TERRORISMO
Osama Bin Laden ucciso in Pakistan
Obama: "Giustizia è fatta"
L’annuncio degli Usa a dieci anni dagli attentati dell’11 settembre.
Il leader di Al Qaeda sarebbe stato colpito in un’azione con truppe di terra fuori Islamabad, insieme al figlio e ad altri terroristi e membri della famiglia.
Grande folla fuori la Casa Bianca per festeggiare la notizia
dal nostro inviato ANGELO AQUARO *
NEW YORK - Osama Bin Laden è morto. Barack Obama si presenta in tv nel cuore della notte per annunciare all’America e al mondo che l’incubo è finito. Dieci anni dopo. La mente dell’11 settembre non c’è più. L’America ha un corpo. La prova. Il presidente degli Stati Uniti annuncia a sorpresa una dichiarazione domenica notte. "Una settimana fa le informazioni di intelligence si sono fatte decisive e oggi ho dato il mio ordine".
Obama è risoluto. La scelta di uccidere Osama è sua. "Avevo già detto appena diventato presidente al capo della Cia Leon Panetta che il nostro compito era quello di prendere Osama Bin Laden: vivo o morto". Osama è morto. È morto con un colpo alla testa, ucciso da soldati americani. È stato un piccolo team ad agire: un’azione durata quaranta minuti in un accampamento ad Abbotabad, alle porte di Islamabad. Insieme a Bin Laden sono stati uccisi anche altri tre guerriglieri di Al Qaeda. Uno è il figlio di Osama. C’erano alcune donne: una è stata uccisa, due sono rimaste ferite.
Un’operazione delle forze speciali in Pakistan. Un territorio in cui gli Usa non avrebbero potuto agire. Obama lo chiarisce. Dice: "Ho sempre detto che avremmo colpito in Pakistan se avessimo avuto le informazioni necessarie per individuare Bin Laden". E poi aggiunge che ha parlato con il presidente pachistano Asif Ali Zardari che ha manifestato il suo assenso. Probabilmente dopo però. Obama non lo chiarisce ma questa è un’operazione made in Usa. Gli Stati Uniti sono andati a riprendersi il mostro. E hanno colpito quando hanno deciso. "È un messaggio senza possibilità di errori di interpretazione: l’America colpisce" dice Obama. La gente davanti alla Casa Bianca è in visibilio. Urla, grida, l’inno che rimbalza di voce in voce. È la storia che si fa davanti agli occhi di tutti. E la gente applaude a Barack che si intravede dalla Casa Bianca.
È primo maggio in tutto il mondo tranne che in America: qui la festa del lavoro si festeggia a settembre. Ma Barack Obama stravolge la notte di domenica per annunciare al suo popolo la notizia più bella. Bin Laden è morto. L’annuncio che avrebbe voluto dare George W. Bush lo dà il primo presidente nero il cui nome - Obama - riecheggia per l’ironia di tutta la destra retrogada il nome del capo del terrore.
L’annuncio della comunicazione della Casa Bianca arriva a sopresa. La parola chiave è quella: ucciso. Il mondo l’ha trovato: individuato. L’ha colpito. Non è rimasto ucciso dalla malattia che lo perseguitava. È stato ucciso. Dieci anni di guerra - la campagna senza fine - ritrovano un senso in questa notte di domenica in cui tutto sembra finalmente tornare. Primo maggio 2011. È la storia che si compie nell’anniversario di quella tragedia dopo cui nulla fu più come prima. Mentre a Ground Zero quella che si chiamava Freedom Tower - la torre nata dalle macerie di Ground Zero - continua ad innalzarsi verso il cielo. Ed è già l’edificio più alto di Dowtonwn.
