La politica militarizzata
di GIUSEPPE D’AVANZO *
STEFANO Rodotà (Repubblica) e Valerio Onida (Sole24ore) scovano strappi e buchi nel pacchetto di provvedimenti preparato dal governo "per dare più sicurezza al Paese". La nascita di un diritto della diseguaglianza, con il reato di immigrazione clandestina, trasforma "una semplice condizione personale" in reato ignorando l’accertata o presunta pericolosità sociale, dimenticando che in uno Stato democratico "lo strumento penale e la pena detentiva non sono utilizzabili ad libitum dal legislatore" (Rodotà). L’incostituzionalità delle circostanze aggravanti da infliggere a chi "si trova illegalmente sul territorio nazionale" dà vita a un doppio binario di giudizio per il cittadino italiano e lo straniero, che paga - con la maggiore severità della pena - soltanto la sua "condizione soggettiva" (Onida).
Sono interpretazioni neutrali dei principi costituzionali e delle norme esistenti. Forse si può, forse è addirittura necessario andare oltre questo confine "tecnico" affrontando, con radicalità, il paradigma che affiora in questi provvedimenti che connotano il governo di destra. Forse, potremmo familiarizzare con quel ci attende. Con una formula provvisoria, lo si può definire la "militarizzazione della decisione". Proprio alla luce dei rilievi giuridico-costituzionali di Rodotà e Onida si può dire come, per il governo, il diritto non sia la norma, soltanto la decisione lo è.
C’è al fondo dei provvedimenti dell’esecutivo una sorta di decisionismo schmittiano, una concezione del diritto che privilegia, rispetto alla norma, "il suo aspetto di prassi rivolta a una decisione", quasi in antagonismo alla legge. Per l’esecutivo di Berlusconi non appaiono pertinenti e vincolanti i precetti dello Stato di diritto né lo Stato né il diritto. Quel che conta per i ministri è "dare risposte all’insicurezza dei cittadini"; è "decidere", "interpretare il potere costituente del popolo" per usare la formula di Carl Schmitt.
Quest’urgenza - vissuta, raccontata, immaginata come estrema o improrogabile - è sufficiente a creare "uno stato d’eccezione", un "vuoto", quel "vuoto del diritto" che sospende la norma e trasforma il diritto in "prassi, processo, cioè in qualcosa la cui decisione non può essere mai interamente determinata dalla norma". Naturale che saltino fuori distorsioni, incostituzionalità, un "diritto penal-amministrativo della diseguaglianza".
C’è in questo esito un presupposto inedito per l’Italia e perversamente moderno perché, come ha scritto Giorgio Agamben, "la creazione volontaria di uno stato d’eccezione permanente è divenuta una delle pratiche essenziali degli Stati contemporanei, anche quelli cosiddetti democratici". Questa condizione crea un sostanziale svuotamento della partecipazione politica a vantaggio della verticalizzazione della decisione politica (il ricorso al decreto legge). Sollecita la "militarizzazione" della sua applicazione, anche in opposizione alle leggi e in violazione della Costituzione. Appare coerente, allora, che il primo Consiglio dei ministri si sia tenuto a Napoli e abbia affrontato il collasso della raccolta dei rifiuti in Campania e le questioni dell’immigrazione.
Napoli è la città che rende più credibile - quasi indiscutibile - la creazione dello "stato d’eccezione". In quell’area metropolitana si misurano, senza apparenti limiti la catastrofe delle istituzioni; il fallimento delle amministrazioni del centro-sinistra; l’arretratezza della società civile; l’impotenza dello Stato; la pervasività dei poteri criminali; lo sfacelo di ogni rapporto di cooperazione; la frattura di ogni strategia della fiducia. Questo paesaggio rovinoso, minacciato da calamità sanitarie, consente di realizzare, con diffuso consenso, quel "vuoto del diritto" che sospende temporaneamente l’esercizio della norma. Autorizza a declinare la "governabilità" come decisione assoluta e non partecipata fino a ipotizzare l’uso delle forze armate per applicarla. La militarizzazione della decisione, appunto.
