo lui che si deve vergognare di quello che dice ogni giorno, sacrificando alla becera propaganda di parte ogni momento". Così il vicesegretario del Pd Maurizio Martina.
"Salvini la smetta di attaccare Mattarella. L’unico che dovrebbe vergognarsi è lui, che per un pugno di voti strumentalizza il dramma di migliaia di persone". È quanto afferma Stefano Pedica del PD. "Fa bene il capo dello Stato a invitare a riflettere sul dramma dell’emigrazione nel giorno dell’anniversario della tragedia di Marcinelle - spiega Pedica -. Salvini, se davvero ci tiene a ricordare degnamente gli italiani morti nella miniera belga di carbone, almeno oggi stia zitto".
Il 6 dicembre 1907 un’esplosione nei cunicoli della Fairmont Coal Company
uccise centinaia di persone. Almeno 171 erano immigrati dal nostro Paese
Cent’anni fa la strage di Monongah
in miniera l’ecatombe degli italiani
dal nostro inviato MARIO CALABRESI *
MONONGAH (West Virginia) - Erano le dieci e trenta del mattino del 6 dicembre 1907, quando la miniera di carbone e ardesia di Monongah saltò in aria. In quel momento c’erano dentro quasi mille persone, moltissimi italiani. Sopravvissero in cinque. Fu il più grande disastro minerario d’America. E d’Italia, visto che i nostri emigranti pagarono un prezzo superiore addirittura a Marcinelle. Cento anni dopo, siamo tornati in West Virginia per ritrovare la memoria di una tragedia rimasta senza un perché.
La Storia è passata di qui cento anni fa e ha lasciato il suo segno su un ripido pendio erboso. Il cimitero non ha un recinto, le lapidi sono messe nella terra senza un ordine, sono sparse come fossero state gettate a caso. Nella pancia della collina sono sepolti molti più uomini di quanti non si possa immaginare contando le pietre tombali: in un solo giorno le fu chiesto di accoglierne cinquecento, forse mille. Era il 6 dicembre del 1907. A Monongah, piccolo paesino tra i boschi dei monti Appalachi, abitavano 3.000 persone, vivevano per la miniera della Fairmont Coal Company.
Estraevano carbone e ardesia. Ci lavoravano grandi e piccoli. Ogni uomo regolarmente assunto e con il bottone di ottone, che riportava la sua matricola, appuntato sul petto portava con se almeno due aiutanti, erano adolescenti o bambini, la loro discesa sotto terra non era registrata da nessuna parte. Pochissimi furono riconosciuti. Arrampicandoci sul crinale ne troviamo uno: "Qui è che giace Giuseppe Colarusso, in Santa Pace volò in grembo di Dio, nella tenera età di anni 10. Suo fratello Michele pose". Gli adulti guadagnavano 10 centesimi l’ora, i ragazzini ricevevano una mancia legata alla quantità di carbone che portavano in superficie. Vivevano in baracche di legno ricoperte di carta catramata, in dieci per stanza, pagando anche dieci dollari al mese, metà dello stipendio.
Quel venerdì mattina alle 10 e 30 una scintilla incendiò il grisou, il gas che riempiva le gallerie, non si è mai saputo perché e le inchieste non hanno trovato responsabili. L’esplosione fu terribile e si propagò per centinaia di metri dalla galleria otto alla sei. Sopravvissero in cinque, per gli altri non ci fu scampo. Il boato si sentì a trenta chilometri di distanza. Ci vollero molti giorni per recuperare i corpi, che erano carbonizzati e sfigurati, in gran parte irriconoscibili.
Venne allestita una camera mortuaria nella sede della banca, un luogo di cui nessuno si fidava tanto che i morti avevano i risparmi arrotolati nella cintura. Quando fu piena si cominciò ad allineare i cadaveri sul corso principale. Una folla di madri, vedove e orfani vagava alla ricerca di qualche segno di riconoscimento. Le scarpe, una giacca, i segni della barba. Alla fine soltanto 362 ebbero un nome e il diritto alla lapide. Gli altri ebbero sepoltura comune, o rimasero sotto il carbone.