Il corpo del capo di Al Qaeda è nelle mani degli americani. Il presidente non si sarebbe lanciato in un annuncio del genere se non avesse avuto le prove. E la prova è quel corpo che adesso Obama possiede. Dieci anni dopo. Tremila morti a Ground Zero. Migliaia di morti tra l’Iraq e l’Afghanistan. Le stragi di Bali, Madrid, Londra. Le stragi in mezzo mondo. Osama Bin Laden è morto. Barack Obama può annunciarlo al mondo. Le autorità americane precisano che "il cadavere viene conservato secondo le modalità della religione islamica". Non è una guerra contro l’Islam: Obama lo ripete. Ma la preoccupazione, adesso, è per le reazioni: come risponderanno le cellule attive in tutto il mondo alla notizia? Cosa dobbiamo aspettarci? Ecco perché il Dipartimento di stato avvisa subito gli americani in mezzo mondo: lasciare i paesi a rischio. Allontanarsi dalle zone più pericolose. Ma sono pensieri che nessuno, adesso, vorrebbe affrontare.
Osama sarebbe stato ucciso in un blitz della Cia con truppe di terra con l’ausilio di soldati e intelligence pakistani in Pakistan. Di più. Addirittura nella capitale di quell’alleato riluttante con cui da dieci anni gli americani hanno un rapporto di collaborazione e diffidenza. Obama sarebbe stato ucciso durante un attacco delle forze di quella Cia spesso accusata di muoversi un po’ troppo fuori dalle righe. Non solo Osama. Anche altri familiari sarebbero stati uccisi durante il blitz. Per la Cia si tratterebbe di una vittoria strepitosa. Spettacolare. Proprio mentre il capo Leon Panetta si appresta a sedere sulla poltrona di Bob Gates al Pentagono. Da capo delle spie a capo della Difesa. Il capo delle spie che riesce in quello in cui il capo della difesa ha fallito. Con due guerre. Afghanista e Iraq.
Negli Usa l’entusiasmo è alle stelle. Prima ancora che Obama facesse il suo annuncio la notizia si è diffusa per tutta Washington. "U-S-A! U-S-A!" urla la gente che si è riunita spontaneamente davanti alla Casa Bianca. Le tv. I siti Internet. Le radio. La notizia si è diffusa rapidamente per tutta l’America. Bin Laden è ucciso. Dieci anni di paura. E oggi la festa.
Il mito della caverna e la caverna del mito, continua la lotta
Il mito della caverna e la caverna del mito. Osama, Obama, il nemico e il salvatore del mondo. La bara del demonio, l’antico mare, i Servizi americani. Gli Usa hanno bisogno dello spettacolo e del ridicolo, per celebrarsi e promuovere il nuovo corso, di cui prova inconfutabile sarebbe la riforma sanitaria del presidente democratico.
di Emiliano Morrone *
La Cia ha dichiarato che Bin Laden era nella sua villa blindata in Pakistan, prima della morte. Ricercato e bombardato ovunque, era una specie di Riina, per la bravura a nascondino. Stava quieto dentro al forte, ci racconta la stampa planetaria. Da lì, allora, diramava i suoi messaggi in video: "morte agli infedeli" e appelli alla lotta religiosa.
Bisognerebbe sapere quanti statunitensi, magari distrutti dalla crisi o costretti al lavoro disumano con paghe da miseria, sono disposti a crederci.
Il liberismo culturale imposto dai dominatori della Terra è, anzitutto, sorgente e mezzo della menzogna. La persuasione si realizza, scandirebbe Chomsky, grazie agli oligopoli dell’informazione.
Alla fine, ogni costruzione inverosimile, tipo l’azione intelligente contro Osama, diventa verità rivelata. Di default. Guai agli obiettori. Il meccanismo, e non il soggetto cinematografico, è uguale nella vicenda a luci rosse della nipote di Moubarak.
Il pensiero liquido che pensiamo - per rammentare una formidabile analisi di Gaetano Mirabella sulla perdita di centralità e identità dell’utente web - è funzione dell’antropologia e ontologia degli individui, persi in un’oceano di notizie e stimoli virtuali. Ma, questo pensiero, rassegnato, è anche il risultato del massacro nel lavoro: disoccupazione, precarietà, sfruttamento; i problemi di un’Italia priva, ormai, di sindacati. Tranne Fiom.
