I cinquecento anni di Bernardino Telesio
Come e perché celebrare la sua opera
Un’occasione imperdibile per rileggere il filosofo cosentino alla luce della "rivoluzione scientifica"
di Franco Crispini (il Riformista, 27.03.2009)
In questo V Centenario della nascita (1509) di Bernardino Telesio, che non è una gloria locale (Cosenza gli ha dato i natali) bensì un filosofo di rilievo, è persino sprecato dirlo, nella storia della cultura moderna, italiana ed europea, nessuno dubiterebbe che l’occasione celebrativa non debba andare sprecata in riti di parole altisonanti, e che le risorse finanziarie impiegate (se ve ne saranno) non debbano andare a finire in mano ai soliti, inaffidabili organizzatori di eventi culturali.
Si spera che le manifestazioni siano sobrie, efficaci e servano soprattutto a far diventare per un momento la Città di Telesio un grande teatro di dibattiti culturali e scientifici molto seri; si avrebbero ricadute di evidente utilità.
Si spera anche che finalmente si costituisca un Comitato organizzativo per le varie iniziative, soprattutto quelle scientifiche, del quale facciano parte studiosi dell’area filosofica dell’università calabrese e ed esperti di altre sedi universitarie (da Firenze a Napoli, a Padova), conoscitori di primo piano dell’epoca rinascimentale e del pensiero telesiano.
In questi ultimi anni, su tutta l’opera di Telesio (il De Rerum Natura (1586), i "libelli" su specifici temi naturalistici) ha lavorato proprio uno studioso cosentino, Luigi De Franco, con acribia e buona cura filologica, ricostituendo un imponente corpus testuale e dandone anche la traduzione italiana dal difficile latino adoperato dal filosofo.
Anche la storiografia erudita ha lavorato con buoni risultati ad una documentata ricostruzione delle vicende personali di Telesio, della sua formazione, della composizione della sua opera (manoscritti, autografi, epistolari, diffusione delle sue idee, prime polemiche ed obiezioni).
Per parte sua, la storiografia critico-filosofica, dai primi giudizi di Francesco Bacone agli studi del Fiorentino, a Giovanni Gentile, a Nicola Abbagnano, per restare ai maggiori (abbiamo avuto modo di scrivere un po’ più minutamente di tutta la vicenda critica quale si presenta nella storiografia telesiana otto-novecentesca), non ha mancato di proporre letture stimolanti, talune troppo attualizzanti, talaltre affidate a forzature spesso eccessive delle idee di Telesio.
Quanto alla epoca di quest’ultimo, il ‘500, dall’indimenticato Eugenio Garin, a Vasoli, a Paolo Rossi, a Michele Cliberto (il maggiore studioso italiano ed europeo di Giordano Bruno), è venuta tutta una ricchezza di indagine critica che non resta da fare moltissimo.
Ci si può aspettare dalla ricorrenza centenaria altri passi in avanti (già ne sono stati compiuti di interessanti nel 1988, anno Centenario della morte) in una ricerca che riguardi l’insieme delle questioni telesiane sulle quali ancora sussistano lacunosità e perplessità proprie della critica filosofica?
C’è da augurarsi che almeno su due punti si aprano nuovi spiragli: all’origine di quella che è stata chiamata la "rivoluzione scientifica" moderna, quale idea di scienza si ritrova e viene praticata in Telesio? Quale immagine di indagatore naturalista incontriamo percorrendo le fitte trame del De Rerum natura?
È per questa via che ci si può formare una idea di come il contributo telesiano resti iscritto negli sviluppi e negli avanzamenti delle conoscenze e dei saperi. E dunque anche a questo dovrà servire tutto il lavoro celebrativo che si farà per dare, soprattutto alle nuove generazioni, un profilo meno stantio e logoro dell’opera di Telesio.
BERNARDINO TELESIO, BIOGRAFIA (Centro Internazionale di Studi Telesiani Bruniani Campanelliani)
TELESIO:
"[...] Telesio è detto da Bacone il primo degli uomini nuovi. Ma la novità era già antica di un secolo, e Telesio che avea fatto i suoi studii a Padova, a Milano, a Roma, professato a Napoli, quando, stanco di lotte e di persecuzioni, deliberò di ritrarsi nella nativa Cosenza, vi portò il motto del pensiero italiano, la filosofia naturale, fondata sull’esperienza e sull’osservazione. Il suo merito è di avere esercitata una seria influenza intellettuale tra’ suoi concittadini e di aver fondato sotto nome di accademia una vera scuola filosofica.
Come Machiavelli, così egli non segue altro che l’osservazione e la natura: poichè la sapienza umana è arrivata alla più alta cima che possa afferrare, se ha osservato quello che si presenta ai sensi, e ciò che può esser dedotto per analogia dalle percezioni sensibili.
Sincero, modesto, d’ingegno non grande, ma di grandissima giustezza di mente e di sano criterio, fu benemerito meno per le sue dottrine, che per il metodo ed il linguaggio. E in verità la grande e utile novità era allora il metodo.
Il suo maggiore elogio lo ha fatto Campanella in queste parole: Telesius in scribendo stylum vere philosophicum solus servat, juxta verum naturam sermones significantes condens, facitque hominem potius sapientem quam loquacem.
L’obbiettivo era sciogliere il pensiero dalla servitù di Aristotile, tiranno degl’ingegni, e metterlo in diretta comunicazione con la natura, rifarlo libero, ciò che con una precisione uguale alla concisione dice Campanella nel suo famoso sonetto a Telesio:
Telesio, il telo della tua faretra
Uccide de’ Sofisti in mezzo al campo
Degl’ingegni il Tiranno senza scampo:
Libertà dolce alla verità impetra.
L’impresa non era lieve. Resistevano tutte le dotte mediocrità, tutto quel complesso di uomini e d’istituzioni che l’Aretino chiamava la pedanteria, i Polinnii di Bruno spalleggiati da francescani, domenicani e gesuiti, e spesso l’ultimo argomento era il rogo, il carcere, l’esilio. Dir cose nuove era delitto non solo alla Chiesa, ma a’ principi venuti in sospetto di ogni novità nelle scuole: pure la fede di un rinnovamento era universale, e "Renovabitur" fu il motto del Montano, discepolo di Telesio, nel compendio che scrisse della sua dottrina.
Si era fino allora pensato col capo d’altri. Gli uomini volevano ora pensare col capo loro. Questo era il movimento. E fu così irresistibile, che la novità usciva anche da’ segreti del Convento. Fu là che si formò ne’ forti studii libera e ribelle l’anima di Bruno. E là, in un piccolo convento di Calabria, si educava a libertà l’ingegno di Tommaso Campanella. Assai presto oltrepassò gli studii delle scuole, e, fatto maestro di sè, lesse avidamente e disordinatamente tutti que’ libri che gli vennero alle mani. Nella solitudine si fa presto ad esser dotto. Ivi il giovine raccolse immensi materiali in tutto lo scibile. Il suo idolo era Telesio, il gran novatore; il suo odio era Aristotile con tutto il suo seguito, e, come Bruno, preferiva gli antichi filosofi greci, massime Pitagora. Venuto in Cosenza, i suoi frati, che già conoscevano l’uomo, non vollero permettergli di udire, nè di veder Telesio ciò che infiammò il desiderio e l’amore. Il giorno che Telesio morì, fu visto in chiesa accanto alla bara il giovine frate, che dovea continuarlo.
I Cosentini, sentendolo nelle dispute, dicevano che in lui era passato lo spirito di Telesio. La scuola Telesiana o riformatrice, come era detta, gli fu tutta intorno, il Bombino, il Montano, il Gaieta, da lui celebrati insieme col maestro. Il suo primo lavoro fu una difesa di Telesio contro il napoletano Marta.
Venuto a Napoli per la stampa dell’opera, attirò l’attenzione per il suo ardore nelle dispute, per l’agilità e la presenza dello spirito, per la franchezza delle opinioni, o per l’immenso sapere. E gl’invidiosi dicevano: come sa di lettere costui, che mai non le imparò? E recavano a magia, a cabala, a scienza occulta ciò che era frutto di studii solitarii. Le opinioni telesiane poco attecchivano in Napoli, onde il buon Telesio avea dovuto andar via per le molte inimicizie. Anche il Porta ci stava a disagio, e dovea con le commedie far perdonare alla sua filosofia. -Naturalmente, si strinse un legame tra Campanella e l’autore della Magia naturale e della Fisonomia. Disputavano, leggevano, conferivano i loro lavori. Frutto di questa dimestichezza fu il libro De sensu rerum, a cui successe l’altro: De investigatione. Ivi si stabilisce per qual via si giunga a ragionare col solo senso e colle cose che si conoscono pe’ sensi: ciò che è il metodo sperimentale, base della filosofia naturale. Ci si vede l’influenza di Telesio, di Porta e di tutta la scuola riformatrice. [...]
Eu-ropa ed Eu-angelo. Una Riforma cosmologica ...
GIORDANO BRUNO, LE "TRE CORONE" E IL VANGELO ARMATO. Nuccio Ordine rilegge la grande opera di Bruno (e fa intravedere impensate connessioni con Dante, Boccaccio, Lessing e noi, tutti e tutte). Intervista di Maria Mantello
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI. A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE .....
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
IL PERSONAGGIO
Antonio Serra, storia del «meridionalista inconsapevole»
L’economista cosentino è considerato uno dei primi studiosi al mondo dei fenomeni finanziari, analizzati con metodo scientifico. Eppure in pochi lo conoscono. Anche nella sua città
di Eugenio Furia (Corriere della Calabria, 18/02/2024)
COSENZA Via Antonio Serra è quel breve tratto di strada che, nel centro storico, da corso Telesio porta al liceo classico, sorto al posto dell’antico convento dei Gesuiti. La persona a cui la strada è dedicata ebbe i natali in un palazzotto posto a due passi dell’antica Giostra Vecchia, altro centro vitale dell’attività della Cosenza cinquecentesca.
