On-line un pezzo di Aldo Pecora su Bruno Contrada, il nostro giornale ha ricevuto messaggi da persone vicine all’ex poliziotto.
Ne abbiamo accolto molti e rifiutati pochi, nonostante strumentalmente strutturati: con inesattezze sulla condanna dell’ex agente segreto, divagazioni sull’omicidio di Cogne e impropri rinvii a vicende utili a generare il sospetto che certa magistratura agisca per teoremi e fini politici.
Ogni redazione è sovrana, e per questo decide se pubblicare o meno un commento, un’intervista, un testo. Democratico è accettare questo principio, altro è pretendere col baccano di sostituirlo. E’ come se qualcuno bussasse e, ospitato a modo, imponesse le sue regole a casa tua. Una storia simile si trova in Il Guardiano, di Harold Pinter.
Purtroppo, è accaduto che dei sostenitori di Contrada, peraltro ideatori d’una petizione in suo favore, si siano comportati esattamente così. A riprova, invitiamo a visitare le pagine corrispondenti ai seguenti link:
Non commentiamo il contenuto delle predette pagine, sapendo di avere lettori critici, autonomi e capaci di leggere oltre le righe. Evitiamo anche per non entrare in scontri, voluti da questi amici di Contrada, che farebbero perdere di vista la realtà:
la Corte di Cassazione ha riconosciuto l’imputato colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa.
Possiamo sicuramente affermare, assumendoci ogni responsabilità, che, nei loro tentativi di screditarci, oltre a menzogne incontrollate (Mauro Caiano dice che io mi sono definito regista e giornalista) e omissioni volute (Caiano dice che ho sostenuto che Marina Salvadore non è iscritta all’Ordine dei Giornalisti, in realtà, l’ho legittimamente dubitato perché il suo nome non è nell’Annuario dei Giornalisti 2008), ci sono palesi mistificazioni e sottili insinuazioni, perfino collegate ai nostri tratti somatici.
Oggi, cassate le teorie di Lombroso, ci pare ridicolo, prima che assurdo, che qualcuno si discrimini per il soma. Al mittente restituiamo con simpatia la provocazione, non credendo che di fatto ne sia convinto e non ritenendolo, sin qui, animale da soma.
Ovvio è che non tutta la corrispondenza debba o possa finire in pagina.
Ci sono diverse ragioni per cui un post può escludersi da un forum aperto. Non esiste un solo motivo per ritenere, appellandosi a una generica democrazia, come hanno fatto i ricordati amici di Contrada, che la pubblicazione di un messaggio debba comunque avvenire, a prescindere da valutazioni di merito.
Peraltro, gli stessi si sono ben guardati dal riportare sui loro innumerevoli blog punti essenziali del "carteggio elettronico" con "la Voce di Fiore", presenti invece sul nostro sito. Hanno scelto ciò che più era comodo a dimostrare loro tesi sul nostro conto, neppure articolate o riconoscibili come tali.
Noi, anche se contenenti affermazioni offensive verso Salvatore Borsellino, Marco Travaglio e altri, sicuramente non condannati per concorso esterno in associazione mafiosa, abbiamo inserito e mantenuto loro scritti pretestuosi. Scripta manent.
Di contro, rispetto alla nostra richiesta di elementi concreti a conferma di alcune asserzioni, questi amici di Contrada hanno fatto gli gnorri. Hanno taciuto e, per esempio, non hanno inviato repliche a proposito della ricostruzione di Benny Calasanzio relativa al caso di Bruno Contrada.
Contrada ha il diritto di difendersi e i suoi amici hanno il diritto di sostenerlo. Certo, non hanno il diritto di violare le regole del nostro forum, non hanno il diritto di denigrare e non gli è concesso di confondere le acque, spostando la discussione dai fatti al personale, alle ripicche, al gossip.
Una strategia per annullare la stessa credibilità di Internet è bombardare l’utente con un’infinità di parole, creare una tempesta nel suo cervello e impedirgli di arrivare al nocciolo dell’informazione.
