Riportiamo, di seguito, la lettera della rete antimafia cui apparteniamo al giornale La Repubblica, in favore di Saviano e di chi, come lui, combatte le mafie. Abbiamo ritenuto doveroso sostenere il nostro amico, che rischia giorno per giorno per quanto ha scritto in Gomorra e ribadisce ogni volta con estremo coraggio.
A Roberto, abbiamo chiesto un impegno diretto a favore dei tanti che sono in pericolo perché denunciano crimini e loro autori. Siamo certi che farà sentire la sua Voce, affinché vengano protetti i testimoni di giustizia e gli scrittori isolati; affinché vengano aiutati i familiari delle vittime di mafia; affinché lo Stato vada sino in fondo nelle indagini sui capitoli bui della storia italiana; affinché la giustizia premi gli onesti e punisca ogni genere di mafiosi.
Emiliano Morrone
Francesco Saverio Alessio
Caro Direttore,
su Repubblica, Roberto Saviano ha ringraziato tutti per la vicinanza, l’intervento, il cuore. S’è rivolto alle istituzioni, alle forze dell’ordine, alla politica, alla società civile. Giustamente senza distinzioni. Gomorra è diventato "voce e carne".
Nella lotta al crimine organizzato, non s’ammettono, di regola, antipatie, deviazioni, fratture. Non dovrebbero esserci, sarebbero utili alle mafie; che non hanno solo, purtroppo, mani barbare e macellerie. Lo dimostrano stragi, fatti, condanne e silenzi rumorosi. In Italia. Saviano ha dato quindi un esempio straordinario, ha tracciato una strada. Ha invitato a restare uniti e andare avanti con coraggio. La sua storia ha insegnato che la parola può scuotere, coinvolgere, aggregare, costruire. Ha insegnato che il problema delle "onorate" non è solo meridionale. Ha mosso Nobel, chiese, coscienze.
Il suo fondo sul giornale di mercoledì scorso è stato emblematico per il Paese, che non l’ha abbandonato. Dai vertici alla base.
Forse per la prima volta, come per magia, la vita d’un uomo in pericolo per aver scritto di crimine e parlato di speranza ha fatto davvero gli italiani. Divisi, attaccati al campanile, orgogliosi e pronti quando giocano gli azzurri del pallone. Forse per la prima volta c’è ora, nella Penisola, un simbolo e un obiettivo condiviso, che rafforza il senso del sacrificio e dell’eredità di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Antonino Scopelliti, don Peppe Diana.
Possiamo dunque pensare, e credere, che il valore dell’opera e della stessa vita di Saviano serva da qui in avanti a ragionare e agire in termini nuovi, valga a inquadrare e attuare i princìpi cardine della Costituzione: libertà, lavoro, eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, giustizia giusta, autonomia dei poteri dello Stato, diritto alla salute e all’istruzione. Non c’è repubblica che possa reggere senza la tutela di chi giorno per giorno fa lo Stato, col lavoro, le idee, l’impegno civile e sociale. Non c’è futuro, con disparità nel penale, legalizzate, ingerenze nell’organizzazione e amministrazione pubblica, restrizioni nella sanità, nella formazione, nella ricerca.
Ringraziamo Saviano per averci chiamato a raccolta davanti a un progetto di civiltà e democrazia che appartiene a tutti gli italiani e che implica, in primo luogo, vigilanza, partecipazione e fiducia collettiva. Pertanto, le istituzioni debbono essere coerenti rispetto alle loro intenzioni, indotte dalla vicenda dello scrittore. Occorre, quindi, che proteggano i testimoni di giustizia, i quali hanno scelto di stare dalla parte dello Stato, additando, come Saviano, autori e capi del crimine organizzato. Così, altri ne verranno senza timore. Bisogna che lo Stato vada sino in fondo perché emerga la verità, riguardo alle tragedie nazionali. Ed è fondamentale che le rappresentanze siano espressione della volontà vera dei cittadini, perché ciò è decisivo per battere le mafie. Così come va aiutato, non soltanto moralmente, chi rischia denunciando o ha perso familiari che hanno informato di piani e consorterie mafiosi. La società civile saprà dare il suo apporto, come è stato per Saviano, che invitiamo a sostenere queste priorità.