Antonio Serra, intellettuale di vasta cultura, lasciò il segno, seppure fievole, nella Storia (quella con la S maiuscola) della cultura del Regno di Napoli e dell’intera umanità. Fu, in assoluto, il primo studioso al mondo dei fenomeni economici e finanziari, il primo a concepire un testo di scienza delle finanze, il primo teorico del mercantilismo, lo scopritore della legge sulla crescente produttività nell’industria. Uno dei non pochi grandi, che Cosenza ha avuto il privilegio di generare, pur tuttavia rimosso dal pantheon della città. In realtà gli hanno intitolato questa strada e un Istituto scolastico per periti commerciali, ma pochi degli studenti che lo hanno frequentato ne conoscono la storia, l’opera e i meriti.
Serra iniziò i suoi studi presso uno dei tanti Istituti religiosi a Cosenza, probabilmente proprio in quel famoso Studium dei domenicani, presso il quale si formarono generazioni di cosentini; completò gli studi a Napoli con una laurea in teologia e legge, ma si dedicò all’approfondimento di una particolare branca del sapere, all’epoca non ancora esplorata e piuttosto sconosciuta: l’economia.
Nella sua unica opera conosciuta (Breve trattato delle cause che possono fare abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere, Napoli 1613) analizzò quelle che riteneva fossero le vere cause della spaventosa miseria di Napoli e di tutto il vicereame spagnolo. In estrema sintesi, individuò e indicò i fattori che avrebbero reso possibile, invece, una migliore condizione, in tre semplici e basilari concetti, oggi universalmente conosciuti: sagge leggi, buon governo e libertà di commerci e di scambi. Principi, questi del mercantilismo e liberismo, che si affermeranno solo secoli dopo.
Il saggio - meritoriamente riprodotto in copia anastatica a cura di Leonardo Granata nel 1998 per i tipi di Pubblisfera (San Giovanni in Fiore) - rivelò, inoltre, inaspettate conoscenze di filosofia e di scienza delle finanze, che gli permisero di enunciare con tre secoli di anticipo quella legge economica, in base alla quale anche la moneta aurea si apprezza o si deprezza in ragione inversa alla quantità circolante. Cioè più moneta si conia, meno vale.
Dopo oltre un secolo dalla pubblicazione, uno dei più importanti economisti del tempo, l’abate Ferdinando Galiani (1728 - 1787) scoprì in un certo senso l’opera del Serra e la definì «unica al mondo», inserendola nella seconda edizione di una sua opera intitolata Della Moneta (1780); altri riconoscimenti vennero da molti economisti e pensatori, fra i quali anche Benedetto Croce. «Chiunque leggerà questo trattato - così Galiani - resterà sicuramente sorpreso ed ammirato in vedere quanto in un secolo di totale ignoranza della scienza economica avesse il suo autore chiaro e giusto le idee della materia di cui scrisse, e quanto sanamente giudicasse delle cause de’ nostri mali e de’ soli rimedj efficaci».
Un ritratto e un premio
Al momento esistono in Italia tre copie originali del trattato: una presso la biblioteca Ambrosiana di Milano e due presso la Nazionale di Napoli. Anche a Parigi ne esiste una copia. «In un secolo “buio”, anche per la scienza economica, come il 600, per il Regno di Napoli, che si trovava sotto il giogo della dominazione spagnola, il trattato di Antonio Serra appare pervaso d’una lungimirante modernità. In breve, l’autore, adopera tecnicismi e studi addirittura e soprattutto sul cambio che ancora oggi appaiono di difficile comprensione»: così ricostruisce la Camera di Commercio di Cosenza, che da un lato conserva - nella stanza presidenziale - il dipinto (opera di Rocco Lotufo, 1867, nella foto) che ritrae Serra probabilmente nelle carceri della Vicarìa di Napoli «dove fu condotto per un’accusa di smercio di monete false, certamente un pretesto legato alle sue idee», dall’altro ne tiene viva la memoria da un paio di anni, con un premio dedicato alle Eccellenze calabresi.
«L’opera - si legge nella presentazione del premio - si divide in 3 parti: nella prima ricerca e determina le ragioni della ricchezza, nella seconda dimostra l’ininfluenza del cambio sulla stessa e nella terza parte esamina i rimedi che si possono porre in essere, nella sua epoca, per arginare la penuria di denaro. Le ragioni generali della ricchezza, afferma il Serra, possono essere naturali (ad esempio le miniere ) e accidentali, cioè quelle di cui l’uomo può avvalersi. Certamente è ragionevole pensare che il Serra scrisse altre opere che purtroppo sono andate perdute (...). Antonio Serra può essere considerato il primo economista italiano, nel vero e proprio senso moderno del termine, dotato di una lungimiranza fuori dal comune e dalla sua epoca».
Una vita da ribelle
Nulla o quasi conosciamo della sua vita e della sua formazione. La sua vita, a causa dei pochi elementi certi in nostro possesso, dovrebbe essersi dipanata tra il 1570 e il 1630. Siamo a conoscenza di un rogito del notaio Bartolo Giordano del 23 dicembre 1591 che attesta la sua qualità di dottore in giurisprudenza e il possesso di un appezzamento di terreno, esteso 5 moggi, nel comune di Dipignano, da cui, presumibilmente la sua famiglia era originaria. Sappiamo infatti che si definiva di Cosenza, anche se alcune congetture lo portano nativo di un casale vicino a Cosenza; non è data sapere la sua data di nascita, probabilmente e quasi sicuramente nella seconda metà del 500 e la sua data di morte avvenuta nei primi decenni del 600, come detto in carcere a Napoli. Contemporaneo di Tommaso Campanella, alcune fonti al momento senza fondamento lo portano legato alla rivolta promossa dal frate contro gli spagnoli.
Una volta giunto a Napoli fu profondamente toccato e amareggiato per le condizioni di vita della popolazione, tenuta in una immorale povertà, quasi schiavitù, dalle classi dominanti, che, appropriandosi dell’intero reddito dei campi, da cui si ricavava il vivere di tutti, determinavano l’immiserimento della gente. Ciò, forse, fu stimolo o causa che lo avvicinò al conterraneo Campanella, notissimo frate e filosofo eccellentissimo: ma anche ribelle e visionario, che, in quei tempi, andava elaborando suggestive teorie religiose che lo portarono ad essere attenzionato dall’Inquisizione. Campanella arrivò a progettare una congiura per eliminare gli spagnoli dalla Calabria e, possibilmente, da tutto il vicereame: pensava a un utopistico stato fondato sulla giustizia a servizio della felicità dell’uomo. Scoperto e imprigionato nel 1600, il frate di Stilo fu condannato a morte, condanna trasformata in carcere a vita. In seguito, dopo ben 26 anni, fu liberato su pressioni del papa (morirà a Parigi nel 1639).
Dopo alcuni anni dall’arresto del Campanella, probabilmente il 1609, perdurando in Calabria un clima di tensioni e di torbidi, la Spagna chiuse l’Accademia, aumentò la repressione ed anche il Serra, membro dell’Accademia, fu imprigionato, torturato e condannato al carcere a vita perché sospettato di avere aderito al progetto della rivolta campanelliana.
«Qualunque sia il motivo della sua carcerazione - scrive Leonardo Granata nell’introduzione al suo volume “Antonio Serra: economista e meridionalista inconsapevole” -, falso monetario, partecipazione alla congiura del Campanella o indisposizione al potere viceregio, Serra ha dimostrato col suo Breve trattato di avere la coscienza a posto e di avere agito e di “agire” per la rinascita generale del Regno di Napoli, per la rinascita del Mezzogiorno odierno, se spostiamo il suo discorso ai giorni nostri, alla problematica sulla Questione meridionale, attuale».
Persecuzioni
Campanella studiò le congiure
E pagò con 27 anni in carcere
Esce per Salerno Editrice la biografia del frate calabrese, scritta da Saverio Ricci Liberato grazie a Maffeo Barberini, morì in Francia da uomo libero e onorato
di PAOLO MIELI *
Giovan Domenico Campanella nacque a Stilo in Calabria nel 1568. Il nome Tommaso, in onore del santo, lo prese nel 1582 quando entrò nell’ordine domenicano. Nel 1591 fu arrestato una prima volta (e l’anno successivo condannato) per la sua mancanza di ortodossia alla dottrina di San Tommaso d’Aquino. Un anno di carcere e poi iniziò un lungo viaggio per sfuggire all’Inquisizione: Firenze, Bologna, Padova. Nel 1594, secondo arresto (per aver disputato questioni di fede con un «giudaizzante», senza denunciarlo). Nel 1595, terzo arresto, stavolta per «intelligenza con i protestanti». Nel 1597, quarto processo, in questa occasione perché «eretico». Ogni volta riesce, per così dire, a cavarsela. Fino al per lui fatidico 1599.