Nel contesto, drammaticamente reale, ci sono due strade: l’alternativa culturale e la piazza. A oltranza.
Il Mostro di Al Qaeda
di Barbara Spinelli (la Repubblica, ,04.05.2011)
Festeggiata con grida di trionfo negli Stati Uniti, l’uccisione di Bin Laden crea nelle menti più sconcerto che chiarezza, più vertigine che sollievo.
La storia che mette in scena somiglia ben poco a quel che effettivamente sta accadendo nel mondo: è parte di una guerra contro il terrore che gli occidentali non stanno vincendo in Afghanistan, e da cui vorrebbero uscire senza aver riparato nulla. È un’operazione che rivela la natura torbida, mortifera, dell’alleanza tra Usa e Pakistan: una potenza, quest’ultima, che usa il terrorismo contro Afghanistan e India, e che per anni (cinque, secondo Salman Rushdie) ha protetto Bin Laden. Che lo avrebbe custodito fino a permettergli di costruirsi, a Abbottabad, una casa-santuario a 800 metri dal primo centro d’addestramento militare pakistano.
Ma l’operazione nasconde due verità ancora più profonde, legate l’una all’altra. La prima verità è evidente: Bin Laden era già morto politicamente, vanificato dai diversi tumulti arabi, e la cruenza della sua esecuzione ritrae un Medio Oriente e un Islam artificiosi, datati, che ancora ruotano attorno a Washington. Il terrorismo potrebbe aumentare, anche se l’America, che ha visto migliaia di connazionali morire nelle Torri Gemelle, gioisce comprensibilmente per la giustizia-vendetta. Come in M - Il mostro di Düsseldorf l’assassino è stato punito, ma l’ultima scena manca: quella in cui una mano potente agguanta il colpevole, lo sottrae alla giustizia sommaria, lo porta in tribunale. La parola che sigilla il film di Fritz Lang è: «In nome della legge». È la formula performativa che non s’è sentita, a Abbottabad. Con i nostri tripudi avremo forse contribuito alla trasfigurazione di M - il mostro di Al Qaeda.
Oltre che morto politicamente Bin Laden era divenuto irrilevante, prima di essere ucciso. La sue cellule gli sopravvivono, non avendo in realtà bisogno d’un capo per agire. Ma il suo desiderio di forgiare l’Islam mondiale era già condannato. Il mondo arabo e musulmano sembra aver imboccato una via, dal dicembre 2010, che rompe radicalmente con la visione che egli aveva dell’Islam, dell’indipendenza e dignità araba, della democrazia occidentale. La rivoluzione araba è cominciata con un evento, in Tunisia, che lui avrebbe ripudiato: la decisione di un giovane arabo di protestare contro il regime uccidendo se stesso, non seminando morte come un kamikaze, immaginando l’inferno fuori di sé.
Il terrorismo come metodo emancipatore non ha più spazio nelle cronache odierne, perché il suo obiettivo strategico è percepito da milioni di arabi come la radice stessa del male: come atto che espropria di potere il cittadino ordinario, che lo trasforma in uomo nudo, infantilizzato, mosso da paura. Seminando panico, l’atto terrorista congela l’emancipazione dal basso, proprio perché agisce in nome del popolo, non con il popolo. Gran parte dell’Islam non seguì questa via, dopo l’11 settembre, e meno che mai condivise il sogno di un califfato teocratico mondiale, che Bin Laden coltivava. Le sommosse arabe lo hanno ucciso prima degli americani, con le proprie forze e i propri martiri: in Tunisia, Egitto, Yemen, Siria, Marocco, Libia. Le piazze non si sono risvegliate grazie a lui, per il semplice motivo che Bin Laden non aveva scommesso sul loro risveglio ma sul loro sonno, e il più delle volte sulla loro morte (Al Qaeda ha ucciso più musulmani che non-musulmani, secondo uno studio pubblicato nel dicembre 2009 dal Combating Terrorism Center di West Point).