Salvatore Borsellino, fratello di Paolo Borsellino
Sonia Alfano, presidente Associazione nazionale dei familiari delle vittime della mafia
Francesco Saverio Alessio, scrittore
Biagio Simonetta, scrittore
Benny Calasanzio, scrittore
Pino Masciari, testimone di giustizia
Andrea Crobu, "Legalità e Giustizia"
Matteo Trebeschi, "Legalità e Giustizia"
Emiliano Morrone, scrittore
Il comunicato dell’associazione VersoSud, del giornalista e scrittore Orfeo Notaristefano
“Venire a sapere da un collaboratore di giustizia che il clan dei Casalesi aveva in mente di eliminare Roberto Saviano prima di Natale è la conferma che la camorra, come anche la ‘ndrangheta e la mafia siciliana, non dimentica. La storia delle mafie e dell’antimafia è costellata di episodi di vendette a orologeria: prima o poi le mafie colpiscono chi ha procurato loro dei danni. E Saviano ha procurato ai Casalesi l’enorme danno di aver portato in emersione la rete dei colossali interessi economici di quel clan. Per analoghi motivi le mafie hanno colpito in Sicilia e in Calabria. Proprio per questo a Saviano occorre esprimere una solidarietà non solo formale, che non servirebbe a nulla, ma una solidarietà che implichi il rinnovato impegno del vasto fronte dell’antimafia con azioni concrete nei territori controllati dalla criminalità organizzata”.
Questa la posizione dell’Associazione antimafia “VERSO SUD” espressa dal portavoce Orfeo Notaristefano, che così prosegue: “L’impegno delle associazioni e del volontariato proprio a Casal di Principe e nel Casertano è la risposta alle minacce della camorra, perché la presenza dello Stato è importante, ma non basta se non c’è la rivolta delle coscienze, una forte opzione per la legalità. Le Forze dell’Ordine dimostrano periodicamente che lo Stato può essere più forte delle mafie, anche a Castevolturno e a Casal di Principe.
Adesso tocca alla politica dare un segnale analogo, che è a portata di mano: ci riferiamo alla priorità di questo momento, che è la rapida costituzione della Commissione Parlamentare Antimafia. La legge istitutiva c’è da prima dell’estate, ma occorre che i gruppi politici presenti in Parlamento facciano presto a indicare i nomi che comporranno la Commissione. L’immediata costituzione della Commissione consentirebbe di riprendere il lavoro interrotto a causa della chiusura anticipata della precedente legislatura.
In particolare ci sono due temi da affrontare e risolvere: la riforma della legge sulla confisca dei beni alle mafie e la normativa sui testimoni di giustizia. Sono due punti cardine della lotta alle mafie: il primo perché occorre affinare gli strumenti per colpire le mafie nei loro patrimoni e nelle loro risorse finanziarie; il secondo perché occorre fornire garanzie serie ai testimoni di giustizia, che sono cittadini perbene che si sono esposti per denunciare mafiosi, ‘ndranghetisti e camorristi, nonché boss del racket delle estorsioni. Testimoni di giustizia che, negli anni, spesso sono stati lasciati soli, senza adeguate protezioni da parte dello Stato e questa è una cosa tremenda, perché scoraggia chi vuole denunciare per l’affermazione della legalità e della giustizia.
Non c’è tempo da perdere: la rapidità nella costituzione della Commissione Parlamentare Antimafia è il segnale atteso da associazioni e cittadini onesti, che non possono ancora una volta essere delusi”.
Un incontro con Rushdie. Raccolte 250 mila firme
Roberto Saviano invitato
dagli Accademici del Nobel
di PAOLA COPPOLA *
ROMA - Roberto Saviano è stato invitato a tenere un discorso all’Accademia di Svezia. Una lezione sulla "libertà di espressione e la violenza senza legge". Non è ancora fissata una data per l’incontro che, nelle intenzioni dell’istituzione, che ogni anno sceglie i Nobel per la letteratura, dovrebbe essere un dialogo tra l’autore di Gomorra e Salman Rushdie, lo scrittore colpito da una fatwa dopo la pubblicazione de I versetti satanici. L’invito a Stoccolma è arrivato dopo che l’appello dei sei Nobel in favore di Saviano su Repubblica ha acceso un dibattito tra i membri dell’Accademia, divisi sull’opportunità che l’istituzione appoggi pubblicamente lo scrittore minacciato dalla camorra.