Il 10 agosto di quell’anno due cittadini di Catanzaro, Fabio di Lauro e Giovan Battista Biblia, lo denunciarono quale «mente di una cospirazione», guidata da Dionisio Ponzio, diretta a «rivoltare ed ingannare i popoli» contro il re di Spagna Filippo III. Questo il punto di partenza di un affascinante libro di Saverio Ricci, Campanella, in uscita per la Salerno Editrice. I due denuncianti erano personaggi «non proprio esemplari», rifugiati nel convento dei frati zoccolanti «poiché soverchiati da debiti e reati»: dichiararono di aver «fintamente aderito» al complotto antispagnolo «con il proposito di svelarlo». Il re di Spagna era accusato dai cospiratori di essersi servito di ministri «avidi e malvagi». Alla cospirazione avrebbe dato man forte il Papa Clemente VIII, che avrebbe deciso di sottrarre quelle terre alla «tirannia» spagnola, dando ad esse «libertà di repubblica» purché i popoli meridionali «riconoscessero la Chiesa come loro signora» e fossero disponibili a versarle un «mediocre contributo». Tutto qui? No, l’intero piano sarebbe stato ordito d’intesa con «il Turco», i musulmani che avrebbero dato un apporto a Chiesa e calabresi nella sollevazione antispagnola. Due emissari dei rivoltosi sarebbero stati inviati alla flotta turca al largo delle coste calabresi, affinché alcune sue navi si accingessero a coprire i ribelli che avrebbero occupato Catanzaro, Squillace, Nicastro, Castelvetere, Locri e Reggio.
Eppure - contraddizioni interne alla Chiesa - la denuncia dell’intrigo venne a fine agosto dal vescovo di Catanzaro, che chiese di perseguire i domenicani implicati. Le denunce giunsero al viceré Ferrante Ruiz de Castro conte di Lemos e, suo tramite, a Filippo III. Lemos non credette alla concertazione tra il Papa e i turchi («me paresce - scrisse - que es grande disparte mesclar al papa con el turco»; e ancora: «gran vellaqueria era meter al papa en esta dança»). Fu istruito lì per lì un processo per eresia e ribellione contro Campanella, Dionisio Ponzio, Giovan Battista Pizzoni e altri frati. Il 6 settembre Campanella fu preso a Castelvetere. I soldati che lo catturarono, racconta Ricci, «gareggiavano a straziarlo, ma gli chiedevano di nascosto benedizioni e segreti rimedi; se ne sarebbero finanche spartite le vesti, proprio come nella Passione del Cristo, ma per verificare se avessero effetti taumaturgici, il che testimonia della fama del filosofo Campanella anche quale guaritore». Il viceré raccomandò di «trattare rispettosamente i vescovi che si fossero scoperti complici della congiura, dicendosi certo, in una lettera al sovrano, che ove quegli ecclesiastici si fossero dimostrati colpevoli, il Papa o glieli avrebbe affidati o avrebbe loro inflitto un castigo esemplare». Ordinò anche agli inquirenti di «non mettere agli atti le accuse contro vescovi e nobili» e di «comunicargliele in cifra». Appare evidente, nota Ricci, «la sua intenzione di ridimensionare il coinvolgimento di alte personalità o di farne uso discreto». Contro i vescovi nominati nelle deposizioni non saranno avviati procedimenti giudiziari. Lo stesso accadrà a Roma. Nei confronti degli ecclesiastici «si sarebbe proceduto dandone notizia al Pontefice, ora probabilmente imbarazzato dal fatto, sapientemente esibito, che i cospiratori avevano preteso di agire in suo nome».
Ma torniamo a Tommaso Campanella. Nel processo gli viene attribuito il piano di un’insurrezione diretta contro il sovrano «per tutto il regno». A Stilo Campanella avrebbe fissato la capitale della sua «repubblica» nella quale si sarebbe stabilita «libertà di vivere senza conoscere Dio né Chiesa» e il filosofo si sarebbe offerto «messia della verità e della libertà». Fu però subito chiaro che Clemente VIII intendeva sottrarre gli imputati domenicani alla giurisdizione secolare anche nel caso in cui le corti fossero state assistite da un delegato del nunzio. Copie degli interrogatori dovevano essere spedite a Roma e si sarebbe dovuto procedere «d’intesa con i vescovi con segretezza e diligenza».
Si trattò, secondo Ricci, di una «svolta decisiva», dal momento che nella trattazione della vicenda si segnalava la volontà romana di applicare al caso calabrese la «più rigorosa osservanza della normativa vigente» nel Santo Uffizio. D’altra parte, «l’istigazione esercitata sugli imputati ecclesiastici ad abbondare nelle accuse e confessioni di eresia, lasciando balenare la possibilità del deferimento al Santo Uffizio, aveva già trovato sponda in quanti, anche laici, erano persuasi che l’ammissione di quel reato li avrebbe assicurati a una giustizia più equanime». Strano processo. L’inchiesta «ne risultò vieppiù intorbidita» Anche dal procedimento contro i laici intanto arrestati, sottoposti a torture e pressioni, venne indirettamente confermato il ruolo di Campanella nell’arruolamento di congiurati e nella ricerca di un’«intesa col Turco». Il vescovo di Cosenza Giovanni Battista Costanzo disse di aver previsto che «un giorno questi frati calabresi, harebbono fatto alcun grande eccesso per la loro scelerata vita»; ancora tremando per l’apparizione della flotta turca evocata dai congiurati e infine avvistata, scrisse al Santo Uffizio che quei frati avevano concepito «una delle maggiori sceleraggini che sia stata commessa da molti secoli in qua». Tra l’altro il filosofo domenicano fu accusato anche di voler prendere tra le otto e le dieci mogli, ammazzando prima i loro mariti, e di aver intenzione di «tener un seraglio nel castello di Stilo».
Ma, tornando alla dimensione politica del caso, l’accusa più insidiosa ebbe per oggetto un libro del filosofo: la Monarchia di Spagna. In esso Campanella stabiliva fin dall’inizio che l’unica monarchia universale cristiana possibile avrebbe dovuto essere «dipendente dal papato». Essa doveva essere frutto di un innesto tra burocrazia imperiale e burocrazia ecclesiastica. Ma non è questo, o solo questo, che attirò sospetti sul libro. Fu piuttosto la parte destinata alle cospirazioni. Là dove Campanella - spiega Ricci - parte dalla premessa che «le congiure di più persone se non si pongono subito a effetto, vengono facilmente scoperte»: e «sono destinate del pari a fallire quelle che non abbiano un santo scopo di giustizia». Quelle per giusta causa, organizzate da «uomini da bene», anche se «tardive» non vengono scoperte facilmente. Ma se una congiura, pur avendo giusta causa, è frutto dell’accordo di pochi «e non buoni» e non viene presto eseguita, «è presto svelata». A Campanella appare «più potente» la congiura «ordita da un’unica mente capace di dissimulare le proprie intenzioni»: il capo «dà a credere a suoi seguaci che voglia altro fare, e fra tanto si sforza legarli con vincolo d’amore». Questo tipo di cospiratore «vincerà certo». Il modo di guardare ai complotti di Tommaso Campanella è molto differente da quello assai più pessimista di Machiavelli. Diverso tra i due è anche l’angolo prospettico da cui guardano alla cospirazione. Campanella, scrive Ricci, «prefigura un tipo di complotto fondato proprio su quella capacità di simulazione e dissimulazione che Machiavelli aveva eletto a tratto essenziale del principe e che qui diventa una dote del congiurato».
La casistica campanelliana si occupa anche del «dopo congiura». Cioè del caso che essa fallisca o sia scoperta. Se il principe viene avvisato che qualcuno congiurò, se ne dovrebbe «burlare» dal momento che «o son dicerie», o «non ne sanno», cioè «gli accusatori sono falsarii». Ma quali sarebbero i rischi? Se il principe reagisce con violenza alle notizie di «congiure false», ne patiscono ingiustamente i popoli che «per questo odieranno il sovrano». Per paradosso meglio sarebbe se il principe dissimulasse la congiura ancorché vera, «poiché si farebbe titolo di non meritare un complotto». Molto peggio è «infamare un paese di ribellione o congiura se non è provatissima», poiché i popoli se ne offendono e i nemici ne profittano per invadere il regno. Talvolta i principi profittano di simili «rumori» per spegnere nemici interni, ma i popoli hanno memoria lunga, «e con ogni occasione e aiuto forastiero si sollevano»; così «non si sfugge la congiura, ma si differisce». E, se pure è stata ordita, «meglio con benefici che con maleficii scancellar la memoria di tale ribellione».
Qui si arriva al capitolo più celebre del libro, il XXVII, dedicato a come estinguere la rivolta delle Fiandre. Operazione che avrebbe dovuto essere condotta «sottilmente», invece che imponendo, come si era fatto, soffocanti tributi e la «severa» Inquisizione spagnola.
La rivolta - secondo Campanella - avrebbe dovuto essere contrastata con abili governanti italiani o tedeschi e con predicatori capaci di profittare delle divisioni interne dei ribelli, piuttosto che con rozzi capitani spagnoli. Si è sbagliato inoltre a mandare in guerra, contro gente che difendeva «religione, patria, figli e moglie», ufficiali più desiderosi di prolungare il conflitto per «avarizia» (qui il termine sta per sete di denaro) che di vincerlo rapidamente. Resta un ultimo tema: il libro fu scritto prima (come sostenne il domenicano) o dopo la congiura calabrese? Tema che ne sottende un altro: se queste pagine della Monarchia siano state «il breve manuale per la congiura del 1599 o il bilancio del suo fallimento». È probabile che il testo abbia avuto due stesure: la prima nel 1598, che fu poi rivista successivamente. In ogni caso stavolta per Campanella la pena fu oltremodo severa.
Il domenicano restò in prigione ventisette anni, nel corso dei quali scrisse, assieme a molti libri di grande qualità, il suo capolavoro, La città del Sole (1602). Fu un cardinale, Maffeo Barberini, che prese a cuore il suo caso e ottenne dal re di Spagna il suo trasferimento a Roma (1626). Tre anni dopo, Barberini, divenuto Papa Urbano VIII, ne decretò la liberazione e lo volle con sé come consigliere per le questioni astrologiche. Nel 1634 venne alla luce in Calabria una nuova cospirazione e Campanella rischiò di essere nuovamente coinvolto come «ispiratore». Urbano VIII ritenne prudente mandarlo in Francia, dove Campanella conquistò i favori e la protezione di Luigi XIII e del cardinale Richelieu. Fu ospitato nel convento parigino di Saint-Honoré e morì nel 1639. Da uomo libero.