È coerente che, nella città della spazzatura non smaltita, si siano affrontate anche le questioni dell’immigrazione perché se i rifiuti minacciano l’integrità di Napoli, i "rifiuti umani", gli "scarti" della modernità, gli "esuberi" impauriscono la società e inceppano la vita dello Stato. Così anche in questo caso sarà legittimo, in forza della necessità, la sospensione dell’ordinamento giuridico, la produzione di quel "vuoto" che inghiotte anche i principi costituzionali, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la convenzione europea dei diritti, il patto internazionale sui diritti civili e politici, liquidando per decreto lo "stato d’emergenza" in cui gli "scartati" sono costretti a vivere. Necessitas legem non habet.
Lo "stato d’eccezione" è creato, voluto, organizzato volontariamente. È una scelta politica. È strategia. Quindi concederà di non guardare alle regioni meridionali oppresse dalle mafie. Berlusconi, che ha glorificato come eroe Vittorio Mangano, un mafioso, in campagna elettorale, potrà non vedere quei pericoli e riservare soltanto poche, pleonastiche righe al ricordo di Giovanni Falcone ("La ricorrenza dell’eccidio di Capaci è un momento di memore riflessione"). Per la creazione artefatta e permanente di uno stato d’eccezione, per la militarizzazione delle decisioni, per il nuovo, modernissimo "paradigma di governo", sarà più urgente nominare i direttori dei servizi segreti e affidarli alle cure di De Gennaro.
* la Repubblica, 24 maggio 2008.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Rifiuti urbani e rifiuti umani
di Guido Viale (la Repubblica. 23 maggio 2008)
L’abbinamento tra rifiuti urbani e rifiuti umani è un dato di fatto, consolidato dal tono e sempre più anche dalle parole dei politici impegnati sul fronte della "sicurezza". I primi, i rifiuti urbani, sono lo scarto e il residuo non consumato dei nostri "consumi", cioè di quello che ciascuno di noi compra tutti i giorni. I secondi, i rifiuti umani, sono lo scarto, il residuo non assimilato, dell’ininterrotto processo di riorganizzazione e di riconfigurazione della società. Ma la "società" siamo noi e anche i rifiuti sociali sono un nostro prodotto.
Generiamo i rifiuti urbani individualmente, ciascuno per conto proprio, ma all’interno di processi di produzione-consumo-scarto in larga parte predeterminati da altri. Produciamo rifiuti sociali collettivamente e anonimamente; ma poi ciascuno di noi deve fare i conti con la propria coscienza: con il grado e la misura in cui partecipa alla formazione e alla conferma dei processi di esclusione in atto; che possono portare anche molto lontano: per esempio all’incendio di campi nomadi e al rogo di chi ci abita, riedizione plebeo-leghista ("nord e sud uniti nella lotta") del porrajmos con cui i nazisti hanno a suo tempo sterminato mezzo milione di zingari.
L’abbinamento tra rifiuti urbani e rifiuti umani non dovrebbe destare scandalo perché è una verità comprovata; e può suscitare indignazione solo se e quando questo sentimento diventa il filo conduttore per fare i conti con il problema e cercare di venirne a capo.
Una città invasa dai rifiuti urbani, come Napoli e larga parte della sua provincia e del Casertano è il contesto ideale non solo per la produzione incontrollata di rifiuti umani, ma anche per il loro accumulo in forme che rendono sempre più difficile il ritorno alla "normalità". Il disordine ambientale promuove il disordine sociale e trasforma il nostro rapporto con le cose in un modello per il nostro rapporto con le altre persone. Accumulare cose che non ci servono e buttare via a casaccio tutto ciò che ci dà fastidio è un principio informatore della società e dell’economia in cui e di cui viviamo; ma è il principio che ha messo la Campania in ginocchio e che sta portando al pettine i nodi di tutto il modello di vita e pensiero che ha guidato prima lo sviluppo industriale dell’Occidente e poi il processo di globalizzazione che investe il pianeta Terra: un modo d’essere e di pensare - l’impalcatura storicamente determinata in cui si manifesta lo spirito dei tempi - che ci spinge, parallelamente, a non adoperarci per ridurre al minimo, cioè per prevenire, i problemi dell’emarginazione sociale e la produzione di rifiuti umani, ma a spingerli invece al massimo.