Tale strategia serve a creare opinione, a generare convinzioni false e sottrarre i fatti nudi e crudi dal campo visivo.
Bisogna essere allenati, per difendersi, e separare le opinioni dalle certezze acquisite.
Deve essere rimasto molto contento il regista Mauro Caiano, dopo la pubblicazione sul suo blog d’una foto che ritrae Aldo Pecora, Salvatore Borsellino e il sottoscritto. Che non documenta un incontro di massoni deviati né una riunione fra boss di mafia, ’ndrangheta e camorra. Se gli suscita ilarità il mio aspetto e un bicchiere di vino in primo piano, lo invito, la prossima volta, a un’iniziativa antimafia. Così, almeno sente direttamente, in presenza di giudici dello Stato, racconti interessanti sui misteri di Palermo e l’assassinio del giudice Paolo Borsellino. Magari si riderà assieme.
Riguardo a Bruno Contrada, è un cittadino ritenuto dalla giustizia responsabile d’un reato gravissimo. A regola, con tutta l’umana comprensione per le sue condizioni di salute, egli ha tradito lo Stato, e per noi, la sua posizione è più pesante, sul piano etico, di quella di Riina, Provenzano, Condello e altri big di pari calibro.
Se lo Stato ne stabilirà l’innocenza, che per ora è giuridicamente esclusa, il discorso potrà essere diverso. Ma, al momento, a Contrada possiamo solo riservare quel perdono di cui scrive Paul Ricoeur nel suo La memoria, la storia, l’oblio, e che Luca Possati spiega con queste parole:
"Il perdono è una forma di oblio attivo indirizzato alla colpa e il cui oggetto non è il passato come tale ma il suo senso. È un dono di riconciliazione che si offre, ma che lascia sempre il debitore o l’assassino insolvente. Per quanto l’agente valga sempre di più dei suoi atti, per quanto questi ultimi siano separabili da lui, per quanto egli possa fare dichiarazioni del suo pentimento e del suo rammarico, tali atti continuano comunque a seguirlo e a condannarlo."
Per il resto, credo che gli amici di Bruno Contrada gli abbiano fatto un pessimo servizio e ne abbiano peggiorato la situazione.
La giornalista Marina Salvadore, nel gruppo, ha perso tempo ad elogiare l’avvocato Giuseppe Lipera, definendolo il migliore della piazza. Quale l’utilità, poi? Mi ha detto che non posso vantare le sue frequentazioni giornalistiche. Quindi, ha scritto che, quando ero bambino, lei intervistava tre Nobel.
La strategia di questi amici di Contrada si caratterizza, per chiudere, per un altro aspetto. Nei loro blog, ci hanno accusato di rispondere a un credo politico e di ricevere consigli da Marco Travaglio, sistematicamente insultato. Non ci è sfuggito che gli stessi hanno scritto nei loro post a "la Voce di Fiore" che l’avvocato Lipera, difensore di Bruno Contrada, ha querelato Travaglio. Dunque, Travaglio li manda in bestia. Come Salvatore Borsellino e i suoi.
Non sapendo che cosa dire, questi amici di Contrada ci dipingono come sinistrorsi, forse perché ciò fa moda e presa su chi non approfondisce, su chi non si basa sui fatti. L’antimafia non ha colore.
Quando non si hanno argomenti di confronto, la si butta in politica, inventandosi appartenenze dell’avversario che dovrebbero dimostrarne la non attendibilità. Esattamente ciò che hanno fatto questi amici di Contrada.
D’altra parte, questi amici di Contrada hanno insistito nell’assegnare una causa politica alla sua condanna. Contro di lui, invece, ci sono elementi solidissimi che ne provano la colpevolezza. Quindi, se un giorno fosse scagionato, dovremmo ascriverlo, esprimendoci con la loro stessa malafede, a un fatto puramente politico.