Per chi si è occupato di lui - scrive Ricci - è stato volta a volta un «machiavellico libertino», un «cospiratore repubblicano», oppure «cattolico medievalizzante, o «indisciplinato interprete della Controriforma»; «utopista» o «teocratico»; filo-spagnolo o filo-francese, per tattica, o per convinzione; capace comunque di costanti finzioni o dissimulazioni, in un’epoca che peraltro «ne faceva uso tanto corrente che spesso le sue non furono credute dai contemporanei» (a molti dei quali - pur essi spesso inclini o obbligati a doppiezze e autocensure - prima ancora che ad alcuni storici moderni, egli parve «simulatore», «volubile», «oscuro»). Ma in ogni caso - e su questo concordano tutti, o quasi - fu una delle più importanti e misteriose personalità dei suoi tempi. Il cui tratto biografico (oltreché il pensiero) è una chiave indispensabile per comprendere l’epoca in cui visse a cavallo tra Cinque e Seicento.
Bibliografia
Del testo di Tommaso Campanella La città del Sole (scritto nel 1602 e pubblicato nel 1623) esistono molte edizioni: a cura di Luigi Firpo (Laterza); a cura di Adriano Seroni (Feltrinelli); con introduzione e commento di Alberto Savinio (Adelphi); a cura di Germana Ernst (Rizzoli); a cura di Franco Mollia (Mondadori); a cura di Francesco Idotta (La Città del Sole edizioni). -Sono usciti quest’anno due studi dedicati alla vita e al pensiero di Campanella: Piero Bevilacqua, Il sole di Tommaso (Castelvecchi, pagine 72, e 12,50); Luca Addante, Tommaso Campanella. Il filosofo immaginato, interpretato, falsato (Laterza, pagine XI-243, e 25).
Da segnalare inoltre: Germana Ernst, Tommaso Campanella (Laterza, 2002).
Corriere della Sera, 16 ottobre 2018 (modifica il 17 ottobre 2018 | 21:41).
La misura del Sole contro tirannide, sofismi e ipocrisia
Scaffale. Un percorso di letture su Tommaso Campanella, a 450 anni dalla nascita
di Gregorio De Paola(il manifesto, 06.09.2018)
Il 5 settembre 1568 a Stilo, un piccolo paese della Calabria ultra, da Geronimo Campanella, ciabattino analfabeta e Catarinella Martello, nasceva Giovan Domenico, che più tardi, indossato il saio dei domenicani, prenderà il nome di Tommaso.
Ricorrono dunque i 450 anni dalla nascita di uno dei «massimi pensatori del tardo Rinascimento» - per dirla con Eugenio Garin - noto soprattutto per un’operetta, capolavoro della letteratura utopistica, destinata (ma solo in tempi relativamente recenti, vale a dire dalla metà dell’Ottocento e sempre di più nel Novecento) a un grande successo, La Città del Sole.
Molto meno nota è invece la straordinaria ricchezza, nonché la complessità della sua figura e del suo pensiero, che emerge invece nitidamente da un recente saggio di Luca Addante dal titolo Tommaso Campanella. Il filosofo immaginato, interpretato, falsato (Laterza, pp. 256, euro 25).
ATEO O ZELANTE sostenitore dell’ortodossia cattolica, ribelle o fautore della monarchia spagnola o francese, dai suoi scritti sembra poter attingere argomenti per sostenere le posizioni più disparate. Nicola Badaloni, a proposito di Campanella, aveva parlato di magma, in cui convivono «la figura dell’astrologo, del profeta, dell’utopista, del realista politico», che ci restituisce un «caleidoscopio di immagini difficili da ricomporre a unità».
Del resto, a spiegare le ragioni profonde della difficoltà di dare di Campanella una lettura univoca, basta ricordare le drammatiche circostanze in cui furono composte le quasi 30mila pagine dei suoi scritti, tra processi e carcere (dove Campanella trascorse oltre 30 dei suoi 70 anni), sotto il controllo occhiuto e feroce di inquisitori e carcerieri, in un periodo in cui l’arte della dissimulazione era indispensabile alla sopravvivenza di chi osava pensare con la propria testa, nonché i mille ostacoli alla loro circolazione, ostacoli che in molti casi durano tuttora.
Il volumetto che al giovane Campanella dedica Piero Bevilacqua dal titolo Il Sole di Tommaso (Castelvecchi, pp. 76, euro 12) è un dramma storico che tiene presente tutto questo eppure, con un’operazione coraggiosa, sceglie di semplificare la complessità della materia, dandoci un Campanella tanto plasticamente costruito su solide basi storiche e documentali (i testi di Amabile e l’opera poetica, in particolare) quanto capace cogliere il senso profondo della sua ricerca e di restituircene insieme l’attualità:
«Come è possibile, come può succedere su questa Terra che così pochi uomini si siano impadroniti della vita di tutti?»
si chiede Campanella nel lungo soliloquio conclusivo del V atto, ormai sconfitto e in carcere dopo la scoperta della congiura del 1599 per liberare la Calabria dal giogo spagnolo, e sopravvissuto eroicamente alla tortura al prezzo di fingersi folle, pur consapevole che «il viver sporca chi per viver finge».
Non inganni quindi il titolo del lavoro di Bevilacqua: non siamo di fronte all’ennesima riproposizione del Campanella utopistico, decontestualizzato dalle terribili circostanze della composizione e dal resto della sua opera.
SE IL SOLE RIMANDA all’opera più nota di C., e quindi al sogno di una società non più lacerata dalle ingiustizie e dalla violenza, il dramma intende ricostruirne semmai l’altra faccia, grandiosa e tragica. Grandiosa per l’ampiezza del progetto: nei 5 atti che compongono il dramma (Nicastro 1585 e 1588, Napoli 1589 e 1591, Roccella Jonica 1599, di nuovo Napoli aprile e ottobre del 1599) assistiamo partecipi al progressivo ampliarsi dell’orizzonte di Campanella: lo sdegno per le odiose sopraffazioni degli umili (come quelle della vecchietta che fatica a procurarsi la legna indispensabile o l’umiliazione del contadino cui il barone del luogo insidia la moglie e la figlia, del I atto - scene che riportano significativamente al giovane Marx e a Manzoni), si dilata a critica radicale della Chiesa, della nobiltà, del dominio spagnolo, della filosofia scolastica, dell’aristotelismo («pensiero unico» di quell’epoca) e appassionata difesa e progettazione, giustificata anche sulla base di calcoli astrologici e profezie, di un nuovo ordine intellettuale e politico:
«I contadini sono più filosofi degli aristotelici. Osservano la natura delle cose, la terra e le piante, l’acqua e il vento, con gli occhi e con le mani, non ripetono le formule dei libri».
DECISIVO L’INCONTRO con la lezione di Telesio, l’intuizione di trovarsi davanti a un passaggio epocale in cui è essenziale la libertà di pensiero, convinzione che porterà Campanella a farsi coraggioso difensore di Galilei. Tragica per l’esito: il tentativo rivoluzionario, come è noto, sarà stroncato sul nascere, e Campanella condannato al carcere a vita, da cui uscirà solo nel 1626.
Ad alimentare una volontà indomita restava però la convinzione di avere ancora come intellettuale una missione da compiere: -«Io nacqui a debellar tre mali estremi/ tirannide, sofismi, ipocrisia», a «diveller l’ignoranza» di quel popolo che ignora la sua stessa forza: «il popolo è una bestia varia e grossa/ ch’ignora le sue forze; e perciò stassi/ a pesi e botte di legni e di sassi/ guidato da un fanciul che non ha possa».
ILIESI. *
TOMMASO CAMPANELLA. LESSICO
Dico dunque che il fine delle monarchie è già venuto, e che ogni | cosa ha da venire all’imperio de santi e della Chiesa, il che sarà finite le | quattro monarchie e morto l’Anticristo, che durarà tre anni e mezzo, | secondo Lattanzio, S. Ireneo, Tertulliano, Origene, Vittorino, S. Bernardino, | l’abate Gioachino, Dante, Petrarca e altri teologi, filosofi, | profeti e poeti, come altrove || dichiarai. Mon. Spagna 24.
Overamente si deve risolvere che il Papa non abbia dominio in | temporalibus e farlo restare senza niente come un vescovo suo cappellano. | E questo è contraddetto ancora da Dio, il quale ha constituito un | sacerdozio regale con il gladio spirituale e materiale armato, altrimenti | sarebbe Cristo legislatore diminuto, ed è, come prova san Paolo, | secondo quel di Melchisedech, che fu Re e sacerdote, il che fa più | riverente e sicuro l’Imperio, come mostrai contra Dante nella mia | Monarchia, che scioccamente solo mirò al sacerdozio d’Aaron, volendo | dare al Papa solo lo spirituale e le decime. 48.
La mirabile invenzione del Mondo nuovo, toccata da santa Brigida | e chiaramente predetta da Seneca in Medea a punto con quei | modi e nomi che si ritrovò, secondo dalle Sibille avea inteso, ha fatto | maravigliare il nostro emisfero tutto. Poiché si credevano i filosofi | altri che quella parte fosse tutta acqua, come Senofane; altri che non | vi fosse mondo sopra cui il sol giri, come sant’Agostino e Lattanzio | Firmiano; altri che non vi fosse gente, ma il paradiso terrestre, come | Dante; altri dubitaro, come Aristotele; altri l’asseriro, come Platone e | con lui Origene. 338.