La seconda verità è strettamente connessa alla prima, e concerne le guerre americane ed europee posteriori all’11 settembre. Terrorismo e guerre imperiali al terrore sono stati in tutti questi anni fratelli gemelli, e insieme barcollano. Si sono nutriti a vicenda, fino ad assomigliarsi. La guerra al terrore che oggi vince una delle sue battaglie è la stessa che ha prodotto Guantanamo e Abu Ghraib: le prigioni senza processi, la tortura banalizzata. Una volta abbattute le frontiere del possibile, scrive Clausewitz, è difficilissimo rialzarle: e infatti Obama non ha avuto la forza di chiudere Guantanamo. Forse non ha neppure rinunciato alla tortura, come ha lasciato intendere il portavoce del dipartimento di Stato Philip Crowley prima di dimettersi, il 13 marzo scorso. Lunedì, alla Bbc, Crowley non ha escluso che sia stata usata la tortura, per estrarre dai detenuti di Guantanamo informazioni sul rifugio di Bin Laden. Alla vigilia delle dimissioni aveva parlato di torture e maltrattamenti del soldato Manning (colpevole d’aver fornito documenti a WikiLeaks) inflitte nella prigione di Quantico in Virginia. Senza attendere il processo Obama ha detto, il 21 aprile: «Manning ha infranto la legge».
Fred Halliday, il compianto studioso del Medio Oriente, ha scritto nel 2004 che la nostra modernità ha al suo centro questa complicità fra terrorismo e esportazione della democrazia dall’esterno: «Ambedue hanno imposto con la forza le proprie politiche e le proprie visioni a popoli ritenuti incapaci di proteggere se stessi, proclamando le proprie virtù storiche mondiali, richiamandosi a progetti politici che solo loro hanno definito». Halliday concludeva: «Il terrorismo può essere sconfitto solo se quest’arroganza centrale (evidente nel colonialismo di ieri come nel terrorismo di oggi, ndr) viene superata» (Opendemocracy, 22-4-04).
Ambedue le violenze sui popoli (terrorismo e guerra al terrorismo) sono figlie di ideologie apocalittiche che della realtà non si curano. I popoli che dovevano esser «salvati» hanno dimostrato di voler vigilare su se stessi senza voce del Padrone. Anch’essi sono pronti a morire, ma senza glorificare la morte come i kamikaze. Senza quello che Unamuno chiamò, durante la guerra civile spagnola, il «grido necrofilo» di chi sceglieva come motto «Viva la muerte!». L’uccisione di Bin Laden è un’ennesima salvezza venuta da fuori, che chiude gli occhi.
Eppure è venuto il momento di aprire gli occhi, anche per gli europei che usano seguire l’America senza discutere. Di capire come mai la potenza Usa ha attratto su di sé tanto odio. Quel che è perverso nell’odio, infatti, è che esso nasconde sempre una dipendenza, una segreta ammirazione, un bisogno dell’altro, idolo o Satana. La guerra al terrorismo non comincia l’11 settembre 2011, così come la prima guerra mondiale non comincia con lo sparo a Sarajevo. Comincia nella guerra fredda, quando Washington decide di combattere l’espansione sovietica con ogni mezzo: aiutando regimi autoritari, e anche finanziando e aizzando il radicalismo islamico in Afghanistan.