Abbiamo quindi letto il loro ennesimo aggiornamento (del 30 luglio 2008, qui il link), nel quale, non rispondendo all’articolo di Benny Calasanzio sui loro giochi ("Contrattacco e disinformatja"), ci hanno ancora imputato di falso, senza argomentare.
In vero, pubblicandolo per intero, lo hanno prelevato dal sito di "la Voce di Fiore", appuntandosi sulla data, e da questa teorizzando l’inverosimile; non rendendosi conto che da sempre, su "la Voce di Fiore", gli articoli hanno la data in avanti ma in fondo al testo riportano quella di stesura. Ancora un loro gioco, un pretesto per non rispondere sui fatti. Potevano almeno, per correttezza, inserire il link della fonte.
Avremmo tanto voluto, invece, un dibattito, un confronto sui fatti. Lo abbiamo raccomandato e chiesto continuamente. Ma, il silenzio, in proposito, e l’invio a raffica di messaggi fuori tema, alcuni anche dopo le 2 di notte, ci hanno portato a concludere che questi sostenitori di Contrada sono spaventati terribilmente dalla rete antimafia di Salvatore Borsellino, cui apparteniamo, e che in vero cercano solo rumore e pubblicità.
Il che non è qualificante e fa pensare che non abbiano alcun argomento valido.
30 luglio 2008
P.S.: Ho inserito una foto con Marco Travaglio. Ora i noti amici di Contrada ci lavoreranno sopra, visto che da immagini ed elementi d’ogni genere, meno che quelli processuali o quelli che riguardano fatti specifici, traggono le loro, solo loro, somme verità, confondendo le idee a chi legge.
E’ probabile. Vedremo.
Alle ore 6,28 del 31 luglio 2008, Agnese Pozzi ci ha inviato questo messaggio, che abbiamo pubblicato, nonostante il suo incipit, imperativo e offensivo.
Sul piano dell’informazione, si tratta di un’intervista a Bruno Contrada, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dalla Corte di Cassazione. La sentenza in capo a Bruno Contrada è definitiva. Alcune repliche alle dichiarazioni del condannato.
"Le dichiarazioni negative provengono da persone che non hanno alcuna conoscenza dei fatti che hanno portato alla mia vicenda giudiziaria, che ormai data a 16 anni fa".
Sta parlando il condannato Contrada, è la sua campana, non è presente, per replicare, qualcuno della famiglia Borsellino. I fatti che hanno portato alla vicenda giudiziaria di Bruno Contrada sono perfettamente noti alla famiglia Borsellino.
"I familiari di Borsellino replicano sostenendo che con il giudice non eravate amici, né lei era un suo collaboratore. Non avevamo rapporti privati d’amicizia, ma ottimi rapporti professionali quando lui era giudice istruttore a Palermo e io capo della Criminalpol. Quando il 7 febbraio 1981 gli arriva sul tavolo il mio rapporto sull’omicidio Giuliano, dispone subito 15 o 20 mandati di cattura dei 35 mafiosi che io denunciavo nell’atto e che costituivano lo zoccolo duro dei corleonesi. Tra questi ben sei appartenenti alla famiglia Marchese, ovvero padre, zii e cugini di quel Giuseppe Marchese che poi fu uno dei primi pentiti ad accusarmi. Nel mandato di cattura sempre Borsellino indica come accusa anche le minacce di morte nei miei confronti. Come al processo, anche oggi il suo caso divide."
Rinvio, in replica, ai seguenti e interessantissimi link:
Per concludere, Agnese Pozzi è stata invitata ieri, per e-mail, a rettificare sue affermazioni su una, dal suo punto di vista, mia diffamazione a carico di Marina Salvadore. Si è peritata, di buon mattino, di inviare a "la Voce di Fiore" l’intervista a Contrada su Panorama, che abbiamo pubblicato, e non ha provveduto a rimediare, come la legge impone, rispetto alla sua proposizione "(Morrone, nota mia) Ha inoltre pubblicamente diffamato la Dr.ssa Marina Salvadore accusandola di non essere giornalista..." (http://agnesepozziarticoletti.splinder.com/post/17951536/Morrone+&+Co).