Nei confronti di Saviano continuano ad arrivare manifestazioni di solidarietà: sul sito di Repubblica è stato raggiunto il traguardo delle 250mila firme grazie alle adesioni raccolte sui blog e i siti collegati. Una risposta eccezionale all’appello lanciato da Dario Fo, dallo scrittore tedesco Günter Grass e dal turco Orhan Pamuk, da Michail Gorbaciov, dall’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu e da Rita Levi Montalcini, a cui si sono aggiunti gli altri Nobel, José Saramago, Elfriede Jelinek, Betty Williams, Wislawa Szymborska, Lech Walesa, Shirin Ebadi, Pérez Esquivel, Renato Dulbecco, Medici senza frontiere e Elie Wiesel. Scrittori e registi italiani e stranieri e tanti personaggi illustri, moltissimi cittadini, scuole e associazioni hanno firmato per ribadire, insieme che "la libertà nella sicurezza di Saviano riguarda tutti noi, come cittadini" e che "lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo e per sconfiggere la camorra", come dice il testo dell’appello che oggi si può firmare alla manifestazione del Pd.
Solidarietà all’autore di Gomorra è stata espressa anche in una lettera firmata, tra gli altri, da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, e Sonia Alfano, presidente dell’Associazione nazionale dei familiari delle vittime della mafia, dove si legge: "Ringraziamo Saviano per averci chiamato a raccolta davanti a un progetto di civiltà e democrazia che appartiene a tutti gli italiani e che implica, in primo luogo, vigilanza, partecipazione e fiducia collettiva".
L’appello in difesa di Saviano è stato anche rilanciato dal "Writers in prison committee" dell’International Pen che ha chiesto attraverso il Ran (rapid action network) ai suoi membri in 104 paesi del mondo di firmare contro le minacce di morte allo scrittore.
* la Repubblica, 25 ottobre 2008
Raffaele Cantone, napoletano, diventa magistrato per amore del diritto
Assegnato alla Direzione distrettuale antimafia, combatte contro la camorra casalese
Giustizia, la società con lo Stato
L’uomo della legge nella terra dei boss
Vive da anni sotto scorta. Adesso racconta in un libro la sua vita in prima linea
di ROBERTO SAVIANO *
QUALCHE volta, quando non ne posso più della mia vita blindata, sento Raffaele Cantone perché vive costantemente sotto scorta non da due anni, ma da molti di più. Cantone ha scritto un libro che racconta il suo periodo alla Dda di Napoli, intitolato Solo per giustizia. Diviene magistrato quasi per caso, dopo aver cominciato a fare pratica come avvocato penalista. Diviene magistrato per amore del diritto. Ed è proprio quel percorso che lo porta a divenire un nemico giurato dei clan. Non lo muove nessuna idea di redimere il mondo, nessuna vocazione missionaria a voler estirpare il cancro della criminalità organizzata. Lo guidano invece la conoscenza del diritto, la volontà di far bene il proprio lavoro, e anche il desiderio di capire un fenomeno vicino al quale era cresciuto. A Giugliano. Un territorio attraversato da guerre di camorra che ricorda sin da quando era ragazzo.
"C’erano periodi in cui i morti si contavano anche quotidianamente, spesso ammazzati in pieno giorno e in presenza di passanti terrorizzati. Le nostre famiglie avevano paura. Per timore che potessimo andarci di mezzo anche noi, ci raccomandavano di non andare in giro per il paese, di uscire solo quando era necessario. Quindi gran parte del tempo libero la si trascorreva a casa di qualcuno dei ragazzi della comitiva. Ma quando si spargeva la voce di un omicidio, anche noi "bravi ragazzi" spesso non resistevamo alla tentazione di andare nei paraggi per sentire chi era la vittima, a che gruppo apparteneva e soprattutto se era qualcuno che conoscevamo. Perché capita così, nella provincia: anche se si appartiene a mondi diversi, finisce che ci si conosce almeno di vista o di fama. E fu proprio un ragazzo conosciuto solo di vista una delle vittime innocenti di quella faida che sembrava eterna. Era un po’ più grande di me e i sicari lo avevano scambiato per un affiliato della parte avversa, perché gli somigliava vagamente e soprattutto perché aveva un’auto di colore molto simile. Solo dopo avergli sparato si erano accorti dell’errore e si erano fermati. Ma alcuni colpi avevano raggiunto la colonna vertebrale e paralizzandolo in tutta la parte inferiore, avevano reso il giovane invalido per il resto della vita. Ancora oggi mi capita talvolta di incontrarlo, spinto sulla sua sedia a rotelle dalla moglie che all’epoca era la sua giovanissima fidanzata".