Non dimentichiamolo, mentre ascoltiamo Obama che annuncia di aver voluto «consegnare Bin Laden alla giustizia» (bring to justice) nel preciso momento in cui invece lo faceva giustiziare. Durante la guerra sovietica in Afghanistan, Reagan chiamava i mujaheddin non jihadisti ma freedom fighters, combattenti per la libertà. Eppure si sapeva che erano terroristi e basta. In un’intervista al Nouvel Observateur, il 15-1-98, il consigliere per la sicurezza di Carter, Brzezinski, racconta come Washington aiutò i jihadisti contro il governo prosovietico di Kabul, nel luglio ’79, sei mesi prima che l’Urss intervenisse. L’intervento del Cremlino fu scientemente forzato «per infliggergli un Vietnam» politico-militare. Brzezinski non rimpiange l’aiuto ai futuri terroristi, e al giornalista esterrefatto replica: «Cos’ha più peso nella storia del mondo? I Taliban o il collasso dell’impero sovietico? Qualche esagitato musulmano o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda?».
Sono dichiarazioni simili a creare sconcerto, vertigine. Tanti morti - a New York, Madrid, Londra, e in Tanzania, Kenya, Indonesia, India, Pakistan - quanto pesano, nei Grandi Disegni delle potenze? Valgono l’esecuzione d’un sol uomo? Sono solo qualcosa di politicamente utile? Parole come quelle di Brzezinski erano ricorrenti nel comunismo: nelle democrazie sono veleno. E se così stanno le cose, perché ci hanno detto che la guerra contro qualche esagitato terrorista musulmano era la cruciale, l’infinita, la madre di tutte le guerre? Bin Laden era il mostro di Frankenstein che ci siamo fabbricati con le nostre mani: negli anni ’70-’80 pedina di vasti giochi euro-russi, nel XXI secolo nemico esistenziale.
I giovani protagonisti delle sommosse arabe chiedono ben altro: non un nemico esistenziale (lo hanno avuto per decenni: erano l’America e Israele), ma costituzioni pluraliste, leggi uguali per tutti, separazione dei poteri. Non è detto che riescano: il dispotismo li minaccia, cominciando da quello integralista. Ma per difenderci dal demone di Frankenstein non possiamo sperare che in loro.
Giustizia, vendetta e spettro del Nemico
di Ida Dominijanni (il manifesto, 03.05.2011)
«Vivo o morto» fu il grido di guerra lanciato da George W. Bush contro Osama Bin Laden all’indomani dell’11 settembre, con annessa taglia di 25 milioni di dollari. Di chiara marca texana, il grido e la taglia annunciarono l’eclissi del lo stato di diritto sotto le macerie delle Torri gemelle. Nel lessico dello stato di diritto, a differenza che nel vocabolario da Far West, vivo o morto non è la stessa cosa: ne va del confine fra la giustizia e la vendetta. Prenderlo vivo, Osama Bin Laden, e consegnarlo a un tribunale, avrebbe aiutato il difficile processo di elaborazione della vulnerabilà impressa sullo spirito pubblico americano dalla ferita dell’11 settembre; annunciarlo morto, aiuta viceversa a suturare quella ferita con un rigurgito di potenza (come dimostra l’improvviso slittamento di senso subito nelle piazze in festa dallo slogan obamiano «Yes we can»). A onta delle parole del Presidente, dunque, più che giustizia è fatta vendetta; il che getta un’ombra sulla festa, e rischia di rievocare gli «spiriti animali» dell’era Bush proprio nel momento in cui la morte di Bin Laden ne sigla simbolicamente la conclusione, già consumata politicamente con l’elezione di Obama e con la sua svolta nei confronti del mondo arabo e islamico.