Dante || concorda con costoro, et dice, che disse Christo: Quae sunt Caesaris | Caesari, quae sunt Dei Deo, et divise le giurisdittioni, e che Roma | haveva doi soli, che mostravano la strada del secolo, e del cielo, | essendo hora confusi in uno per usurpatione di potestà cadde nel | fango, et se fe brutta, e la soma. Mon. Messia 73. Erra Dante grassamente, quando | dice che il papa non deve havere dominio temporale, perché del | rettaggio i figli di Levi furono essenti, perché non è levitico sacerdote | il papa, ma melchisedecchio. 85.
E qui si chiaman David li prencipi, ma li sacerdoti dèi, et angeli. | Dunque è stoltitia pensare che essi possano giudicare li clerici, o che | habbino authorità alcuna che non sia dependente dal papa, perché | s’è vero quello d’Ezechiele: Erit rex imperans omnibus unus, nec dividentur | amplius in duo regna, chiaro è che non può essere re alcuno | nel mondo, che non dependa da quello uno; e questi divisori d’imperio | e di sacerdotio scompongono tutta la Bibbia e fanno altro capo | independente dal primo, come Dante doi soli per non fare luna | l’imperatore, e dipendente dal papa. 131. però non s’ammiri Dante poeta, che l’uomo | non fa l’officio suo fondamentale, a cui è secondo la natura idoneo, perché, || stando ammascherati, tutti semo forzati a far quel che la maschera era | prescritta; Politici 145.
Onde Dante | poeta disse: «Sempre la commistion delle persone fu ( cagione del mal | delle cittadi», etc. E però li Giudei quando provaro l’altre sette, si | fecero Saducei ateisti. E li gentili romani per le tante sette diventaro | ateisti, e oggi gli Germani dopo tante altre sette son giunti | all’ateismo, e fecero leggi che mutando il principe religione la muti il | popolo, e ritengon i titoli che ricevettero dal Papa predicato da Lutero | per Anticristo. Dunque essi sarebben Anticristiani. Mon. Francia 496.
Il CLERP si basa sui seguenti testi di Campanella:
Epilogo magno, 1598* °
Monarchia di Spagna, 1598-1600*
La città del Sole, 1601-1602*
Aforismi politici, fine del 1601*
Del senso delle cose e della magia, 1604*
L’ateismo trionfato, 1606-1607*
Monarchia del Messia, 1606-1607*
Politici e cortigiani contro filosofi e profeti, 1627*
Monarchia di Francia, 1636*
Storia della scienza. Ricostruita per la prima volta la fortuna editoriale delle opere di colui che è considerato il padre della cultura filosofico-scientifica della prima età moderna I best seller di Telesio
di Franco Giudice (Il Sole-24, Domenica, 19.08.2018) *
Nei Sonnambuli, il suo best-seller sulla storia dell’astronomia dall’antichità a Newton, Arthur Koestler sosteneva che il De revolutionibus (1543) di Copernico «fu e rimane un magnifico fallimento editoriale». Insomma, per citare la sua frase a effetto, «un libro che non ha letto nessuno», essendo talmente tecnico e noioso da aver sempre scoraggiato i suoi potenziali lettori, compreso un copernicano convinto come Galileo.
L’opera di Koestler, pubblicata nel 1959 e tradotta in italiano da Jaka Book nel 1982, suscitò fin da subito accese discussioni, anche se ha avuto e continua ad avere parecchi estimatori. All’epoca, tuttavia, era impossibile stabilire la verità o la falsità della sua perentoria affermazione sul libro di Copernico, poiché nessuno si era mai preoccupato di studiarne l’effettiva diffusione.
Agli inizi degli anni Settanta però Owen Gingerich, astronomo e storico della scienza all’università di Harvard, raccolse la sfida e dopo più di trent’anni di appassionate indagini e di peregrinazioni nelle biblioteche e nelle collezioni private di mezzo mondo è riuscito a sfatare la tesi di Koestler, documentando con rigore l’estesa rete di lettori che si erano cimentati con il De revolutionibus e che andavano ben oltre la stretta cerchia degli astronomi di professione. I risultati delle lunghe e pazienti ricerche di Gingerich sono confluiti nel suo An Annotated Census of Copernicus’ De revolutionibus (Brill, 2002), dove si trovano esaminati in ogni minimo dettaglio circa seicento esemplari del libro di Copernico, sia della prima sia della seconda edizione (1566).
Il censimento di Gingerich è unanimemente considerato un esempio magistrale di bibliografia descrittiva e di storia degli esemplari. Un giudizio che possiamo ora tranquillamente estendere allo straordinario lavoro di scavo che Giliola Barbero e Adriana Paolini hanno dedicato alle vicende editoriali delle opere di Bernardino Telesio (1509-1588) pubblicate nel XVI secolo, quelle cioè con cui è stata tramandata la filosofia di uno dei più significativi esponenti del naturalismo rinascimentale. Un’impresa tutt’altro che semplice, ma che ha dato i suoi frutti, visto che in soli quattro anni di intense ricerche le due studiose hanno individuato ben 718 esemplari, di cui 543 «oggetto di analisi autoptica».
Di questi esemplari viene indicata non solo l’attuale collocazione nelle molteplici biblioteche del mondo, ma anche la redazione di ognuno di essi, le varianti editoriali, le lacune, le diverse emissioni di una medesima edizione e la legatura. Tutti elementi che evidenziano sia come si sono conservate le varie edizioni, sia i meccanismi di riproduzione a stampa dei singoli testi.
Per quanto indispensabile, questa ricognizione tuttavia non è stata che il punto di partenza, una fotografia per così dire di ciò che è materialmente sopravvissuto. Il vero pregio del lavoro di Barbero e Paolini sta infatti altrove: nell’essere riuscite a ricostruire per la prima volta la fortuna editoriale delle opere di Telesio, a raccontarne cioè la circolazione e il tipo di impatto.
Così, attraverso un minuzioso setaccio, hanno ripercorso la storia di ogni singolo testo, rivelandone i segni di possesso, la presenza di note marginali e di censura, di commenti, di rilievi critici e anche di piccole tracce di lettura. Informazioni preziose, che sono servite alle due studiose per inseguire il destino dei libri di Telesio dopo l’uscita dalla tipografia, per identificarne in moltissimi casi i nomi dei lettori e dei possessori, illustri e meno illustri, e per disegnare una mappa della loro diffusione, che meritava forse una rappresentazione grafica in grado di farne apprezzare anche visivamente la prospettiva spaziale.
Per avere un’idea dei notevoli risultati ottenuti da Barbero e Paolini, è sufficiente prendere in considerazione il De rerum natura iuxta propria principia, l’opera più importante per la conoscenza del pensiero di Telesio, dove l’autore proponeva una nuova immagine della natura in aperta polemica con la fisica di Aristotele.
Si viene così a sapere che l’editio princeps, pubblicata a Roma nel 1565 sotto l’attenta supervisione di Telesio, ebbe una circolazione piuttosto limitata, tanto da risultare «assente dalla maggior parte delle grandi biblioteche Sei e Settecentesche europee». E che fu con le due edizioni napoletane del 1570 e del 1586 che «il pensiero di Telesio quasi dilagò in Europa», soprattutto con quest’ultima, che può essere considerata «la vera princeps della fortuna filosofica telesiana». A decretarne il successo, anche sul piano commerciale, contribuì senz’altro la scelta lungimirante del suo stampatore Orazio Salviani, che nella primavera del 1587 - come hanno scoperto Barbero e Paolini - riuscì a presentarla e a venderla alla Fiera di Francoforte, il più grande mercato librario dell’epoca.
A partire dal 1586 dunque il De rerum natura di Telesio si diffuse a macchia d’olio, non solo in Italia, ma in tutta Europa: dalla Francia all’Inghilterra, dalla Germania all’Ungheria. E un ruolo decisivo lo svolse Gian Vincenzo Pinelli da Padova, dalla capitale cioè dell’aristotelismo. Mecenate e raffinato umanista, egli possedeva la più imponente e rinomata biblioteca dell’epoca, che era anche diventata un vivace luogo di incontro per studiosi italiani e stranieri. Ammiratore di Telesio, Pinelli aveva fatto apprezzare il De rerum natura ai numerosi visitatori che frequentavano la sua casa, come il celebre matematico inglese Henry Savile, che a sua volta lo aveva segnalato a Francis Bacon. Proprio quel Francis Bacon che avrebbe definito Telesio «il primo dei moderni».
Il libro è molto di più di un mero censimento delle edizioni antiche delle opere di Telesio: è un documentato e rigoroso affresco del loro impatto sulla cultura filosofico-scientifica della prima età moderna, che ci fa capire quanto ricchi e a volte inaspettati siano i modi in cui i lettori si appropriano dei testi.
* Le edizioni antichedi Bernardino Telesio: censimento e storia Giliola Barbero e Adriana Paolini, Les Belles Lettres, Parigi, pagg. 736, € 65
Al Telesio di Cosenza il professor Nuccio Ordine ricorda l’avvocato Gerardo Marotta
di Redazione *
Il prossimo lunedì 15 maggio, al Liceo Classico ‘Telesio’ di Cosenza la commemorazione di Gerardo Marotta, fondatore a Napoli dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
COSENZA - Nuccio Ordine, docente di letteratura italiana presso l’Università della Calabria, interverrà con una relazione sul tema: ‘La letteratura contro i fanatismi’. Lo stesso Ordine già qualche anno fa parlando di Marotta disse: «Negli anfiteatri della Sorbonne o nelle aule dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales a Parigi, nella biblioteca del Warburg Institute a Londra o nei corridoi dell’Institute Advanced Studies a Princeton, nella Freie Universitaet a Berlino o nelle sedi più diverse degli Istituti Italiani di Cultura, quando si parla dell’Avvocato si pensa immediatamente all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e al suo presidente, Gerardo Marotta. Nessuna ambiguità, nessuna possibilità di confusione nei circuiti culturali. Un po’ come accadeva con l’altro Avvocato nell’universo della finanza e dell’economia».