Un uomo che si forma in una situazione del genere comprende che il diritto diviene uno strumento fondamentale per concedere dignità di vita. Una dignità basilare, quella di vivere, di lavorare, di amare. Dove la regola non soffoca l’uomo ma anzi è l’unico strumento per concedergli libertà. Poco prima era stata uccisa una ragazza di poco più di diciotto anni, figlia di un collega di suo padre. L’unica sua colpa era stata quella di essere uscita di casa nel momento sbagliato. Morì al posto di un delinquente in soggiorno obbligato che più tardi sarebbe diventato uno dei capi del clan dei Casalesi, uno dei più feroci: Francesco Bidognetti, detto "Cicciott’ ’e mezzanotte".
Quel caso non ha mai avuto soluzione giudiziaria. E lentamente il ricordo si è sbiadito. I genitori sono morti entrambi di crepacuore. Anche il penultimo omicidio dei Casalesi è avvenuto proprio a Giugliano, non lontano da dove Cantone è tornato ad abitare con la sua famiglia. Quando si sono trasferiti nella casa nuova, i vicini e i negozianti hanno organizzato una raccolta di firme per mandarli via. Qualcuno ha persino lasciato una valigia al posto dove sosta la pattuglia di vigilanza: era vuota, ma doveva simulare un ordigno.
Il libro è la storia di questa quotidianità, la quotidianità di un magistrato in terra di camorra e delle ripercussioni pesantissime che questo pone anche sulla vita dei suoi famigliari. Come quando un maresciallo che in quel periodo faceva il capo scorta vuole portarlo a vedere la partita del Napoli. Cantone, sempre attentissimo a non accettare favori, continua a rimandare sino a quando l’invito viene espresso quando c’è pure suo figlio di cinque anni che è già tifosissimo. ""Papà, mi ci porti? Andiamo a vedere la partita? Ti prego!". E allora accettai, a condizione che non piovesse". La domenica il maresciallo si presenta con una persona sconosciuta che a sua volta ha portato il figlio. "Questa sorpresa mi seccò a tal punto che fui tentato di dire che avevo cambiato idea. Ma come facevo con Enrico? Non avrebbe più smesso di piangere per la delusione".
Il giorno dopo, in Procura, chiamano Cantone chiedendogli con imbarazzo se è stato allo stadio e con chi. Perché l’amico del maresciallo è stato intercettato nell’ambito di un’inchiesta sugli affari dei Casalesi mentre assicurava uno degli indagati che a questo punto il pm sarebbe stato "avvicinabile". Non ne consegue nessun danno all’indagine, ma Cantone è furioso e sconvolto. L’unica volta che per amore di suo figlio si è sforzato di abbandonare la diffidenza che il mestiere gli ha fatto divenire seconda natura, scopre che la passione innocente di un bambino è stata strumentalizzata e abusata.
La diffidenza ha dovuto impararla presto, anni prima di entrare in antimafia. È una lezione che si iscrive nella sua carne e dentro la sua anima. "Un giorno d’inverno stavo tornando a casa nel primo pomeriggio, con l’intenzione di chiudermi nello studio e guardare con calma alcune carte. Come al solito, prima di salire, mi fermai alla cassetta delle lettere per prendere la posta. Quella volta ci trovai soltanto un foglio piegato, senza busta. E ancora adesso, quando penso al gesto automatico con cui lo aprii e vidi cosa c’era scritto, risento i brividi che mi assalirono in quel momento. Era una sorta di volantino, composto da ben due pagine. In alto c’era una mia fotografia [...] Il testo era spaventoso. Un congegno osceno orchestrato con dati reali della mia vita e con calunnie gigantesche [...] Nel volantino c’era posto per tutti i miei familiari".
Cantone corre a metterne al corrente il procuratore Agostino Cordova, capendo che l’attacco è gravissimo. Però non riesce ad immaginare la portata di quella campagna di diffamazione. Il giorno dopo il volantino arriva a tutti i colleghi, a carabinieri e polizia, a molti avvocati e politici campani, a tutte le redazioni dei giornali, al Csm, persino a Giancarlo Caselli e Saverio Borrelli. Migliaia di volantini mandati ovunque. Per distruggere un semplice sostituto procuratore che stava svolgendo un’indagine su un’immensa truffa assicurativa, seguendone le tracce per mezza Europa.