Giustamente si osserva da più parti che l’eliminazione di Bin Laden avviene quando già la «primavera democratica» nordafricana - a sua volta debitrice dello storico discorso di Obama al Cairo nel 2009 - ha decretato la sconfitta del suo progetto, la crisi della sua organizzazione, l’obsolescenza della sua icona. Ma le icone hanno la loro importanza simbolica aldilà della loro fungibilità immediata, e che l’icona del capo di Al Quaeda si sia rotta resta un fatto simbolicamente rilevantissimo aldilà della sua perdita di influenza politica. Bin Laden - un nome che Jacques Derrida soleva scrivere fra virgolette, a significare appunto la potenza dell’icona a prescindere dall’uomo, e perfino dalla sua esistenza reale - non è stato solo il leader della rete terrorista globale che ha mostrato la vulnerabilità della più grande potenza mondiale e tenuto in scacco per un decennio le democrazie occidentali. Pura e ieratica sembianza senza Stato e senza indirizzo, intermittente apparenza mediatica fatta di videomessaggi, incombente presenza virtuale più forte della malattia che lo logorava, il principe saudita ha è stato per dieci anni l’incarnazione del «fantasma fondamentale» dell’inconscio geopolitico occidentale traumatizzato dalla fine del mondo bipolare: il fantasma del Nemico imprendibile e sempre ritornante, lo spettro a cui non smettere di dare la caccia. Non importa che sia vivo o morto, quel che importa è che gli daremo la caccia, diceva Bush con la sua taglia; non importa che io sia vivo o morto, quel che importa è che il mio fantasma continui a incombere sull’America, rispondeva Bin Laden con le sue periodiche apparizioni virtuali.
Quanta potenza e quanta violenza reali quel fantasma sia stato capace di muovere lo sappiamo dalla contabilità delle guerre - «permanenti», «infinite», «preventive» - che in suo nome sono state condotte. Ed è alla potenza del fantasma e della caccia al fantasma che il cadavere di Bin Laden oggi mette fine. L’icona si è rotta; la caccia è finita. Che ne sarà, della politica dell’occidente, senza quel fantasma? Guerre, politiche securitarie, controlli pervasivi di polizia, gabbie di Guantanamo: tutto questo dovrebbe di conseguenza svanire. Salvo riprodurre lo spettro per clonazione: dev’essere per questo che in tanti si precipitano a dire che Bin Laden non c’è più ma il pericolo resta anzi si aggrava: morto un fantasma se ne fa un altro, morto un nemico se ne trova un altro. Il nuovo banco di prova della discontinuità di Obama dall’era Bush sta qui, in una politica che del fantasma del Nemico sappia fare a meno, e che, uccisa l’icona,tolga di mezzo rapidamente pure i detriti.
L’amaca
di Michele Serra
in “la Repubblica” del 4 maggio 2011
Per un miscredente come me, desta una certa impressione accorgersi che nei commenti a caldo sull’esecuzione del genocida Bin Laden la sola voce che senza esitazione ha ammonito a "non esultare" di fronte alla morte di un uomo è stata quella della Chiesa romana.
Non sono tra quelli che hanno esultato. Per non farlo, non avevo necessità di altra autorità se non quella del mio giudizio e - non so dirlo altrimenti - del mio imbarazzo. Eppure nei commenti ufficiali, anche quelli dei politici per i quali voto, non ho trovato uguale immediatezza, e forza, nel ricordare che ogni morte, anche quella di Caino, suggerisce di chinare il capo e fare silenzio.
Non credo affatto che per vivere umanamente e per provare compassione sia indispensabile essere credenti. Proprio per questo, mi fa specie constatare che la Chiesa abbia così facilmente (e meritatamente) esercitato una sorta di monopolio della pietà e della compostezza. Voci laiche di uguale autorevolezza si sono udite, ma erano sperse e individuali. Né l’umanitarismo socialista né la compostezza borghese possiedono più un pulpito e un’organizzazione culturale e politica tali da essere in grado, in circostanze così decisive, di orientare gli animi, e dare sostanza collettiva ai sentimenti individuali. La voce della Chiesa non è la mia, ma l’ho udita, nelle ore della fine di Osama, con rispetto e gratitudine.
DOCUMENTO
"Giustizia è fatta, ma non siamo in guerra con l’Islam"
BARACK OBAMA
Buona sera. Stanotte posso riferire agli americani e al mondo che gli Stati Uniti hanno condotto una operazione che ha ucciso Osama bin Laden, leader di al Qaeda e terrorista responsabile della morte di migliaia di uomini, donne e bambini innocenti.