Il Dirigente Scolastico del Liceo Classico ‘Telesio, Antonio Iaconianni, ha così commentato: «In questi ultimi mesi la figura di Gerardo Marotta, straordinario promotore ed impresario di cultura del nostro tempo, è stata adeguatamente ricordata in ogni parte d’Italia, ma noi abbiamo pensato di fare un’operazione duplice, della quale ringrazio gli ottimi insegnanti del nostro Liceo ed in particolare la professoressa Antonella Giacoia. Da un lato abbiamo invitato a discutere con noi di questo grande uomo del Sud il prof. Nuccio Ordine, autore di fama mondiale e vicinissimo da sempre all’avvocato Marotta, e dall’altro abbiamo voluto che i destinatari di questo incontro fossero i nostri studenti, i giovani.
Siamo convinti - ha continuato il Dirigente Scolastico - che Gerardo Marotta abbia rappresentato un modello di studio, di impegno, di sacrificio, di cultura come vita e la sua lezione debba essere conosciuta dai nostri giovani. Marotta è stato anche un grande meridionale, amava tanto questo nostro Sud, e noi, qualche anno fa, abbiamo avuto il privilegio di averlo ospite nella nostra scuola, per la quale l’avvocato provava moltissimo affetto. Oggi - ha concluso Iaconianni - il ricordo si fa memoria e la perizia di Nuccio Ordine farà rivivere il caro avvocato Marotta tra i nostri banchi, tra i nostri studenti, affinché l’impegno di una vita possa trovare il giusto riconoscimento nella continuazione di un progetto culturale che sta alla base della nostra idea di scuola e di società».
la recensione
Il «folle» Campanella e la ricerca della libertà che avvicina a Dio
DI PIETRO PRESTERÀ (Avvenire, 11.06.2010)
È un saggio della giovane filosofa Ylenia Fiorenza, che ripercorre l’esistenza dell’io più intimo, il tratto più umano del frate domenicano di Stilo, Tommaso Campanella (1568-1639), che visse ventisette lunghi anni in carcere, sottoposto, infatti, a quattro processi, in quanto condannato di eresia e di aver fomentato una congiura contro il governo Spagnolo. Il ricordo e il valore di questo filosofo poeta, dopo 370 anni dalla morte, è vivo e ancora fa discutere e riflettere.
Uomo «folle e saggio», e più dettagliatamente «un Folle saggio un Saggio folle», come l’autrice del Volume ha voluto definire Campanella. La sua abilità nell’evasione, nel fuggire alla morte simulando la pazzia, per amore della vita e di portare a compimento quella che Campanella sentiva e assumeva come missione moralizzatrice e rinnovatrice, ovvero la capacità impeccabile, la passione audace di servirsi di uno strumento come la sublimazione, la poesia al fine di portare nel cuore dell’uomo e quindi alla comprensione più profonda ed incisiva, il mondo delle idee, sì, la sua metafisica, la sua filosofia della natura. Sono questi i tratti inconfondibili di Campanella.
Tratti colti e descritti a pieno dall’autrice di questo Libro dedicato a Campanella, quando dice: «È la forza immane del sapere dinanzi alla soglia dell’impeto battente, delle parole crude perché vere, vissute sulla linea di confine e di congiungimento, dove l’utopia e la forza morale combattono quella inevitabile lotta che ha come posta in gioco la libertà interiore».
Questa di Campanella, come afferma l’autrice Ylenia Fiorenza «è la storia di chi ha lottato per le proprie idee oltre la stessa speranza». Amare realmente la vita, con tutti i suoi dolori ed imprevisti richiede, come insegna Campanella, che si abbandoni con fede la propria disperazione nelle braccia di Dio. Ecco perché l’importanza non solo teorica, ma anche prettamente ’umana’ di questo volume, consente oggi di riprendere e approfondire sotto il profilo storico, culturale, filosofico ed etico anche questa problematica, del perché del dolore: identificare alla fine la legge della natura con Dio stesso, perché esprime la sua volontà ed i suoi ordinamenti in essa. Ascoltare la legge vuol dire, secondo Campanella, ascoltare Dio stesso. «L’esperienza di Campanella ci insegna che, quando si ha un concetto alto di Dio, di conseguenza si ha un concetto alto dell’uomo». «La follia non è altro che una logica intima e segreta - dice Fiorenza - volta a scoprire il volto ontologico della sapienza perché incarna e difende la dignità e la libertà di pensiero, la somiglianza con Dio... L’ignoranza allontana ciò che è vicino, mentre il sapere avvicina ciò che è lontano».
* Ylenia Fiorenza
QUEL FOLLE D’UN SAGGIO
Tommaso Campanella. L’impeto di un filosofo poeta
Città del Sole. Pagine 160. Euro 10
LA CITTA’ DEL SOLE:
GIOACCHINO DA FIORE NON RIATTIVO’ LA MEMORIA DELL’ALLEANZA SOLO A FRANCESCO D’ASSISI E A DANTE MA ANCHE E ANCORA A CAMPANELLA ....
"[...] il profeta dice: "Ci saranno cinque città in terra d’Egitto, che parleranno la lingua di Canaan, una sarà chiamata la ’Città del Sole’" (Is. 19, 18) .
Ma cos’è quell’unica città che è chiamata la "Città del Sole" (...) che ... mantiene la pace e l’unità con tutte le altre?"
(Cfr.: Gioacchino da Fiore, Sull’Apocalisse [Enchiridion super Apocalypsim], Trad. e cura di Andrea Tagliapietra, Feltrinelli, Milano 1994, p.303).
Federico La Sala
Tradire la Chiesa? Una follia
di Angelo d’Orsi (il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2012)
Sicché il buon Paolo Gabriele, per tutti Paoletto, una pasta d’uomo, gentile educato preciso efficiente, viene sottoposto a perizia psichiatrica. Colui che custodiva i segreti del pontefice di Roma, pazzo? Aveva un piano per restituire a Santa Romana Chiesa dignità e pulizia, vedeva Ratzinger circondato da gente pericolosa, sul punto di essere sopraffatto dalle forze del male... Lo scandalo si annidava nelle “sacre stanze”. E dov’è la rivelazione? Anche senza essere frequentatori di quegli ambienti, abbiamo tante volte avuto sentore che le cose non andassero poi così bene.
Pazzo, dunque? A quanto pare gli esiti di due perizie sono contrastanti: e anche se quella ordinata dalla Santa Sede sembra propendere per l’imputabilità di Paoletto, sta di fatto che quando si tocca la Chiesa nelle sue alte e altissime gerarchie, si rischia di passare per pazzi. O, da un altro punto di vista, si può pensare che il solo modo di salvarsi, non solo dal potere temporale, ma anche da quello spirituale, sia la follia.
Quanto al banchiere Gotti Tedeschi: pazzo anche lui? La perizia sulle sue capacità di intendere e operare - era addirittura a capo dello Ior - è stata piuttosto un escamotage: un tizio messo alle calcagna per studiare i comportamenti del “banchiere di Dio”, per poter giungere, a seguito di opportuna informativa alle autorità vaticane, all’esito sperato di dichiararlo inadatto a dirigere l’Istituto finanziario della Santa Sede. Sono pazzi, o comunque inabili a svolgere un certo ruolo, quando serve cacciarli, sani quando serve spedirli al fresco. Le perizie psichiatriche, naturalmente, non sono come quelle sulla caldaia a gas: scienza incerta, insomma, e quindi esiti pilotabili.
Eppure il rapporto tra Chiesa cattolica e follia è interessantissimo storicamente. Ci rimanda indietro nel tempo, alla Santa Inquisizione, quando si veniva indagati - e con quali sistemi! - se scritti, parole dette, gesti, comportamenti e costumi (anche nel senso dell’abbigliamento) potevano far insorgere anche il più tenue dubbio sulla ortodossia di un qualsiasi disgraziato, fosse esso un teologo che si poneva dei quesiti, un mugnaio che possedesse libri, una contadina che si appartava nel bosco ...
Il solo modo di sottrarsi alla condanna era dimostrare di essere pazzi. Allora, la perizia si chiamava tortura. In effetti gli inquisiti sovente simulavano la follia, per sottrarsi alle fiamme purificatrici della Santa Chiesa di Roma, la quale, come si sa, si limitava a bruciare i corpi, ed era pronta, benevolente, ad ammettere la possibilità per il condannato al rogo, di salvare la propria anima, attraverso il pentimento. Ossia, pentirsi non sempre era sufficiente a salvarsi, ma poteva per esempio risparmiare di finire tra le fiamme. Ossia, si finiva si arrostiti, ma dopo esser stati giustiziati. Una gran consolazione, in effetti: una sorta di cremazione dei cadaveri.
Ma se il pentito, dopo aver ammesso la sua colpa, veniva perdonato, e ricadeva in quello che benignamente si chiamava “errore”, beh, allora nessuna pietas per quel “relapsus”, ossia l’eretico fatto e finito. Per lui solo la pazzia conclamata poteva sospendere la pena di morte: bizzarra la giustificazione. L’imputato sano di mente anche “in articulo mortis” si può pentire guadagnando così il paradiso; invece, il colpevole condannato a morte, se colpito da follia, non ha modo di riflettere sulla propria colpa e pentirsi: sicché per lui si apriranno le porte dell’inferno. Insomma, era lecita la condanna a morte, ma non all’inferno, a cui soltanto Domineddio può condannare. Ora, pochissimi resistevano alle torture e, se non crepavano sotto i ferri o le funi, finivano per crollare, ammettendo le colpe.