Su sei vagoni ferroviari arrivarono 500 casse di legno. Il sindacato dei minatori disse che tanti erano state le vittime, i giornali arrivarono a parlare di mille morti. Di certo ci furono 250 vedove e un migliaio di orfani. La moglie di Carmine Ferrario era incinta di due mesi quando la minierà crollò, sulla lapide fece scrivere: "A Carmine nato a Vacri Chieti, vittima del disastro di Monongah, la moglie desolata pose". Otto mesi dopo fece aggiungere: "Il figlio Carmine di mesi uno seguì il padre nella tomba il 9 agosto 1908". La pietra si era spezzata esattamente a metà, oggi l’hanno aggiustata e padre e figlio sono tornati insieme.
Fu il più grande disastro minerario della storia americana. E di quella italiana. 171 dei morti riconosciuti erano emigrati dal nostro Paese. Più che a Marcinelle, in Belgio dove nel disastro del 1956 morirono 136 italiani. Ben 87 venivano dal Molise, poi dalla Calabria, dall’Abruzzo e dalla Campania. Ce lo raccontano le lapidi. Scritte in italiano, piene di errori, piene di disperazione: "A riposo di Cosimo Meo del fu Donato e di Filomena Paolucci, morto di 20 anno nel disastro di Monongah nella miniera N 8, nato ha Frosolone di Campobasso lascia sua madre".
Gente povera, semianalfabeta, sfruttata. Solo l’anno precedente erano arrivavati ad Ellis Island, la porta d’ingresso per l’America, più di 300mila emigranti dall’Italia. Dalla baia di New York li portavano qui per soddisfare il bisogno di carbone e legname del boom industriale americano. La compagnia anticipava i 15 dollari del viaggio, che poi avrebbe trattenuto dalle paghe settimanali.
Erano giovanissimi e vivevano quasi da reclusi come racconta il direttore dei Quaderni sulle Migrazioni, Norberto Lombardi, nel libro "Monongah 1907, una tragedia dimenticata", che il Ministero degli Esteri ha pubblicato questa settimana. I campi di lavoro erano controllati da guardie armate, non si poteva evadere, se non prima di aver pagato tutti i debiti. Anche il cibo si comprava allo spaccio della compagnia mineraria che tratteneva la spesa dallo stipendio. Così erano sempre sotto scorta, tanto che circolava una battuta: "Gli emigranti italiani fanno parte tutti della famiglia Reale".
Di loro per molto tempo si era persa la memoria. Le lapidi erano ridotte in uno stato pietoso, spezzate, semicoperte dalla terra che con la pioggia smotta ogni inverno verso la strada, ma questa estate sono state recuperate e ripulite: dopo anni di incuria e dimenticanza il governo italiano ha spedito 100mila dollari per i lavori.
La storia è passata di qui e poi se ne è andata con la fine della miniera. Oggi tra queste colline boscose abitano meno persone dei morti di quella mattina di cento anni fa. Non sono diventati ricchi, ce lo raccontano le casette bianche ad un piano in finto legno, le automobili datate, la merce nei negozi. La storia ha lasciato non solo la West Virginia ma tutta questa parte d’America, le acciaierie di Pittsburgh hanno spento gli altiforni, il periodo d’oro cominciato con Andrew Carnegie, l’uomo che pagò per le sepolture, è finito da un pezzo e il declino non ha risparmiato nessuno. La miniera ha segnato la storia anche perché da quel momento cominciò la discussione per mettere nuove regole, la richiesta di sicurezza. Ma la strage dei minatori continuò, l’anno dopo, mese dopo mese, in decine di incidenti morirono in 700. In un secolo rimasero sotto terra 20mila persone solo in questo Stato, e gli ultimi 14, poco lontano da qui, li hanno persi lo scorso anno.
Ma la memoria è rimasta. "Come sarebbe possibile dimenticare, ogni famiglia ha un antenato che era nella miniera quel giorno. Il bisnonno di mio marito si salvò perché doveva scendere il turno dopo": Diane Masters, caschetto biondo, è la proprietaria del piccolo ristorante Diary Kone. Più una gelateria fast food che un ristorante, ma i suoi sei tavoli sono un’istituzione in paese. Ci sono dal 1960, lei lo ha preso tre anni fa: "Gli affari vanno bene, anche perché ho convinto il vecchio proprietario a vendermi con il locale anche la ricetta segreta per la salsa degli hotdog". È una specie di ragù leggermente piccante. "Ma il vero campione della memoria è stato il reverendo". Everett Francis Briggs è morto lo scorso anno, era nato due anni dopo la tragedia, era cresciuto ascoltando la storia dell’esplosione che uccise italiani, polacchi, irlandesi, russi e slovacchi e si è battuto perché non si dimenticasse.
