L’immagine più significativa che descrive chi era Contrada, traditore dello Stato, è quella dell’interrogatorio dopo il delitto Mattarella. Caponnetto e Falcone hanno appena finito di ascoltare il già colluso. Contrada si alza, stringe la mano ad entrambi ed esce. Falcone guarda Caponnetto e si pulisce la mano sui pantaloni. Boris Giuliano, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino dubitavano di lui. Sono stati tutti uccisi.
Bruno Contrada è stato ritenuto colpevole dei reati di associazione per delinquere pluriaggravata fino al 29 settembre 1982 e di associazione mafiosa da quella data in poi. Sui pentiti che lo inchiodavano il Tribunale osserva di aver svolto su ciascuno di essi "Un meticoloso vaglio di attendibilità intrinseca ed estrinseca", giungendo alla conclusione che "Tali plurime, eterogenee, gravi e concordanti emergenze processuali, consentono di ritenere raggiunta la prova certa della colpevolezza dell’imputato".
Quando Boris Giuliano venne assassinato e gli inquirenti accertarono che ai tempi, Contrada frequentava, senza scorta, un appartamento in via Guido Jung, messogli a disposizione dal Angelo Grazione, costruttore mafioso.
Tommaso Buscetta manifestò a Rosario Riccobono l’intenzione di ritornare in Brasile con la famiglia, il capomafia tentò di dissuaderlo "Stai tranquillo, io ho il dottore Contrada che mi avvisa se ci sono perquisizioni o ricerche di latitanti in questa zona. Qua puoi stare tranquillo. Giuseppe Marchese, da sempre vicino a Totò Riina e primo collaboratore di giustizia appartenente ai corleonesi "Mio zio Filippo mi tirò da parte e mi disse di andare ad avvisare, dice, u zu Totuccio e ci dici fici sapiri u dottore Contrada che hanno individuato la località dov’è che praticamente lui stava, dice che nella mattinata dovrebbero fare qualche perquisizione". Riina, nell’apprendere la notizia, non mostrò il minimo stupore e si trasferì nel nascondiglio di San Giuseppe Jato.
Gioacchino Costa, affiliato alla ’Ndrangheta, non conosceva Bruno Contrada, però durante la sua detenzione all’Asinara, divideva la cella con tre uomini d’onore, Cosimo Vernengo, Pietro Scarpisi e Vincenzo Spadaro. La sera in cui i telegiornali trasmisero le immagini dell’arresto di Contrada, Vincenzo Spadaro, sgomento, si portò le mani ai capelli, esclamando "nnu consumaru". Ce lo hanno bruciato. L’arresto di Bruno Contrada provocava un grave danno all’organizzazione mafiosa.
Il traditore, dopo l’omicidio di dell’ingegner Roberto Parisi, amico di Contrada, ucciso in un agguato di mafia il 23 febbraio 1985, andò dalla moglie e le disse nel caso in cui avesse saputo qualcosa, che era meglio che pensasse che era una mamma, consigliandole in modo non certo amichevole, di tacere qualunque cosa sapesse o sospettasse sulla morte del marito. Lei lo confidò a Giovanni Falcone. L’incontro ebbe luogo nella più assoluta riservatezza. Nonostante ciò, il giorno successivo, Contrada si presentò di nuovo a casa di Gilda Ziino, domandandole che cosa avesse detto a Falcone. Contrada che ha tradito le istituzioni italiane, ha dovuto soprassedere a determinate catture di latitanti, ha dovuto depistare o comportarsi conformemente al cambiamento politico e militare di Cosa Nostra.
Contrada è stato colluso con Stefano Bontate - e successivamente con i corleonesi. E tutto questo non emerge soltanto dalle dichiarazioni "calunniose ed estremiste" dei pentiti ma dai riscontri oggettivi presentati nella motivazione della sentenza di primo grado. le deposizioni della vedova Cassarà e del giudice Carla Del Ponte o le intercettazioni telefoniche dei colloqui tra Contrada e Nino Salvo (il mafioso che gestiva le entrate in Sicilia). Particolarmente significativa, inoltre, la testimonianza di un collega del traditore, il quale rivela che lo stesso Contrada sosteneva l’impossibilità di opporsi al potere mafioso. Contrada era stato assolto in secondo grado da un giudice, Gioacchino Agnello, già indagato per mafia nel corso di un’inchiesta poi archiviata dalla procura di Caltanissetta.
Nel corso delle 168 udienze dibattimentali l’accusa chiamò a deporre ben dieci pentiti, oltre a quelli già citati Francesco Marino Mannoia, Salvatore Cancemi, Maurizio Pirrone, Pietro Scavuzzo, Gaetano Costa e Gioacchino Pennino, tutti concordi nel riferire che il soggetto in questione informava preventivamente i criminali dei blitz pianificati dalle forze dell’ordine; che non disdegnava regalie e prebende; che era a stretto contatto con uomini delle cosche più feroci della criminalità organizzata; che era massone di una loggia supersegreta.
La figlia del boss Riccobono andava in parruccheria a vantarsi che il padre andava a braccetto con Contrada. Altro che Stato, altro che servitore. Bruno Contrada è stato e resta un traditore, un colluso con la mafia, uno che per quello che ha causato deve stare fino all’ultimo dei suoi giorni in galera. I radicali dicono che deve essere graziato. Mastella dice che la grazia è un atto dovuto viste le condizioni di salute. Nonno e zio stavano benissimo quando sono stati uccisi dagli amici di Contrada. Non hanno avuto la fortuna di invecchiare ed ammalarsi.
Riproposto su "la Voce di Fiore" il 28 luglio 2008, l’articolo è dello scrittore antimafia Benny Calasanzio, minuzioso e oggettivo, coraggioso e combattivo. Rispondano quanti, gratuitamente e senza freni, stanno riempendo i forum del sito di commenti pieni di deviazioni e inesattezze.
Caro Di Rienzo,
mi ripeto, a costo di sembrare ossessivo: uno è la vicenda dell’essere umano Contrada, anziano e malato; altro è la sua storia con la giustizia, chiusa in via definitiva con condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Lo stesso vale per tutti, a prescindere dai nomi, dalle ideologie et coetera. Se per Contrada ci sarà un’assoluzione, che non spetta a me, a lei, ai politici o ai giornalisti decidere, la sua figura verrà riabilitata. Per il momento, lo dice la Costituzione, Contrada è colpevole, e non può valere, nei suoi confronti come nei confronti di chiunque altro, la presunzione di innocenza prevista dall’ordinamento giuridico italiano. Questo non significa affatto che lo si voglia alla forca. E, per fedeltà ai princìpi costituzionali da entrambi richiamati, deve tutalarsi la persona, chiunque, nella sua insopprimibile dignità. Ugualmente, non possiamo reiterare il sillogismo per cui un ammalato è assolto in virtù della sua condizione e non di fatti che lo scagionano.
Cordiali saluti.
Emiliano Morrone