La morte, si sa, è preferibile alla sofferenza estrema. Ma qualcuno resisteva. Il più celebre esempio è quello di Tommaso Campanella. Indicato come capo della congiura antispagnola di fine ‘500 in Calabria a Napoli, arrestato, fu imputato anche di eresia. Per mesi si finse pazzo, senza convincere gli inquisitori, che giunsero a spiarlo in cella. Infine, fu sottoposto alla tortura della “veglia”. Legato con le mani dietro la schiena, e appeso a una fune su una trave, con continui strattoni alla corda che provocavano slogamenti degli arti, e dolori intensissimi. La tortura durò circa quaranta ore, durante le quali l’imputato era interrogato, e di tanto in tanto veniva fatto scendere dalla corda e sedere su un cuneo, che gli lacerava le carni.
Eppure, quell’uomo forte di corpo come di spirito, continuò a simulare, ingannando i suoi aguzzini, che alla fine si accontentarono di condannarlo al carcere a vita. Uno dei manovali della tortura, poi, avrebbe raccontato di aver udito il Campanella, che veniva accompagnato al Maschio Angioino per scontare la pena, bofonchiare, beffardo: “Che si pensavano che io era coglione, che voleva parlare?”.
Campanella, la libertà tra le righe
Il pensatore in sospetto di eresia concluse la sua vita onorato alla corte di Francia, ma aveva trascorso circa trent’anni in carcere
Non poteva esprimersi apertamente, perciò si è molto discusso sul significato delle sue opere
di Michela Valente (Corriere della Sera, La Lettura, 01.04.2018)
«Dunque a diveller l’ignoranza io vegno», così si presentava Tommaso Campanella, il filosofo noto soprattutto per la sua opera utopistica, La Città del Sole, che scrisse nel 1602, vagheggiando una società più equa. Nel Novecento si contano centinaia di edizioni e traduzioni della Città del Sole, anche negli Stati del blocco sovietico, mentre alti prelati hanno rivendicato anche recentemente l’ortodossia cattolica di Campanella: ispiratore di una società comunista o buon teologo domenicano? Con il libro Tommaso Campanella (Laterza), Luca Addante ci guida nel labirinto di fini ricostruzioni documentarie, laboriosi scavi filologici, tortuose riabilitazioni e interpretazioni, spesso interessate, del pensiero campanelliano.
Campanella, figlio di un ciabattino, era nato a Stilo, nell’entroterra jonico calabrese, nel 1568 e chi oggi arrivi lì, con lo sguardo che avvolge gli ulivi resistenti, la montagna arsa e il mare che appare infinito, si chiede come un figlio di quella terra possa essere finito a Parigi, osannato, alla corte di Luigi XIII, un traguardo luminoso raggiunto però dopo aver trascorso più di trent’anni in carcere tra Napoli e Roma.
Giovanissimo era entrato nell’ordine dei domenicani e, sin dai primi anni di formazione, aveva attirato su di sé sospetti per il suo entusiasmo nei confronti della filosofia di Bernardino Telesio e per le sue frequentazioni pericolose: si accompagnava infatti con un ebreo e con dotti, come Giambattista Della Porta, non propriamente ortodossi. Sin da subito si scontrò con le ostilità e le resistenze della Chiesa, finendo in carcere. A nulla valsero i viaggi perché anche a Padova fu perseguito e quindi finì nelle celle inquisitoriali romane, dove incontrò l’eretico Francesco Pucci e Giordano Bruno.
Tornato a Stilo, nel 1599 Campanella provò a far «sollevar la Calabria»; fu infatti tra i promotori di una rivolta antispagnola, e ancora una volta fu arrestato e processato per ribellione politica ed eresia. In quell’occasione, per evitare la condanna capitale, Campanella si finse pazzo e il canone della pazzia ricorre nelle letture coeve e successive.
Tra alterne vicende, potendo godere di qualche minimo agio, rimase detenuto fino al 1626. Nonostante questa drammatica condizione, scrisse moltissimo e di tutto, dalla poesia, alla teologia, alla politica, alla filosofia naturale e le sue opere furono lette e tradotte in tutta Europa. Nella Repubblica delle lettere il nome di Campanella era noto, il più delle volte per le accuse di libertinismo e di eresia, e solo talvolta per gli elogi come filosofo audace. Campanella perorò la causa di Galileo Galilei e scrisse anche L’ateismo trionfato, un capolavoro nonostante l’autocensura e i cambiamenti imposti. Poi nel 1634, dopo aver trascorso altri anni di detenzione, fuggì in Francia, dove morì nel 1639.
Nella stagione risorgimentale, l’immagine di Campanella si trasformò: per alcuni interpreti, fu martire del libero pensiero e vittima della Chiesa di Roma, mentre per altri fu protosocialista. Al contempo, si presentava l’idea di un ravvedimento e quindi di una conversione di Campanella, tornato nel grembo della Chiesa. Nel corso dell’Ottocento Alessandro d’Ancona, Bertrando Spaventa e Luigi Amabile inaugurarono una nuova stagione di studi campanelliani, proseguita da Giovanni Gentile, da Luigi Firpo e infine da Germana Ernst: grazie a loro, di Campanella possono leggersi edizioni e traduzioni attendibili. Nel 1995 Germana Ernst ed Eugenio Canone hanno fondato una rivista, «Bruniana & Campanelliana», a testimoniare il grande interesse internazionale verso i due filosofi.
Ora per ricordare il filosofo a 450 anni dalla sua nascita, Luca Addante si cimenta con il mito, liberandolo da apologetica e polemica, senza indugiare e giudicare vincitori e vinti di una battaglia storiografica che si è combattuta e si combatte ancora. Nella penisola italiana schiacciata dalla Spagna, resistevano effervescenze di spirito e di ingegno: Campanella fu tra queste e in lui riaffiorano fiumi carsici della Riforma radicale declinati con lo spirito del tempo e con le nuove istanze filosofico-scientifiche.
La libertà e l’anelito a conquistarla sono la cifra di questo pensatore. Per sopravvivere, Campanella, come molti altri, convinto che «il secolo futuro giudicarà noi, perché il presente sempre crucifige i suoi benefattori», usò la simulazione, la maschera con la quale creò le sue opere, sollecitando a leggere tra le righe, come avrebbe detto qualche secolo dopo Leo Strauss, un altro che si trovò a scrivere in tempi non liberi.
Campanella in rivolta. Il filosofo della Calabria ribelle nel nuovo libro di Giovanni Brancaccio
di Aurelio Musi (L’identità di Clio, 12 Novembre 2019)
Intellettuale a dimensione europea, militante, calabrese: in questo trinomio può essere ben riassunta la straordinaria biografia di Tommaso Campanella. E il trinomio può ben essere la trama del volume di Giovanni Brancaccio, Calabria ribelle. Tommaso Campanella e la rivolta politica del 1599, che inaugura la nuova collana “Biblioteca di Storia” dell’editore milanese Franco Angeli.
Campanella fu uno dei più importanti intellettuali italiani tra Cinque e Seicento. Fu filosofo, poeta, analista politico acuto e raffinato, studioso di medicina, scrittore poligrafo capace di affrontare con rigore aspetti diversi della cultura del tempo. Fu anche un intellettuale militante, combattente, ma isolato nel contesto in cui visse: per questo Francesco De Sanctis lo definì, nella sua Storia della letteratura italiana, un “eroe solitario”, incompreso nel tempo-spazio in cui visse, e lo contrappose al più popolare Oliver Cromwell, leader della rivoluzione inglese. Di origine calabrese, precisamente nativo di Stilo, Campanella dedicò le sue energie intellettuali e politiche alla rivolta del 1599.
Calabria ribelle
L’opera di Brancaccio fonde i tre aspetti della personalità di Campanella qui identificati e rilegge l’intera sua opera in funzione della rivolta, sintesi del pensiero e dell’azione del filosofo. Si trattò di una vera insurrezione antispagnola, non solo di una congiura. Fu il frutto di un ben strutturato progetto. Fu il combinato disposto di ideologia, strategia di alleanze, partecipazione sociale. È questa, in sostanza, la tesi, ben motivata, dell’autore.
L’ideologia, che elaborò Campanella e costituì la bandiera, per così dire, del moto calabrese del 1599, fu una miscela di motivi astrologici e profetici, di antifiscalismo, antifeudalesimo e antispagnolismo, al fine di produrre una “mutazione di Stato” secondo l’espressione usata nel tempo o, meglio, secondo le parole del leader, una “repubblica comunista e teocratica”.
Il filosofo di Stilo pensò anche alle alleanze. Si rivolse non solo ai francesi, nemici degli spagnoli, ma anche a settori della Chiesa e delle sue gerarchie, persino ai turchi. Quanto alla partecipazione al moto, il leader seppe utilizzare il malcontento e i disagi di ceti e gruppi diversi, provocati dall’incipiente crisi economico-sociale che coinvolse l’intero Mezzogiorno e in particolare le province di Calabria Citra e Ultra, dalla pressione e gli abusi giurisdizionali del baronaggio, dall’aumento della tassazione statale che si abbatté sui sudditi del viceregno spagnolo. Parteciparono al moto calabrese segmenti della nobiltà e della borghesia professionale (medici e avvocati in particolare), predicatori e religiosi che si riconobbero nel profetismo, nello spirito apocalittico campanelliano e furono capaci di trasmetterlo ad ampi strati della società, soprattutto ai contadini.