Nel cinquantesimo anniversario ha aperto una casa di riposo per anziani intitolata a Santa Barbara, la protettrice dei minatori. Oggi ci vivono 57 vecchi non autosufficenti della zona. La dirige suor Mary, che non ha molto tempo da perdere, sotto il braccio ha un fascio di cartelle cliniche, ma con la mano libera con tre gesti secchi ci indica la statua della santa patrona ("Sotto sono incisi i nomi di tutti i caduti"), il ritratto di un ragazzino minatore ("È originale e mostra che sotto terra andavano anche i bambini") e la targa che ricorda il reverendo. Poi apre la porta del suo ufficio e ci congeda: "Buona fortuna". Nella sua struttura ci sono persone che hanno combattuto nella Seconda Guerra Mondiale e per loro ha messo l’adesivo sul vetro all’ingresso: "Se ami la libertà ringrazia un veterano". Anche il cimitero è costellato di bandierine a stelle e strisce, perché tra le tombe dei minatori ci sono anche quelle dei reduci delle Guerre Mondiali, della Corea e del Vietnam.
Aveva 98 anni quando se n’è andato, non potrà vedere la campana regalata dal Molise, nata nella fornace della Fonderia Pontificia Marinelli di Agnone, suonare domani mattina. I ragazzi della scuola media, che ha come mascotte un leoncino, sono pronti. A turno, ad ogni rintocco della campana, leggeranno i nomi dei morti. Sul muro della scuola hanno attaccato uno striscione dipinto a mano su un lenzuolo bianco: "Noi ricordiamo".
Oltre il fiume West Fork, sui cui lati stavano le due gallerie della miniera, c’è la città vecchia, da allora non si è mai ripresa. Il ponte è dedicato a padre Briggs, sopra ci sono gli striscioni della regione Molise, scritti in due lingue. Accanto all’ufficio del sindaco e dello sceriffo, di fronte Blumberg building del 1911, dove oggi c’è il "Dark Side Karaoke", c’è la statua dell’"Eroina di Monongah", una donna con il fazzoletto in testa, un figlio in braccio e l’altro per mano: "In memoria delle mogli vedove e della madri delle vittime della miniera".
Una di queste si chiamava Caterina Davia, perse il marito e due figli, ma i loro corpi non vennero mai trovati. Ogni giorno, per quasi trent’anni, tornò all’ingresso delle gallerie per portare via un sacco di carbone che poi svuotava nel suo giardino. Diede vita ad una collina, "la collina di carbone", che arrivò a sommergerle la casa. Diceva che lo faceva per togliere loro un po’ di peso. E per dare un senso alla sua follia.
"Marcinelle. Quei 300 minatori avvolti da lingue di fuoco a mille metri di profondità"
di Rubens Tedeschi *
«ll Belgio apprenderà certamente con angoscia le notizie dell’incidente verificatosi nella miniera di Marcinelle. Un incendio è scoppiato in un pozzo dei campi carboniferi di Amercoeur, bloccando trecento uomini alla profondità di 765 metri. Indescrivibile scene di dolore si stanno verificando nei pressi della miniera. Questo incidente potrebbe risolversi nella peggiore catastrofe mineraria della storia del Belgio».
Con questo laconico «comunicato speciale», letto con voce spezzata dall’emozione da un anonimo annunciatore, la radio belga ha dato alla nazione la terribile notizia che, in pochi istanti, ha gettato nel lutto il Belgio e l’Italia, poiché, come subito dopo si è appreso la maggiora parte dei sepolti vivi è composta da minatori italiani. Ministri, giornalisti, belgi, francesi e italiani, radiocronisti e fotografi, reparti della gendarmeria e dell’esercito, squadre della Croce rossa e dei vigili del fuoco si sono precipitati sul luogo della sciagura, dove regnavano il terrore, l’angoscia e un’indescrivibile confusione.
