Verità e giustizia
di Loris Campetti (il manifesto,14.02.2012)
Nessuno restituirà la vita alle migliaia di persone uccise dall’amianto, operai e cittadini colpevoli solo di aver lavorato nelle fabbriche della morte, oppure di aver lavato le tute impregnate di veleno dei loro compagni, o di aver respirato in casa o al bar quelle maledette fibre. Una strage, a Casale Monferrato e nelle città di tutto il mondo in cui il miliardario svizzero Schmidheiny e il barone belga de Cartier hanno ucciso e intossicato in nome di un profitto che sapevano fondarsi sul sangue di tanta povera gente.
Nessuno restituirà il sorriso a chi ha perso il marito o il figlio, o l’uno e l’altro, in base al principio criminale per cui la salute e la vita di chi lavora sono variabili dipendenti del plusvalore, architrave dell’impresa capitalistica.
Eppure, la sentenza di condanna a 16 anni per disastro doloso e omissione dolosa di misure antinfortunistiche emessa ieri dal tribunale di Torino, ha un grandissimo merito: restituisce a intere comunità vittime dell’amianto il rispetto che meritano e, insieme, la fiducia se non in un futuro ormai intimamente compromesso, almeno nella giustizia.
Questa volta gli assassini non l’hanno fatta franca, uccidevano sapendo di uccidere e per questo sono stati condannati. Le lacrime di commozione di chi per anni ha lottato per avere non quel che aveva perso - e nessuna sentenza potrà restituirgli - ma verità e giustizia, mostrano la riappropriazione da parte di migliaia di persone del diritto a vivere ed elaborare il lutto più grande, sapendo però che la loro battaglia civile non è stata inutile.
Il Comitato familiari delle vittime dell’amianto ne aveva appena vinta un’altra di battaglia, costringendo il sindaco e l’amministrazione comunale di Casale a tornare sulla sua decisione intollerabile di accettare i soldi del carnefice, mister Eternit, il magnate Schmidheiny, a condizione di rinunciare alla costituzione di parte civile. Uno schiaffo che la comunità delle vittime non poteva accettare. Quel sindaco di destra, oltre che cinico e disumano, neanche sapeva fare i conti, dato che la giustizia ha deciso un risarcimento al comune superiore a quello «offerto» dal miliardario in cambio dell’uscita di scena.
Chissà se qualche mascalzone verrà a spiegarci che sentenze come queste allontanano gli investimenti stranieri in Italia. Chissà se Schmidheiny interverrà a qualche congresso di Confindustria per protestare contro la sentenza, come avevano fatto i suoi colleghi della ThyssenKrupp.
Sarebbe bello, al contrario, se la condanna di Torino istillasse almeno un dubbio nella testa di chi, in fabbrica come in Parlamento, a palazzo Chigi come nelle redazioni dei grandi giornali, cavalcando la crisi si batte per cancellare diritti e dignità di chi lavora. La cui sicurezza, oggi, viene in secon’ordine rispetto al profitto. La sentenza interroga chi in nome della crisi sta cancellando il contratto nazionale, lo Statuto dei lavoratori, le norme sulla sicurezza. Sono quelli per cui i profitti vengono prima dell’ambiente.
Della conclusione del processo di Torino dobbiamo ringraziare una magistratura che ha avuto il coraggio di formulare una sentenza che farà giurisprudenza in tutto il mondo. Dobbiamo ringraziare per primo il pm Raffaele Guariniello che ha istruito il processo, un uomo giusto, tenace, puntiglioso. Non un eroe, gli eroi non servono. Un magistrato.
Non ci saranno più vittime fantasma
di Luciano Gallino (la Repubblica, 14.2.12)
La sentenza di Torino riveste un’importanza fondamentale in tema di tutela della salute sui luoghi di lavoro. Essa stabilisce anzitutto una relazione stretta tra una sostanza alla quale gruppi di lavoratori sono stati esposti in azienda e una patologia che li colpisce anche molti anni dopo. Per oltre un secolo, infatti, le famiglie dei lavoratori deceduti a causa dell’amianto sono state sconfitte in tribunale, con l’eccezione di rari casi individuali.
Gli avvocati della difesa, infatti, riuscivano a insinuare nei giudici il dubbio che un cancro alla pleura o al polmone potesse davvero manifestarsi a decenni di distanza dal periodo di esposizione ad esso. In realtà sulla pericolosità delle polveri di amianto, dovuta alla loro conformazione vetrosa, aveva richiamato l’attenzione un’ispettrice di fabbrica inglese sin dal 1898. Nel corso del Novecento la sua denuncia fu seguita da quella di numerosi medici in Francia, Usa, Canada, Germania, Sud Africa, oltre che nel Regno Unito. Ma pur nei casi in cui si era arrivati a una causa, la parte civile ebbe sempre la peggio nel tentativo di dimostrare che era stato il lavoro su manufatti amiantiferi a decretare la morte di molti operai in un dato impianto, a distanza di venti o trent’anni.
Pertanto la sentenza di Torino avrà certamente un effetto sulla valutazione di altre tragedie. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che le morti correlate alle condizioni delle fabbriche siano due-quattro volte maggiori di quelle dovute agli incidenti sul lavoro. Si tratta quindi di aggiungere agli oltre mille decessi che si registrano in Italia altre 2.000-4.000 vittime "fantasma" l’anno.