La rivolta fallì per il concorso di più motivi: delazioni e tradimenti, l’attività di infiltrati, la pronta repressione, il venir meno dei presunti alleati.
Mediante una minuziosa cronaca degli eventi del moto, del processo politico, di quello religioso e della lunga detenzione inflitta a Campanella, il libro mostra come la rivolta del 1599 in Calabria fosse espressione di una ramificata sollevazione antispagnola e antifeudale, dotata di un suo concreto fondamento che non la confinava in un ambito puramente profetico: anche se le accese prediche del monaco sulla “fine del mondo e la renovatione del secolo”, sulle aspettative apocalittiche e millenaristiche ebbero un ruolo non secondario e fecero presa sulle popolazioni calabresi. La portata politica e sociale della rivolta è rimasta a lungo inesplorata proprio perché essa fu stroncata sul nascere. Ma preannunciò i giorni di Masaniello.
Quanto all’opera multiforme del Campanella, Brancaccio dimostra come essa fosse anche il frutto di una relazione intensa con la cultura europea, dimostrata peraltro dalla fitta corrispondenza che il filosofo intrattenne con i principali intellettuali del tempo.
Insomma “eroe solitario” sì, ma capace, insieme con altri “eroi solitari” come Barnardino Telesio e Giordano Bruno, di trasmettere, più ai posteri forse e meno ai contemporanei, la vitalità del pensiero e dell’azione del Mezzogiorno d’Italia nella storia europea.
“La Città del Sole” di Tommaso Campanella
da Letture.org
«A distanza di circa tre anni dagli eventi calabresi, recuperata la salute dopo sei mesi dallo strazio della tortura, in uno stato d’animo di rinnovata fiducia per essere riuscito a conservare la vita superando prove terribili, Campanella compone la sua operetta più famosa, la Città del Sole, che, come è stato acutamente detto, si configura al tempo stesso come il programma di un’insurrezione fallita e la sua idealizzazione filosofica. [...] Su una carta ancora bianca egli traccia la mappa, dalle linee al tempo stesso semplici e minuziose, della città che non c’è, «idea filosofica di repubblica» e «dialogo poetico», per suggerire criteri e norme di una comunità possibile in cui gli uomini possano vivere una vita più giusta e armoniosa [...].
La città sarà tanto più compatta e felice quanto più sarà un «corpo di repubblica». [...] la ‘repubblica’ è un organismo vivente, che deve mirare a preservare e incrementare la propria salute, anche fisica, e che come ogni organismo è composta da membra molteplici e diversificate per compiti e funzioni, ma tutte coordinate al benessere dell’insieme, condizione e orizzonte di quello delle singole parti.
Protetta e difesa da sette cerchia di mura, in cui sono accorpati i palazzi delle abitazioni, la città è collocata in un luogo dal clima ideale, che favorisca la sua salute fisica, e sulle pendici di un colle, perché l’aria sia più leggera e pura. Uno degli aspetti di maggior rilievo della comunità solare è la concezione e la distribuzione del lavoro. [...]
Per i Solari nessuna attività è vile o bassa, e ognuna ha pari dignità - anzi, sono più lodate quelle che richiedono maggior fatica, come la professione del fabbro e del muratore. Tutti devono conoscere ogni mestiere e poi ognuno pratica quello per cui mostra una più spiccata attitudine, e anche chi ha menomazioni fisiche contribuisce secondo le sue possibilità. I Solari non hanno schiavi, bastano a se stessi e nessun servizio è ritenuto indegno [...].
Grazie all’equa suddivisione del lavoro, è sufficiente che ognuno dedichi all’attività lavorativa quattro ore al giorno: ma è fondamentale che lavorino tutti, perché l’ozio degli uni si ripercuoterebbe sullo sfruttamento e la fatica degli altri [...]. Quanto ai beni e alla proprietà, i Solari non posseggono nulla, ma tutto è comune, dai pasti alle abitazioni, dall’apprendimento delle scienze all’esercizio delle attività, dagli onori ai divertimenti, dalle donne ai figli: vi è chi è preposto alla distribuzione di ogni cosa e sorveglia che ciò avvenga secondo giustizia, ma nessuno può appropriarsi di alcunché. [...].
Uno degli aspetti più spettacolari e immaginosi della Città del Sole, che colpì da subito i suoi lettori, è quello delle mura dipinte. I gironi non sono solo cerchi per racchiudere e proteggere la città, ma anche le quinte di uno straordinario teatro e le pagine di un’enciclopedia illustrata del sapere. [...] Le pareti dei loggiati dei palazzi sono «istoriate» con le immagini di tutte le arti e le scienze: a partire dal muro che regge le colonne del tempio e via via scendendo nei vari gironi, secondo l’ordine dei pianeti, da Mercurio a Saturno, incontriamo la raffigurazione del cielo e delle stelle, delle figure matematiche, di ogni paese della terra «con li riti e costumi e leggi loro», e quindi tutte le meraviglie e i segreti del mondo minerale, vegetale ed animale, per giungere agli uomini. Nel muro interno del sesto girone sono rappresentati «tutte l’arti meccaniche e l’inventori loro». [...]
Nel muro esterno sono rappresentati «tutti l’inventori delle leggi e delle scienze e dell’armi» - ed è qui che il Genovese, in «luogo molto onorato» (ma insieme a Mosè, Osiride, Giove, Mercurio e Maometto) riconosce Cristo e i dodici apostoli.
Il sapere non è racchiuso in libri conservati in luoghi separati come le biblioteche, ma è tutto squadernato sotto gli occhi di tutti: visualizzazione che favorisce un apprendimento più rapido (i Solari imparano in un anno quello che da noi si impara in dieci o quindici anni), più agevole e più efficace, in quanto connesso con l’arte della memoria, che insisteva sulla forza evocativa ed emotiva delle immagini. Fin dalla più tenera età i bambini percorrono, opportunamente guidati e seguendo corretti ritmi e itinerari, questo teatro del sapere e imparano gioiosamente, come per gioco, senza fatica e pena. Il Metafisico, capo politico e spirituale, deve essere il più sapiente di tutti. [...]
Oltre alla comunità dei beni e alle pareti dipinte, un altro aspetto caratterizza la città solare, ed è quello più difficile e sconcertante, che Campanella stesso presenta come cosa «dura e ardua»: la comunità delle donne. La soluzione adottata dai Solari riguarda un problema specifico, che è quello della generazione. [...]
L’atto generativo comporta un’enorme responsabilità da parte di chi genera, e se viene esercitato in modo scorretto può dar luogo a una lunga catena di sofferenze. [...] La generazione dovrà pertanto rispettare precise norme, e non essere affidata al caso né ai sentimenti individuali. I Solari infatti distinguono tra amore ed esercizio della sessualità. L’attrazione tra gli uomini e le donne (che è basata sull’amicizia e il rispetto più che sulla «concupiscenza ardente») si esprime in modi non privi di gentilezza, ma estremamente pudichi e molto lontani dalla sessualità. [...] La sessualità generativa (è contemplata, ma a un livello inferiore, anche quella esercitata «per delizia o per servire alla necessità», e in ogni caso «a nullo manca il necessario quanto al gusto») deve rispettare tutta una serie di disposizioni, concernenti soprattutto la combinazione di ‘accoppiamenti giudiziosi’ per doti fisiche e morali e la scelta dell’ora favorevole, stabilita dall’astrologia - che nella città solare gioca un ruolo di primo piano, in quanto è una sorta di orologio cosmico, che segnala i tempi opportuni per mettere in sintonia gli eventi umani con le adeguate figure celesti. [...].
Oltre che quello di generatrici, le donne hanno un ruolo importante nella città solare. Liberate dal peso della cura e dell’educazione individuale dei figli, esse esercitano le stesse attività pratiche degli uomini, evitando solo quelle più faticose, apprendono le scienze speculative e possono dedicarsi alle arti, come la pittura e la musica. Campanella non le esclude neppure dall’esercizio delle armi, a scopi ausiliari e difensivi. [...]
La religione solare (che pur riconosce princìpi fondamentali del cristianesimo quali l’immortalità dell’anima e la provvidenza divina) è una religione naturale che stabilisce una specie di osmosi con il cielo e gli astri. Il tempio è aperto e non circondato da mura [...]. Sulla volta della cupola del tempio sono raffigurate le stelle con le loro corrispondenze con gli enti terrestri; l’altare, che è unico e sul quale vi sono, affiancati, solo i due globi del cielo e della terra, è a forma di sole; le preghiere sono rivolte al cielo; il compito dei ventiquattro sacerdoti che vivono in celle collocate nella parte più alta del tempio - che è così anche una sorta di osservatorio astronomico - è quello «di guardar le stelle e notare con astrolabi tutti li movimenti loro e gli effetti che producono»: essi «dicono l’ore della generazione e li giorni del seminare e raccogliere, e serveno come mezzani tra Dio e gli uomini». [...]
Già in queste pagine Campanella ha imboccato quella strada che percorrerà nel tempo, comunicando quell’intuizione che andrà sviluppando e perfezionando: fra natura e religione non c’è conflitto e antagonismo, ma continuità e armonia [...]. Il problema più delicato riguarda il rapporto fra cristianesimo e religione naturale. Anche a questo proposito, Campanella non esita ad affermare che non c’è contrasto fra i due livelli: il cristianesimo, espressione della razionalità divina, non può che coincidere con la religione naturale, e l’aggiunta dei dogmi e dei sacramenti non ha il fine di distruggere la natura, bensì di perfezionarla.»