Che fare allora? Per alcuni la soluzione sta nel fuoco purificatore dell’inceneritore e nella continua e sempre più affannosa ricerca di siti e buchi in cui sotterrare la montagna di rifiuti che ci assedia. È quattordici anni, da quando ha avuto inizio la gestione commissariale dei rifiuti in Campania, e forse anche da prima, che i fautori di questa soluzione, senza molto preoccuparsi delle sue controindicazioni, aspettano gli inceneritori che non sono mai arrivati e che, anche quando, e se, arriveranno, non basteranno più a bruciare le montagne di rifiuti, le ecoballe e i depositi di inquinanti sotterrati in ogni dove che questa attesa ha provocato. Quanto alle discariche, è ormai chiaro che in un tessuto sociale denso e in un territorio compromesso come quello campano non c’è più spazio per sistemare, nemmeno "provvisoriamente" i rifiuti al ritmo in cui vengono prodotti. Di qui il caos, istituzionale e normativo, prima ancora che ambientale, in cui è stata fatta precipitare la regione.
Così non saranno i roghi purificatori dei campi nomadi - che campi non sono, ma suoli pregiati che fanno gola agli immobiliaristi, e nomadi sono i loro abitanti solo perché vengono continuamente cacciati dall’uno all’altro - non saranno quegli incendi a "ripulire" le nostre città dalla loro incomoda presenza: l’attesa della soluzione salvifica, oggi al centro dell’agenda politica, non farà che incancrenire il problema. Mentre il tentativo di trovare sempre nuovi siti - e buchi - in cui confinare i loro abitanti ha prodotto solo la loro moltiplicazione, così come un cassonetto circondato da sacchetti di immondizia abbandonati, perché non riesce più a contenerli e non viene svuotato in tempo, diventa un punto di accumulo di ogni sorta di altri rifiuti. Ma alla luce dei risultati raggiunti e dei guasti realizzati da quattordici anni di commissariato speciale per i rifiuti, l’idea di affrontare il problema dei rom con altri commissari speciali alla sicurezza dovrebbe far rabbrividire chiunque.
Una politica attenta alle cose e alle persone - una politica che dovrebbe radicarsi nei comportamenti e nell’educazione di ciascuno di noi - dovrebbe mirare innanzitutto a ridurre con la prevenzione la produzione di rifiuti e i meccanismi dell’emarginazione; e poi apprestare, per ciò che comunque il ciclo ordinario delle nostre esistenze non riesce ad assorbire, strumenti e circuiti di riciclaggio e di reinserimento sociale che evitino o riducano al minimo il ricorso sia alle discariche e ancor più agli inceneritori: rifiuti zero - o quasi, dato che non possiamo più permetterci l’utopia - sia per le cose che per le persone. Una raccolta differenziata in cui gli scarti del consumo si raccolgono e vengono incanalati in maniera ordinata nei contenitori e verso gli impianti preposti a reimmetterli in un successivo ciclo di produzione è la premessa indispensabile per avere una città pulita, senza monnezza e senza sporcizia per le strade; un ambiente urbano "vivibile"; una ricostituzione dei legami sociali basati sulla solidarietà e non sulla necessità di danneggiare gli altri per salvaguardare se stessi.
Un sistema di accoglienza, di inquadramento, di accompagnamento alla scuola, all’assistenza sanitaria, all’inserimento lavorativo, alla cittadinanza degli individui e delle comunità che non hanno le risorse materiali e culturali per provvedervi in proprio è la premessa indispensabile per evitare l’accumulo continuo e incontrollato di materiali umani di scarto in siti e buchi che fungono irrimediabilmente da attrattori di un’umanità sempre più ai margini del consorzio sociale.
Costruire dal basso - visto che dall’alto non arriva niente di buono - una politica del genere costa di più, non solo in termini di risorse materiali e finanziarie, ma anche culturali e morali, del disinteresse e del cinismo che hanno prodotto i campi nomadi - una realtà che esiste solo in Italia, nonostante che tutti i paesi d’Europa siano destinatari di afflussi incontrollati di migranti - e che prima o dopo è destinata inevitabilmente a sfociare nei roghi. Ma alla fine i risultati si vedono perché in questo modo si evitano i costi economici e gli inconvenienti sociali e morali legati allo smaltimento finale - e alle "soluzioni finali". Scusate la brutalità.