Uno spettacolo pauroso si è presentato ai nostri occhi quando siamo giunti davanti ai cancelli della miniera. Il fumo - un fumo denso, nero, acro - oscurava il cielo e rendeva l’aria irrespirabile. Dal cielo buio cadeva una pioggia silenziosa di fuliggine. Di tratto in tratto, l’oscurità era lacerata da lingue di fuoco che guizzavano ruggendo dalle miniere della terra. Una folla composta in massima parte di donne e di bambini, a stento trattenuta da cordoni di gendarmi, faceva ressa per avere notizie, si accalcava intorno ai membri delle squadre di soccorso che, dopo ore e ore di durissimo lavoro, tornavano alla superficie. Le informazioni che costoro recavano non erano rassicuranti, e, nella loro inevitabile contraddittorietà contribuivano ad alimentare l’incertezza e la confusione. Dalla folla si levavano lamenti, invocazioni e invettive: invettive contro il destino, ma anche contro coloro che portavano la pesante responsabilità della sciagura. Erano frasi gridate in molte lingue: in francese, in fiammingo, in greco, ma soprattutto in italiano, perché italiani sono in massima parte, i sepolti vivi e italiani i loro figli e le loro mogli.
Secondo notizie di carattere ufficiale, 270 sono, esattamente, gli uomini rimasti bloccati nella miniera dall’incendio. Di essi, 139 sono italiani, 115 belgi, 16 di varie altre nazionalità. (...) Otto cadaveri sono già stati recuperati. (...) Un minatore rimasto intrappolato a 170 metri di profondità è stato portato alla superficie ancora in vita alle ore 23 ma è morto poco dopo. Egli si era mantenuto in vita aspirando aria da un piccolo tubo di areazione che aveva tenuto in bocca per oltre 12 ore. Sei uomini, tutti belgi, sono stati trovati ancora vivi. Essi giacciono ora in uno stato di semi-asfissia nell’ospedale di Charleroi. Si spera di poterli salvare ma le loro condizioni permangono gravissime. Altri venti uomini circa sono riusciti a mettersi in salvo solo pochi attimi dopo lo scoppio dell’incendio. Essi sono stati concordi nel riferire che il disastro si è verificato alle 8.30 circa del mattino, in seguito all’urto di un vagoncino contro un cavo elettrico, urto che ha lacerato l’involucro isolante del cavo, mettendo allo scoperto i fili di rame e provocando, di conseguenza, un corto circuito.
L’incidente è avvenuto quando il vagoncino carico di carbone è uscito dai binari andando ad urtare con violenza contro la parete del tunnel. Uno dei superstiti, tale Carlo Fontane, di nazionalità italiana ha sobriamente narrato ad un cronista i pochi fatti di cui è stato testimone. Si tratta, in verità, di un brevissimo brano della gigantesca tragedia. «Io e i miei compagni di squadra - ha detto il Fontane - stavamo caricando i vagoncini di carbone sul montacarichi, quando udimmo odor di fumo. Questo è stato l’ultimo viaggio del montacarichi. Erano le 8.30». Almeno quattro dei minatori postisi in salvo prima che l’incendio dilagasse sono italiani. I loro nomi, secondo notizie non confermate, sarebbero: Carlo Fontane (autore del breve racconto già riferito), Antonio Ganetta, Attilio Amin e Orazio Pasquarelli.
Fiamme furiose. Le fiamme, sviluppatesi con estrema rapidità e con furia, eccezionale, hanno letteralmente fuso i cavi di acciaio di tutti i montacarichi, tranne uno, intrappolando i 270 minatori intenti al lavoro. L’unico montacarichi ancora in grado di funzionare è rimasto malauguratamente bloccato da un altro vagoncino pieno di carbone. Le informazioni fornite alla stampa dalle autorità sono state, durante tutta la giornata, molto scarne e tutt’altro che chiare. D’altra parte, gli stessi componenti la squadra di soccorso erano in grado soltanto di riferire notizie parziali e, come abbiamo detto, talvolta contraddittorie.
Solo a tarda sera, quando re Baldovino è giunto sul luogo della sciagura raggiungendo il Primo ministro, il ministro degli Interni e quello dei Lavori pubblici, è stato possibile raccogliere notizie tali da formare un quadro sintetico e sufficientemente chiaro della situazione. Nell’ufficio studi della miniera, il re dei belgi ha avuto un lungo colloquio con il direttore generale delle miniere, che si chiama Van Den Heurel, il quale ha spiegato, per quanto era possibile farlo, le cause del sinistro e l’andamento del’opera di soccorso.