Peraltro, non ha dato seguito alla mia richiesta di replica, nella stessa e-mail, in cui l’ho invitata a riportare mie precisazioni sulla sua ricostruzione circa la vicenda dei suoi post indirizzati a "la Voce di Fiore".
Agnese Pozzi ci aveva scritto: "So anche che parecchi famigliari e amici di eroi e galantuomini, compresi Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino ed altri, piangendo sui loro cari morti, ne hanno anche cavalcato l’onda; assurgendo a posizioni privilegiate e diventando chi parlamentare, chi giornalista, chi trascinatore di masse, chi pseudo-filosofo, chi immeritato erede morale".
Questo, ovviamente, non lo ha messo sul suo blog, e risulta pubblicato, per quanto evidentemente offensivo, all’indirizzo http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3408 (suo commento del 28 luglio 2008). Alla mia domanda di completare l’affermazione con dei nomi, la Pozzi ha cambiato discorso, nel suo successivo post, che non abbiamo pubblicato perché altro rispetto a quanto richiesto, cioè pubblicità alla sua corrente. Oltretutto, dall’inizio la Pozzi ha inviato dei post con link al suo blog, cosa che le è stato permesso di fare, benché non corretta anche alla luce del suo comportamento su questo forum.
Ancora, Agnese Pozzi ha violato regole e raccomandazioni di questo forum, esordendo, nel presente messaggio, con: "Siate uomini... E pubblicate questa".
Invito Agnese Pozzi alle rettifiche e repliche di cui nella mia e-mail di ieri e la invito al rispetto delle regole di questo forum.
Soprattutto, la invito a produrre fatti e non a inviarci interviste a Bruno Contrada, condannato in via definitiva.
Emiliano Morrone
SIATE UOMINI... E PUBBLICATE QUESTA...
Teoricamente, stando alle raccomandazioni di pubblicazione...questo documento riporta fatti specifici ed è un’intervista di Bruno Contrada a Panorama. Che fate...censurate anche questa in nome della democrazia, della chiarezza, della corretta informazione e della deontologia che dovrebbe vincolarvi? Eccola. La pubblicazione vi restituisce credibilità
pubblicata su Panorama ed a firma di Gianluigi Nuzzi: “Accetterei la grazia dal presidente della Repubblica solo se non fosse chiesta dai miei familiari. La grazia è un atto politico, che leggo come riparatorio dello Stato dopo quanto accaduto”. Del supersbirro Bruno Contrada, 77 anni, non rimane nemmeno il fantasma. Meno 11 chili in poche settimane. Un fantoccio che si trascina ricurvo sui suoi segreti nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Un corpo prima consumato dalle accuse di 14 pentiti, poi asciugato dalle degenerazioni del diabete e dell’ischemia. Ancora, prostrato dagli scontri sferzanti degli ultimi giorni con i parenti di chi lottando contro la mafia è finito ammazzato. Parenti dai cognomi di peso, Caponnetto, Borsellino, che dopo la condanna a 10 anni della Cassazione ritagliano su Contrada la divisa infame del poliziotto svenduto a Cosa nostra. Né pena né clemenza, né grazia né indulgenza. È il partito trasversale del dolore. Di chi ha perso il proprio caro in quella guerriglia confusa degli anni Novanta tra Stato e Cosa nostra, sì, ma non solo. Totò Riina e Bernardo Provenzano protetti da pezzi delle istituzioni, scontri intestini che erodono l’antimafia, la gestione dei pentiti diviene opaca. Difficile collocare quindi Contrada con certezza. Fino a metà degli anni Settanta era un brillante poliziotto, 60 encomi ricevuti dalla Polizia e 95 dal Sisde, un centinaio gli uomini delle istituzioni che l’hanno poi difeso al processo. Poi sarebbe passato con la mafia. Senza movente accertato: sui suoi conti non è