Sono pagine impressionanti perché evidenziano con estrema limpidezza come funziona la diffamazione. Non ti si attacca frontalmente, a viso aperto. Cercano di isolarti mettendo in circolazione il virus della calunnia, certi che da qualche parte l’infezione attecchisca e il contagio si propaghi. E che a quel punto il danno sarà irreparabile. ""Meglio una calunnia che un proiettile in testa" era una frase che mi fu detta come sincero incoraggiamento da più di un collega. Ma di questo, sebbene sia un’affermazione di buon senso, non ero e non sono tanto certo. Io mi sentivo come se cercassero di farmi una cosa anche peggiore che eliminarmi fisicamente. Perché si può distruggere un uomo, annientarlo, senza nemmeno torcergli un capello. E paradossalmente è molto difficile che questo accada quando si uccide veramente".
È questo uno dei punti più dolenti. La diffamazione ti lascia vivo fisicamente, ma annienta tutto quello che hai fatto. Come una sorta di bomba a neutrone che lascia intatte le cose mentre cancella ogni forma di vita. La vita morale di un uomo non può mai essere distrutta così radicalmente come dalla calunnia. Per questo anche chi è abituato a uccidere spesso la preferisce al piombo.
Quando entra alla Direzione distrettuale antimafia e gli viene assegnato il Casertano, c’è chi commenta: "Come al solito, Raffae’, t’hanno fatto?". Il che in italiano si tradurrebbe con "fregato" o forse ancora meglio con "ti hanno rifilato un pacco". "La camorra casalese veniva vista come qualcosa di molto feroce e impegnativo e al tempo stesso provinciale, di scarso prestigio".
Ma il processo Spartacus aveva segnato una svolta e il libro è un omaggio a tutti i magistrati che l’avevano istruito e a tutti quelli che, come Cantone stesso, hanno successivamente portato avanti un impegno difficilissimo: Di Pietro, Cafiero de Raho, Greco, Visconti, Curcio, Ardituro, Conzo, Del Gaudio, Falcone, Maresca, Milita, Sirignano e Roberti.
Perché in certi territori la lotta per la legalità e la giustizia è una battaglia combattuta ad armi terribilmente impari. I clan hanno danaro, armi, uomini, coperture e collusioni a non finire. Dall’altra parte i mezzi sono limitati, la mole di lavoro è talmente enorme che bisogna essere disposti a fare straordinari che per molti non sono nemmeno pagati. Tutto il successo è sulle spalle di chi continua a voler far bene il proprio lavoro: magistrati, carabinieri, poliziotti, finanzieri. Uomini che rischiano la vita per senso del dovere e magari anche per lealtà verso i superiori che hanno saputo conquistarsi la loro fiducia, una lealtà primaria da soldati in trincea, e che non vengono ricordati quasi mai. E invece il libro di Cantone gli rende omaggio e gli concede visibilità. Uomini che spesso in territori marci sono il vero argine per contrastare lo strapotere delle mafie. Cantone si sente uno di loro: non un eroe, semplicemente un magistrato che ama il suo lavoro perché ama il diritto, crede nell’accertamento della verità.
Questo per i boss è incomprensibile. Non riescono a concepire che un magistrato persegua solo la giustizia, non personalmente loro. Che non tutti gli uomini sono uguali a loro. I boss sanno che non tutti ammazzano e che non tutti resistono al carcere. Ma sono certi che tutti vogliono danaro, fama, donne e potere. E chi non lo ammette, sta dissimulando, mentendo, imbrogliando. Così la pensa Augusto La Torre, il ferocissimo quanto intelligente capo del clan di Mondragone che l’impegno di Cantone ha messo in ginocchio. È il primo a pianificare un attentato contro di lui ed è anche uno dei primi a pentirsi. Durante gli interrogatori indulge con particolare precisione sui dettagli degli omicidi che ha commesso: la prima strage di extracomunitari a Pescopagano, il gesto con cui tappa col dito lo zampillo di sangue che esce dal buco sulla fronte dell’autista di un capozona dei Casalesi, lo strangolamento con un filo della luce di un piccolo affiliato soltanto sospettato di essere un "infame", mentre il boss continua a ripetergli "non ti faccio niente, non ti faccio niente".
Eppure, ragiona Raffaele Cantone con amarezza, il clan che pareva sconfitto si riforma. Meno potente, ma il territorio riprende a sottomettersi. La camorra non è possibile sconfiggerla soltanto con indagini e processi, sequestri e arresti. Raffaele Cantone oggi non lavora più alla Dda, è diventato giudice al massimario della Cassazione. Ma ha voluto dare un altro strumento per sconfiggere le mafie. Un libro in cui si racconta come si arriva a diventare uno dei principali nemici dei clan e come è fatta la vita di chi li combatte: solo per giustizia.
(2008 by Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency)
* la Repubblica, 26 ottobre 2008.