Leggi speciali
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 27 maggio 2008)
Disse una volta il primo ministro inglese Margareth Thatcher: «La società non esiste». Simile l’impostazione del "pacchetto sicurezza", all’origine di quella "politica militarizzata" sulla quale ha richiamato l’attenzione Giuseppe D’Avanzo. Ma, inviato a Napoli con un ruolo a metà tra il Fassbinder di Germania in autunno (dove la madre del regista invoca un dittatore "buono e giusto") e il Tarantino di Pulp Fiction ("Il mio nome è Wolf, risolvo problemi"), il sottosegretario Bertolaso ha subito dovuto fare i conti proprio con la società, ha dovuto mettere tra parentesi gli strumenti autoritari e si è incontrato con i sindaci, i rappresentanti dei partiti e persino con i rappresentanti dei terribili centri sociali.
Non è il caso di fare previsioni sull’esito di questa partita difficilissima. Registriamo uno scacco della logica militare, ma non lasciamoci fuorviare da un episodio e consideriamo con attenzione il nuovo modello di governo della società affermato con il "pacchetto". È accaduto qualcosa di nuovo, che mette alla prova i principi della democrazia e dello Stato costituzionale di diritto, ponendo l’eterna questione del modo in cui si può legittimamente reagire ad emergenze difficili senza travolgere quei principi. La storia è piena di queste vicende, molte delle quali hanno provocato trasformazioni che, in modo duro o "soffice", hanno alterato la natura della democrazia.
Un punto è indiscutibile. È nato un diritto "speciale", fondato su una sostanziale sospensione di garanzie fondamentali. Una duplice specialità. Da una parte riguarda il territorio, poiché ormai in Campania vige un diritto diverso da quello di altre regioni. Dall’altra riguarda le persone, perché per lo straniero vige un diritto che lo discrimina e punisce in quanto tale, anche per comportamenti per i quali la sanzione penale è chiaramente impropria e sproporzionata o ingiustificatamente diversa da quella prevista per altri soggetti che commettono lo stesso reato.
Colpisce la contemporaneità di provvedimenti che sembrano collocare nella categoria dei "rifiuti" sia le cose che le persone, la spazzatura da smaltire e l’immigrato da allontanare. E tuttavia una distinzione bisogna farla, non per attenuare la gravità di quanto è avvenuto, ma per analizzare ciascuna questione nel modo più adeguato. L’emergenza rifiuti in Campania ha una evidenza tale, una tale carica di pericolosità anche per la salute, da rendere indifferibili provvedimenti urgenti. Ma l’insieme delle nuove regole fa nascere un modello che produce una "eccedenza" autoritaria inaccettabile.
In Campania, in materia di rifiuti, è stato cancellato il sistema del governo locale. Le aree individuate per la loro gestione sono dichiarate "di interesse strategico nazionale", con conseguente militarizzazione e attribuzione al sottosegretario Bertolaso della direzione di tutte le autorità pubbliche: a lui vengono subordinati "la forza pubblica, i prefetti, i questori, le forze armate e le altre autorità competenti", con una concentrazione di potere assoluto davvero senza precedenti. Un accentramento di potere si ha anche per la magistratura, con la creazione di una superprocura per i rifiuti, con la centralizzazione dell’esercizio dell’azione penale e dello svolgimento delle indagini preliminari. La stessa logica accentratrice è alla base dell’attribuzione al solo giudice amministrativo di tutte le controversie riguardanti la gestione dei rifiuti, anche per le "controversie relative a diritti costituzionalmente garantiti". Vengono creati nuovi reati, per il semplice fatto di introdursi in una delle aree "militarizzate" o per l’aver reso l’accesso "più difficoltoso": una formula, questa, di così larga interpretazione che può risolversi in inammissibili restrizioni di diritti costituzionalmente garantiti, come quello di manifestare liberamente.