mai stato trovato denaro sospetto. Dopo i pentiti e i giudici di Palermo, ora l’accusano anche i parenti delle vittime di mafia. Tutti contro la sola ipotesi di grazia. Le dichiarazioni negative provengono da persone che non hanno alcuna conoscenza dei fatti che hanno portato alla mia vicenda giudiziaria, che ormai data a 16 anni fa. Parlo di Rita Borsellino, a maggior ragione della vedova del consigliere Antonino Caponnetto, che forse nemmeno sapeva chi era Contrada. Bisognerebbe che altri parlassero. Cioè? Non capisco perché i Borsellino ce l’abbiano con me. Chiedano ai familiari di Rocco Chinnici, mio amico, e del collega Boris Giuliano, ucciso nel 1979 dalla mafia. Lui per me non era un amico, ma un fratello. Per 16 anni abbiamo lavorato giorno e notte insieme, a gomito a gomito. Ed è proprio a Borsellino che presentai il mio rapporto indicando i nomi degli assassini. Forse questo i parenti di Borsellino non lo sanno. Paolo Borsellino lo lesse e lo fece proprio apprezzando tra l’altro il fatto che io non essendo più alla polizia giudiziaria non ero tenuto a redigerlo. I familiari di Borsellino replicano sostenendo che con il giudice non eravate amici, né lei era un suo collaboratore. Non avevamo rapporti privati d’amicizia, ma ottimi rapporti professionali quando lui era giudice istruttore a Palermo e io capo della Criminalpol. Quando il 7 febbraio 1981 gli arriva sul tavolo il mio rapporto sull’omicidio Giuliano, dispone subito 15 o 20 mandati di cattura dei 35 mafiosi che io denunciavo nell’atto e che costituivano lo zoccolo duro dei corleonesi. Tra questi ben sei appartenenti alla famiglia Marchese, ovvero padre, zii e cugini di quel Giuseppe Marchese che poi fu uno dei primi pentiti ad accusarmi. Nel mandato di cattura sempre Borsellino indica come accusa anche le minacce di morte nei miei confronti. Come al processo, anche oggi il suo caso divide. Tra i familiari, in diversi l’hanno difesa, come Michele Costa, figlio del procuratore della Repubblica ucciso a Palermo nel 1980. Mi sostiene perché sa che l’unico rapporto giudiziario sull’omicidio del padre lo svolsi io per il procuratore capo di Catania. Anche sua madre, Rita Bartoli Costa, icona dell’antimafia in Sicilia, durante il dibattimento attraversò l’aula e venne a stringermi la mano senza guardare in faccia i pm. Si è anche detto che non bisogna concedere la grazia a un condannato per mafia. C’è un principio che stabilisce che i cittadini sono tutti uguali di fronte allo Stato, non vedo perché non si possa concedere la grazia a chi è stato condannato per mafia. Io la accetterei, sempre se non fosse presentata dai miei parenti, perché avrebbe comunque un significato diverso dalla concessione di un beneficio. L’accetterei come esito di una valutazione di dovuto atto riparatorio a fronte di una grave ingiustizia subita. Io voglio una riparazione da parte dello Stato perché non ho commesso nemmeno gli estremi integranti la violazione del Codice della strada. Insomma, innocente su tutta la linea. Io non mi considero innocente perché lego sempre questa parola ai bambini o gli do un significato religioso. Io sono “non colpevole” oppure estraneo ai fatti che mi sono addebitati. Innocente è mio nipote e omonimo Bruno Contrada. Ha 2 anni: dal nonno in eredità riceverà un cognome ripulito dalle accuse più assurde. Eppure, un esercito di pentiti l’accusa di aver passato notizie essenziali ai mafiosi. Per anni. Li avvisava di blitz, perquisizioni e indagini, facendo sfuggire latitanti come Totò Riina. Le accuse dei pentiti sono come palle di neve. Nascono piccole e a valle diventano valanghe, intere