Sono passati quasi dieci anni da quando un luminoso giorno di settembre è stato oscurato dal peggiore attacco al popolo americano della storia. Le immagini dell’11 settembre sono impresse a fuoco nella memoria della nazione - gli aerei dirottati che attraversano un cielo di settembre senza nuvole; le Twin Towers che crollano al suolo; fumo nero che si leva dal Pentagono; i rottami del volo 93 a Shanksville, in Pennsylvania, in cui le azioni di eroici cittadini hanno risparmiato uno strazio ed una distruzione ancora maggiori.
E tuttavia sappiamo che le immagini peggiori sono quelle che non furono viste dal mondo. Il posto vuoto a tavola. Bambini che obbligati a crescere senza la propria madre o il proprio padre. Genitori che non conosceranno mai l’emozione di essere abbracciati dai propri figli. Quasi tremila cittadini che ci sono stati portati via, lasciando uno squarcio nei nostri cuori.
L’11 settembre del 2001, nel nostro momento di dolore, gli americani si sono uniti. Abbiamo offerto una mano ai vicini di casa e il nostro sangue ai feriti. Abbiamo riaffermato i nostri legami gli uni con gli altri e l’amore per la nostra comunità e per la nostra nazione. Quel giorno, non importa da dove venivamo, quale Dio pregavamo, o a quale razza o etnia appartenessimo, fummo uniti come un’unica famiglia americana.
Fummo anche uniti nella decisione di proteggere la nostra nazione e portare davanti alla giustizia chi aveva commesso questo brutale attacco. Scoprimmo presto che gli attentati dell’11 settembre erano stati portati avanti da al Qaeda - - un’organizzazione capeggiata da Osama bin Laden che aveva apertamente dichiarato guerra agli stati Uniti e si era dedicato ad uccidere innocenti nella nostra nazione e intorno al globo. E quindi andammo in guerra contro al Qaeda per proteggere i nostri concittadini, i nostri amici e i nostri alleati.
Negli ultimi dieci anni, grazie all’infaticabile ed eroico lavoro dei nostri professionisti militari e dell’antiterrorismo, abbiamo fatto grandi passi avanti in questo sforzo. Abbiamo fermato attacchi terroristici e rafforzato la difesa del nostro territorio. In Afghanistan, abbiamo rimosso il governo talebano che aveva dato a bin Laden e al Qaeda rifugio e supporto. E intorno al mondo, abbiamo lavorato con i nostri amici per catturare o uccidere dozzine di terroristi di al Qaeda, inclusi alcuni di coloro che ebbero parte nella cospirazione dell’11 settembre.
Tuttavia Osama bin Laden evitò cattura e sfuggì in Pakistan attraverso il confine afghano. Nel frattempo, al Qaeda ha continuato ad operare da lì e attraverso i suoi affiliati nel mondo.
E così poco dopo aver preso questo incarico, ho indirizzato Leon Panetta, il direttore della Cia, affinché facesse dell’uccisione o della cattura di bin Laden la priorità numero uno nella nostra guerra contro al Qaeda, pur portando contemporaneamente avanti i nostri sforzi più ampi per bloccare, smantellare e sconfiggere la sua rete.
Quindi, lo scorso agosto, dopo anni di scrupoloso lavoro della nostra intelligence, sono stato informato di una possibile traccia per arrivare a bin Laden. Era ben lontano da essere una certezza e ci sono voluti molti mesi per dare concretezza a questa traccia. Mi sono incontrato ripetutamente con il mio team della sicurezza nazionale, man mano che sviluppavamo più informazioni riguardo alla possibilità che avessimo identificato il luogo dove si nascondeva bin Laden all’interno di un complesso all’interno del Pakistan. E alla fine, la scorsa settimana, ho stabilito che avevamo abbastanza informazioni per agire e ho autorizzato una operazione per prendere Osama bin Laden e assicurarlo alla giustizia. [... SEGUE ...]