L’insieme di questi provvedimenti è impressionante. Nessuno, ovviamente, può spendere una sola parola a difesa di un sistema di governo locale assolutamente inefficiente. È essenziale, tuttavia, rimuovere anche le cause ambientali, camorristiche e affaristiche, che hanno accompagnato l’inerzia e la complicità degli amministratori locali: senza queste misure, il ritorno della mala amministrazione, magari in altre forme, rischia d’essere inevitabile e le misure prese rischiano di non funzionare (come si allenterà la presa camorristica sul trasporto dei rifiuti?). Inaccettabile, però, appare la manipolazione del sistema giudiziario. Il Governo si sceglie i magistrati che devono controllare le sue iniziative. Viene aggirato l’articolo 102 della Costituzione, che vieta l’istituzione di giudici straordinari o speciali. La garanzia dei diritti costituzionalmente garantiti è degradata. La legalità costituzionale è complessivamente incrinata.
Interrogativi analoghi pone l’altro diritto "speciale", riguardante gli immigrati. A parte l’inammissibilità di alcune scelte generali, contrarie ai principi costituzionali riguardanti l’eguaglianza e la stessa dignità delle persone, siamo di fronte a norme destinate a far crescere inefficienza e arbitri, a perpetuare un sistema che genera irregolarità. Si è sottolineata l’impossibilità di applicare le nuove misure senza far saltare il sistema giudiziario e carcerario. Tardivamente ci si è resi conto che si possono provocare sconquassi sociali, e si è detto che si porrà rimedio al problema delle badanti, distinguendo caso per caso. Ma sarà davvero possibile fare accertamenti di massa, controllare centinaia di migliaia di persone? E ha senso limitarsi alle badanti o è indispensabile prendere in considerazione anche colf e altre categorie di lavoratori altrettanto indispensabili, come hanno sottolineato molte organizzazioni, Caritas in testa? Provvedimenti giustificati con la volontà di ristabilire l’ordine, si rivelano fonte di nuovo disordine e ulteriori irregolarità.
Ma contraddizioni, difficoltà di funzionamento, smagliature, non possono far sottovalutare la creazione di un modello di governo della società che ha tutti i tratti della "democrazia autoritaria": centralizzazione dei poteri, abbattimento delle garanzie, restrizione di libertà e diritti, sostegno plebiscitario. Si affrontano questioni dell’oggi, ma si parla del futuro. Si coglie la società italiana in un momento di debolezza strutturale, e si modificano le condizioni dell’agire politico. Si lancia un messaggio che rafforza i pregiudizi e diffonde la logica della mano dura: non sono un caso le aggressioni romane a immigrati e gay. Qui è la vera riforma istituzionale, qui il rischio di uno strisciante mutamento di regime.
Un virus è stato inoculato nel sistema politico e istituzionale. Esistono anticorpi che possano contrastarlo? In democrazia, questi consistono nel Parlamento, nel ruolo dell’opposizione, nel controllo di costituzionalità, nella vitalità dell’opinione pubblica. Ma una ferrea maggioranza annuncia il Parlamento come luogo di pura ratifica delle decisioni del Governo. L’opposizione sembra riservarsi quasi esclusivamente "un potere di emendamento", che la mette a rimorchio delle iniziative del Governo. Molto lavoro attende la Corte costituzionale, come accade nei tempi difficili di tutte le democrazie.
I cittadini, l’opinione pubblica? Sulle capacità di reazione di un mondo reduce da una batosta elettorale si può sospendere il giudizio. Ma i disagi profondi e le insicurezze reali vengono ormai governati con l’accorta manipolazione dei sondaggi, con una presa diretta delle pulsioni sulla decisione politica, con una logica sostanzialmente plebiscitaria che li capitalizza a fini di consenso. Si imbocca così una strada vicina a quella che ha portato alla crisi di molte democrazie nel secolo passato. Certo, tempi e contesti mutano. L’Europa ci guarda e, per molti versi, ci garantisce. E tuttavia il populismo ci insidia tutti, sfrutta ogni debolezza della democrazia e dei suoi fedeli, ci consegna a logiche autoritarie. È una tendenza ormai irreversibile, come più d’uno ormai teme? O non bisogna perdere la fede, e cogliere proprio le occasioni difficili per continuare a lavorare sulla democrazia possibile?