montagne. Così un pentito tira l’altro per la cosiddetta convergenza del molteplice, dove la stessa balla se è detta da due pentiti diventa verità. Quando entri in questo meccanismo sei finito. Il primo ad accusarmi è Gaspare Mutolo. Apparteneva alla cosca Partanna Mondello di Rosario Riccobono, che ho perseguito più di ogni altro gruppo. Tommaso Buscetta sosteneva che era lei a passare le soffiate al boss Riccobono... Fra tutti i mafiosi che io ho trattato questa è la cosca che ho combattuto con maggior tenacia. Ho considerato sempre i mafiosi degli avversari, non dei nemici. Ma con la cosca di Riccobono era diverso. Avevano ammazzato un mio giovane collega napoletano, ucciso come un cane durante un servizio antiestorsioni. Era guerra. Ho portato in Corte d’assise Riccobono e Gaspare Mutolo con indagini svolte personalmente. Per poi vederli assolti dall’accusa di associazione mafiosa il 23 aprile 1977 per decisione di un giudice che ritroverò poi a condannarmi sostenendo che ero amico di Riccobono. La verità è un’altra: Contrada era il nemico giurato di Riccobono. Mutolo mi odiava, convinto che avessi dato ordine ai miei uomini di sparargli a vista come poi in effetti, per motivi di servizio, accadde in ben tre occasioni. Odio, nient’altro, ha prodotto il caso Contrada, con gente che si è persino uccisa. Cioè? Oltre me Mutolo ha accusato il pm Domenico Signorino, che condusse le indagini su di lui e che poi si è suicidato. Poi, proprio perché era necessaria la convergenza del molteplice, spunta Pino Marchese. Per capire chi è Marchese basti sapere che ha ammazzato un compagno di cella all’Ucciardone, a colpi di bistecchiera in testa. Marchese è quello che parla della mia presunta soffiata a Riina. Ma cambia versione: prima dice che Riina aveva lasciato il suo nascondiglio, la villa di Borgo Molara, perché temeva agguati nella guerra di mafia, poi cambia versione e dice che fui io ad avvisare. Secondo lei perché cambia versione? C’era un suggeritore. E chi era? Marchese era gestito dalla Dia. È un’accusa grave, Contrada. La mia storia è tutta così. Prendete un altro pentito, Francesco Marino Mannoia. Nell’aprile del 1993 parte lo staff della Dda di Palermo, Gian Carlo Caselli e altri pm, alla volta di New York per interrogare Mannoia sull’omicidio di Salvo Lima. Gli chiedono se ha qualcosa da dire su “Contrada, capo della polizia giudiziaria di Palermo”. Mannoia risponde che sa soltanto che Contrada era un funzionario di polizia e che non ha altro da aggiungere. Poco dopo Mannoia venne interrogato anche sulle stragi. Sì, da Giovanni Tinebra e i suoi pm che raggiungono gli Usa per sentire l’oracolo di Delfi. Poi gli chiedono di Contrada ma Mannoia dice che non gli risulta che avessi rapporti con loro. Bisogna aspettare il gennaio 1994 quando, poco prima del decreto di rinvio a giudizio, Mannoia decide di confermare le accuse degli altri pentiti, in concomitanza con il pagamento dello stipendio. Ma se si è pentito nel 1988, come mai mi accusa solo nel 1994? E quando gli vengono rivolte domande specifiche sul mio conto, perché tace? Come poteva dimenticarsi che il capo della polizia giudiziaria, non proprio l’ultimo poliziotto di Palermo, è colluso con Cosa nostra? Sa come spiegò la cosa in aula? “Non parlai a Caselli perché ero stanco e li mandai a fare in c...”. Questi sono i pentiti. Spesso portatori di menzogne. Spesso manovrati. Lei accusa la Dia perché furono proprio gli uomini di Gianni De Gennaro a raccogliere le prove contro di lei? No, dico solo che la Dia era agli inizi della sua formazione andando a sovrapporsi con il Sisde dove lavoravo .