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ECONOMIA. L’ITALIA NELLA ZONA GRIGIA DELLO "ZERO VIRGOLA". La crescita di fatto non esiste. Senza fatica, sudore e lacrime questo Paese è destinato a diventare rapidamente irrilevante nell’economia mondiale. Una riflessione di Mario Deaglio - a cura di pfls e

giovedì 21 febbraio 2008.
 

Promesse al vento

di MARIO DEAGLIO (La Stampa, 22/2/2008)

Con i malati gravi talvolta si usano giri di parole e si cerca di indorare la pillola, ma non è proprio il caso di farlo con l’Italia. Per quanto possa risultare sgradevole, occorre quindi dire francamente che, nel corso degli ultimi due trimestri, l’economia italiana è ripiombata nella stagnazione che l’aveva afflitta dall’inizio del nuovo secolo e dalla quale era sfuggita nel 2006 e in parte del 2007. I segnali sono più che evidenti: da quattro mesi la produzione industriale è in caduta sempre più rapida, i consumi sono piatti e anche le esportazioni, nostro essenziale punto di forza, a dicembre hanno segnato una brutta inversione di tendenza.

Ci troviamo, certo, in una situazione mondiale molto incerta a seguito della crisi finanziaria americana e il rallentamento riguarda tutte le economie europee. Se gli altri Paesi però si prendono il raffreddore, l’Italia si prende la polmonite: di fronte a una riduzione media della velocità di crescita dei Paesi dell’Unione Europea pari al 20 per cento, la riduzione prevista per l’Italia è del 50 per cento dall’1,4 allo 0,7 per cento. Il Paese ricade così in quella zona grigia dello «zero virgola» in cui la crescita di fatto non esiste mentre il resto d’Europa continua a crescere, sia pure a velocità (lievemente) ridotta.

Se poi si passa a considerare la realtà delle imprese, le conferme di questo arretramento non mancano. Certo, l’Italia può vantare bellissime realtà aziendali e i telegiornali ci deliziano tutte le sere con le sfilate del «made in Italy», ma nel suo complesso il Paese proprio non riesce a tenere il passo con la crescita del resto del pianeta: secondo una nota rilevazione del Financial Times, tra le 500 maggiori imprese quotate in Borsa nel mondo per capitalizzazione di mercato ce ne sono solo 8 italiane contro 12 svizzere e altrettante spagnole, 10 olandesi e 9 svedesi, per parlare solo di Paesi relativamente piccoli, mentre inglesi, francesi e tedeschi ne hanno alcune decine. Tre anni fa, nella stessa lista, le imprese italiane erano dodici.

Di fronte a questi dati sia macroeconomici sia aziendali, la tentazione prevalente è di negare, o minimizzare, e di offendersi. Quando la Spagna sorpassa l’Italia nel Pil (il prodotto lordo) per abitante si dice che non si vive di solo Pil e che comunque le stime del Pil sono approssimative. Quando il commissario europeo per gli Affari economici e sociali Joaquín Almunia (ahimè, uno spagnolo anche lui!) fa rilevare la posizione di coda dell’Italia nella crescita europea, c’è la tentazione di ribattere che Almunia ce l’ha con l’Italia perché già in passato ha espresso molte riserve sulla sostenibilità del miglioramento dei conti pubblici.

Il periodo pre-elettorale è forse il momento giusto per fare un passo indietro da quest’atteggiamento suscettibile e di guardare in faccia questa spiacevole realtà: una diminuzione così netta nella crescita prevista significa che ci sarà anche una sensibile diminuzione nelle entrate fiscali previste appena 2-3 mesi fa. Occorre a questo punto interrogarsi sulla possibilità di realizzare le spese previste dalla legge finanziaria con entrate inferiori e proprio questo dovrebbe essere uno dei temi maggiormente dibattuti della campagna elettorale. Forse gli elettori italiani apprezzerebbero chi dicesse loro la verità: non ci sono «tesoretti» da distribuire come bottino elettorale, non esiste il piccolo decreto magico che salva il Paese, non ci sono soluzioni senza costi o con costi che deve pagare qualcun altro e - per usare non troppo a sproposito l’espressione di Winston Churchill - senza fatica, sudore e lacrime questo Paese è destinato a diventare rapidamente irrilevante nell’economia mondiale.

Stiamo rapidamente scivolando fuori dal gruppo delle grandi economie del mondo ed è il momento di far qualcosa di serio. In caso contrario, diventeremo in pochissimi lustri una sorta di paese-museo, per di più mal collegato con il resto del mondo per mancanza di aeroporti e linee aeree adeguate, per i relativamente pochi turisti stranieri (il turismo è un altro settore in cui l’arretramento italiano è maggiormente visibile) che si prenderanno la pena di venirlo a visitare.

Alle forze politiche che stanno mettendo a punto i programmi elettorali occorre chiedere di spiegare non tanto, o non solo, quanto i singoli lavoratori italiani potranno trovare in busta paga l’anno prossimo, ma quante buste paga ci potranno essere di qui a quindici-vent’anni. Non si tratta di dare qualche piccolo beneficio ai ricercatori universitari ma di fornire le risorse perché, tra qualche decennio, le università italiane siano ancora presenti nel panorama mondiale della ricerca. Non si tratta di «vendere» agli elettori i piccoli provvedimenti che favoriscono questa regione o quella categoria, ma di fare loro una proposta su come cambiare l’Italia in tempi medi e medio-lunghi. Non bisogna, come purtroppo molti leader politici hanno oggi tentazione di fare, essere miopi e rassicuranti; proprio come con i malati gravi, è bene dire agli italiani le cose come stanno, in modo che possano fare scelte responsabili, senza aspettare che a parlare sia il commissario Almunia.

mario.deaglio@unito.it


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