Traduzione a cura di Marina Palumbo (Agb)
Giustizia beffata.
di RAR *
Obama: «Abbiamo ucciso bin Laden»
Il presidente: «Giustizia è stata fatta»
(Il Messaggero del 2maggio 2011)
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Direi piuttosto “Giustizia è beffata”
Ucciso (o giustiziato) lo sceriffo del terrore, il solo che avrebbe potuto chiarire i tantissimi dubbi che, ancora oggi, avvolgono i fatti tragici dell’11 settembre.
Anche Saddam venne processato, ma solo per i primissimi reati, mentre ancora pendevano su di lui ben altre accuse; avrebbe esercitato il diritto alla difesa coinvolgendo alleati occulti ?
Non possiamo saperlo perché venne impiccato e azzerate le altre accuse e “la giustizia fu beffata.”
E’ sparita dalla circolazione Aprile Glaspie, al tempo ambasciatrice USA a Baghdad, che, secondo fonti arabe, avrebbe dato il via libera, da parte della Casa Bianca di Bush padre, a Saddam circa l’invasione del Kuwait; fu una vera trappola per Saddam, perché fornì l’occasione per l’intervento militare USA che scatenò la prima guerra del golfo. Si è cercato di smentire le voci di un tale assenso, ma le stesse smentite non possono negare che l’amministrazione Bush-padre, fosse al corrente del progetto di Saddam.
Vedi:
· http://www.blitzquotidiano.it/cronaca-mondo/wikileaks-usa-invasione-kuwait-iraq-699593/)
· http://www.reportonline.it/2010102643250/cronaca/condanna-a-morte-per-tarak-aziz.html
· http://www.giornalettismo.com/archives/108091/quando-saddam-hussein-salutava-cordialmente-bush-padre/
· http://ilcomplottista.splinder.com/post/746390
· http://archiviostorico.corriere.it/2008/marzo/22/SADDAM_KUWAIT_PRIMA_GUERRA_DEL_co_9_080322043.shtml
E’ stata più volte minacciata la pena di morte anche per Tarak Aziz, allora il n. 2 del regime iracheno, ma uomo moderato, certamente non implicato nelle manovre di Saddam.
Vedi i seguienti articoli, mai smentiti.
· (http://www.ildialogo.org/esteri/Commenti_1288125128.htm)
· http://www.blogsicilia.it/blog/condanna-a-morte-per-tarek-aziz/12153/
· http://www.reportonline.it/2010102643250/cronaca/condanna-a-morte-per-tarak-aziz.html
· http://www.perlulivo.it/forum/viewtopic.php?f=6&t=1113
· http://www.ildialogo.org/esteri/atta21072008.htm
· http://www.altrestorie.org/print.php?news.559
E’ così che la pena di morte viene comminata per far tacere; è così che gli USA, gravati dal peso di amministrazioni gestite dalla dinastia Bush, evita di processare se stessa e restituire al mondo la verità, senza la quale non sarà mai possibile ricominciare a sperare in un mondo diverso.
Sarà messo a tacere anche Gheddafi, mentre si ipotizza un processo a carico di Mubarak e Ben Alì, per delitti contro l’umanità, con la previsione della pena capitale.
Il silenzio deve coprire i veri reati che hanno compromesso la pace nel mondo, per fornire le occasioni di illecito arricchimento con il commercio del petrolio e la fornitura indiscriminata di armi ed esplosivi.
L’Italia, dal momento dell’intervento militare nella guerra in Iraq, oltre a produrre finanziamento per 6,5 miliardi di dollari, a favore delle fallimentari imprese dell’allora presidente del consiglio Berlusconi , è diventata la seconda nazione al mondo produttrice ed esportatrice di armi; sono questi proventi, per miliardi di euro, che hannop garantito la tenuta dei conti, tanto vantata, come se si trattasse di meriti di questo governo. Anche la permanenza in Afghanistan è il viatico per proseguire nei commerci che vedono forniture di armi contro pani di oppio, con interessato coinvolgimento delle mafie planetarie.
* Rosario Amico Roxas