Van Den Heurel ha precisato (correggendo le prime notizie e quindi smentendo in parte anche il primo comunicato della radio belga) che il deragliamento del vagoncino che ha causato il corto circuito è avvenuto a livello 975 (cioè a 975 metri di profondità) e non a livello 765, come era stato detto e ripetuto per tutta la giornata. Si ritiene - egli ha aggiunto - che la maggior parte dei minatori rimasti bloccati nella miniera debba trovarsi in gallerie situate a profondità maggiori, in particolare a livello 1033. La notizia è stata accolta con molto sconforto, poiché già si sapeva che i sepolti vivi si trovavano a quattro diversi livelli di profondità e precisamente a 765, 835, 873 e 1033 metri. Ciò significa che i minatori sono in parte bloccati dall’incendio che divampa sopra le loro teste, mentre in parte sono quasi interamente avvolti dal fumo, denso e ricco di ossido di carbonio, che sale dalle cavità situate sotto i loro piedi.
Gli uni e gli altri - è con un senso di angoscia che lo scriviamo - debbono quindi trovarsi in condizioni spaventose. La loro vita (ammesso che essi siano ancora in vita) è appesa a un filo. Gli altri dettagli forniti dal funzionario al re Baldovino contribuiscono a rendere il quadro ancora più nero. Nella galleria 975, luogo di origine del disastro - ha detto Van Den Heurel - tutte le opere in legno dei camini sono bruciati. (...) I punti in cui, ai diversi livelli, erano intenti al lavoro i minatori quando è accaduto il disastro, sono situati a una distanza di circa un chilometro e mezzo dall’ascensore del pozzo di evacuazione. Le squadre si danno il cambio ogni due ore. La giornata si è chiusa dunque in un’atmosfera di accentuato pessimismo. Purtroppo, però, le previsioni erano state catastrofiche fin dal primo momento.
* l’Unità, 08 agosto 2009
Anche Schifani ricorda l’ANNIVERSARIO DELLa tragedia quale persero la vita 262 lavoratori
Napolitano: «La strage di Marcinelle
sia un monito per la sicurezza sul lavoro»
«Non ci deve essere alcuna caduta di impegno delle istituzioni e degli altri soggetti responsabili» *
ROMA - «La commemorazione della tragedia di Marcinelle, nella quale persero la vita 262 lavoratori di 12 diverse nazionalità, tra cui 136 italiani, rinnova l’angoscioso ricordo di una delle più drammatiche pagine della storia del lavoro nel nostro Paese, opportunamente eletta giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo». Esordisce così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un messaggio inviato in occasione del 54.mo anniversario della tragedia di Marcinelle. Questo anniversario è anche l’occasione per il capo dello Stato per inviare un monito sul tema della sicurezza del lavoro.
MONITO SULLA SICUREZZA - «La terribile vicenda del Bois du Cazier conserva attuale il suo alto valore - scrive - di monito sul tema della sicurezza del lavoro. Gli indubbi progressi conseguiti a tale proposito nell’ultimo mezzo secolo non possono infatti giustificare alcuna caduta di impegno delle istituzioni e degli altri soggetti responsabili a fronte del ripresentarsi, in condizioni nuove, di problemi e pericoli non meno gravi che nel passato». «Il dramma di Marcinelle - prosegue Napolitano - è anche un simbolo dell’epopea del continente europeo, i cui popoli, prostrati dall’immagine tragedia della seconda guerra mondiale, hanno saputo superare antiche divisioni e unire le proprie forze in nome di ideali comuni e della speranza di un futuro migliore per i propri figli. Quel futuro è tuttora in corso di realizzazione e il suo ulteriore compimento è nelle nostre mani. Per questo è necessario custodire e trasmettere alle nuove generazioni il senso e il valore del sacrificio di Marcinelle. In questo spirito - conclude - invio a quanti, familiari delle vittime, autorità e cittadini, parteciperanno alle diverse cerimonie della giornata odierna il mio cordiale saluto».
SCHIFANI: «RICORDARE QUEI MARTIRI» - «Sono trascorsi 54 anni dalla tragedia di Marcinelle nella quale persero la vita 262 minatori, 139 dei quali erano italiani. Era l’8 agosto del ’56 che resta tristemente impresso nella storia del nostro Paese». Anche il presidente del Senato, Renato Schifani ha ricordato la strage: «Mantenere viva la memoria dei nostri concittadini caduti sul lavoro, in Italia e all’estero, è per noi tutti un dovere morale e un segno della nostra riconoscenza verso quei martiri dell’operosità italiana e del progresso civile».
* Corriere della Sera, 08 agosto 2010