La responsabilità dei maggiori dirigenti è un altro aspetto innovativo della sentenza di Torino. Anche dinanzi a gravi compromissioni della salute dei dipendenti, il loro ad, il direttore generale o il presidente, siano italiani o stranieri, se la sono sovente cavata sostenendo che non potevano sapere che cosa succedeva. Il responsabile, se c’era, andava individuato nel direttore di stabilimento, nel capo reparto o altre figure intermedie.
Dall’andamento del processo si può invece desumere che la sentenza in parola non si fondi semplicemente sull’ipotesi che il capo della Eternit Italia, o il maggior azionista svizzero, non potevano non sapere. Essa sembra invece statuire che i massimi dirigenti avevano il dovere di predisporre un sistema di informazioni atto a comunicare ciò che nella loro posizione avevano il dovere di sapere: che l’amianto uccide. L’omissione di tale intervento è ciò che ha concorso a renderli penalmente responsabili.
La sentenza di Torino vale anche a ricordare che l’amianto ha ucciso in Europa milioni di persone nel corso del Novecento, grazie all’importazione di 800.000 tonnellate l’anno, diminuite solo dopo il 1980. L’uso industriale dell’amianto è stato infatti vietato dalla Ue con grande ritardo, nel 1999. Inoltre, dato che il cancro indotto da esso ha tempi lunghi, continuerà a uccidere per decenni. Un rapporto 2001 dell’Agenzia Europea per l’Ambiente stimava che da lì al 2035 esso avrebbe provocato ancora tra 250.000 e 400.000 decessi. Dal che emerge un’altra colpa, largamente distribuita tra imprese, ministeri del lavoro e della sanità, dirigenti industriali, ricercatori. Per cent’anni, dopo che un’ispettrice del lavoro e un medico inglesi avevano denunciato la pericolosità di quella sostanza, non si è dato peso ai segnali precoci. Fino a quando non si sono trasformati in una terribile lezione, come dice il rapporto citato. Perciò la sentenza di Torino rappresenta pure un fermo invito a badare ai segnali precoci che di continuo si profilano in tanti settori industriali, dove si lavora con sostanze e processi forse non pericolosi come l’amianto, ma che rischiano comunque di infliggere col tempo dolorose lezioni.
Le vedove di Casale, i nostri cavalieri del lavoro
di Daria Lucca (Il Fatto, 14 febbraio 2012)
E’ passato un giorno dalla sentenza di Torino che ha segnato la vittoria di tutti noi contro i crimini sulla salute commessi in nome del profitto a tutti i costi ed è importante continuare a parlarne. I 16 anni di carcere (non pochi, davvero) comminati ai due proprietari (stranieri e, almeno uno, per l’età, fuori del rischio galera) della Eternit sono il punto di partenza di una serie di riflessioni che ci devono accompagnare nei mesi a venire.
La prima è d’obbligo rivolta a Raffaele Guariniello. Chi è abbastanza agé da ricordarlo “bucare” le difese inviolate della Fiat anni ’70, in piene ferie, alla ricerca (purtroppo fruttuosa) delle schedature sui dipendenti, e lo ha seguito nel percorso da lui costruito per una giustizia dei consumatori (cibi o vino avariati), dei tifosi onesti (doping) e dei lavoratori lasciati senza sicurezza (Thyssen), non può che complimentarsi per la sua determinazione e per il suo rigore.
La seconda è per quel gruppo di avvocati che non ha smesso negli anni di lavorare (probabilmente a fronte di magri onorari) perché fosse affermato il diritto di quanti sono stati esposti al rischio e ne hanno portato le conseguenze: operai degli stabilimenti Eternit ma anche i cittadini di Casale Monferrato, a cui il profitto di cui sopra ha regalato tonnellate di polveri mortali. A questi avvocati, che di certo non si preoccupano della tariffa minima, deve andare tutto il nostro rispetto.
La terza riflessione, infine, deve rivolgere un pensiero di sostegno alle donne che hanno animato, incoraggiato e sostenuto le parti lese. Alcune si sono ammalate loro stesse, la maggior parte sono le vedove degli operai che, negli anni ’70-’80, quando già si conosceva il potenziale distruttivo dell’amianto, sono stati tenuti all’oscuro dei rischi dai loro “padroni” (scusate il sostantivo molto retrò, ma qui ci vuole).
Esattamente all’opposto, oggi, queste donne si battono non solo per avere giustizia personalmente, ma per diffondere informazioni e conoscenze sul problema. Proprio questo ha detto, dopo la sentenza, Romana Blasotti, presidente dell’associazione vittime dell’amianto di Casale: “La lotta non finisce qui, noi vogliamo lottare per la bonifica e la ricerca”. Il risarcimento (che al momento è soltanto la provisionale, altri ne saranno stabiliti in sede di giustizia civile) può sembrare poca cosa a chi è abituato alle cifre sensazionali di certe cause americane. Oggi però è molto più importante il risultato complessivo: la condanna penale per i proprietari dello stabilimento che erano consapevoli e continuarono, il riconoscimento di parti lese per le associazioni, le strutture, le organizzazioni sindacali, le cittadinanze.
Fra tanti cavalieri del lavoro, pur degni, provenienti dall’imprenditoria sarebbe a questo punto bello vedere il presidente della repubblica proclamarne almeno una tra queste donne che sull’altare del lavoro hanno lasciato, oltre a energie e fatica, anche la vita dei loro cari. E che, con il loro coraggio, hanno aiutato questo paese a credere ancora nella giustizia.