La vicenda era nota da tempo. Nel maggio 2009 il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso aveva cercato di far applicare alla procura di Caltanissetta il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini affinché affiancasse i colleghi nisseni nelle nuove indagini sulla strage di via D’Amelio. Dal giugno dell’anno precedente infatti era iniziata la collaborazione di Gaspare Spatuzza. ’U Tignusu aveva messo in discussione la precedente ricostruzione della fase esecutiva della strage sancita dalle precedenti sentenze passate in giudicato e nello stesso tempo aveva fatto emergere così il depistaggio delle indagini attuato tramite personaggi come Scarantino e Candura, falsi pentiti costruiti in laboratorio secondo la definizione data da Roberto Scarpinato. La procura nissena si trovava così a dover indagare non solo sui nuovi scenari aperti da Spatuzza, ma, una volta acclarata la sua versione, anche sul depistaggio, per scoprire chi e perché aveva costretto anche con la tortura Scarantino ad autoaccusarsi della strage. Un’indagine che avrebbe potuto portare a coinvolgere uomini della polizia, dei servizi segreti, della magistratura inquirente. Ma c’era anche un altro fascicolo, ben più scottante, a Caltanissetta: quello sui mandanti esterni per concorso in strage aperto in seguito alle dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino ai pm nisseni nel gennaio e febbraio del 2008 (prima quindi che iniziasse la collaborazione di Spatuzza) quando la procura era ancora retta dal procuratore Roberto Di Natale. Proprio nel marzo 2009 la procura aveva ascoltato nuovamente il giovane Ciancimino che, da quando si era insediato il nuovo procuratore Sergio Lari nell’aprile dell’anno precedente, non era stato più convocato a Caltanissetta, mentre aveva continuato ad essere interrogato e a rispondere alle domande dei magistrati a Palermo, dove proprio grazie alle sue dichiarazioni, era stato aperto un altro fascicolo in merito alla trattativa tra Stato e Cosa Nostra di cui il figlio di Vito Ciancimino era stato testimone oculare. Un testimone che, oltre a rivoluzionare la cronologia e quindi il significato e peso della trattativa con il ROS collocandola prima e non dopo la strage di via D’Amelio, aveva fatto nomi importanti come quello dell’allora vicepresidente del CSM Nicola Mancino, che subito aveva annunciato querela. Di lì a poco, nel luglio 2009, sarebbe uscito sui giornali anche il nome di un altro pezzo da novanta, Luciano Violante, che invece preferì precipitarsi dai pm palermitani per dare la sua versione, folgorato dalle parole di Massimo Ciancimino che gli avevano improvvisamente fatto tornare la memoria. Ma è cronaca di questa estate come tale ritorno di memoria fosse quanto meno molto parziale.
In questo clima si inserisce la proposta di Grasso inviata con una lettera al procuratore della Repubblica Lari. Proposta abbastanza singolare in effetti, visto che Boccassini si era già occupata di quelle indagini proprio nel ’92-’94, era stata la prima ad ascoltare Scarantino insieme al collega Petralia e ad Arnaldo La Barbera, era una testimone e protagonista di quelle indagini e il fatto che nel momento in cui aveva abbandonato l’inchiesta avesse espresso in forma scritta le sue perplessità sull’attendibilità del pentito non cambiavano questo dato di fatto che secondo la procura di Caltanissetta configurava un motivo di incompatibilità, costituiva un vizio di forma che avrebbe potuto addirittura dare motivi di nullità per la stessa indagine se eccepito un domani da qualche avvocato. La proposta di Grasso ricevette così un "no, grazie" da parte di Caltanissetta. Nel frattempo Ilda la rossa era stata convocata in qualità di testimone dai pm nisseni per raccontare quanto a sua conoscenza in merito al pentimento di Scarantino.
LE DIVERGENZE SU SPATUZZA
La domanda sorge spontanea: perché Grasso cercò di inserire Ilda Boccassini nelle indagini? Abbiamo forse pochi elementi per avere una risposta certa. Possiamo però fare alcune considerazioni. La proposta cadde in concomitanza del parere inviato da Lari alla DNA in merito all’attendibilità del nuovo pentito Gaspare Spatuzza. Ricordiamo che, nel momento in cui ben undici anni dopo l’arresto aveva deciso di collaborare, folgorato sulla via di Damasco della conversione religiosa, l’ex killer di Brancaccio a metà marzo 2008 aveva richiesto espressamente di parlare con Piero Grasso, il quale ha sempre sostenuto la sua attendibilità. Ma la procura nissena mostrava di nutrire ancora dubbi, considerandolo solo in parte credibile. «Gli accertamenti fin qui svolti hanno consentito di trovare significativi elementi di riscontro rispetto a una parte delle dichiarazioni dello Spatuzza» scriveva Lari nel suo parere scritto, riferendosi soprattutto al furto della Fiat 126 utilizzata per la strage, aggiungendo però che accanto a riscontri positivi ce n’erano anche di negativi, evidenziando «imprecise dichiarazioni inerenti il momento storico in cui ebbe affidato l’incarico, su mandato del capo mandamento di Brancaccio Giuseppe Graviano, di procurare una autovettura Fiat» o come perizie svolte in locali indicati da Spatuzza avessero dato esito negativo rispetto alla presenza di polvere da sparo. Infine, aggiunge Lari, «le dichiarazioni sul ruolo di possibili mandanti esterni sembrano essere troppo generiche e non in grado di fornire utili sviluppi alle indagini». Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera il 30 agosto 2012, il tentativo di Grasso di applicare Ilda Boccassini prese proprio le mosse da queste originarie perplessità della procura di Caltanissetta sull’attendibilità di Gaspare Spatuzza, da queste iniziali divergenze tra la procura nissena e il procuratore nazionale. E, andando a rivedere i giornali dell’epoca, troviamo che tale interpretazione fu data già allora. «L’idea di Grasso e l’implicita risposta negativa confermano tuttavia come intorno alle dichiarazioni del neo-pentito di Brancaccio [...] non ci sia identità di vedute e unità di intenti.» scrive Giovanni Bianconi il 1 giugno 2009 sul Corriere della Sera.
Una vicenda vecchia, chiusa, dimenticata nel susseguirsi delle notizie e degli eventi che inghiottiscono nell’oblio anche vicende ben più importanti. A riprenderla e riportarla alla memoria sono Nicola Biondo e Massimo Solani sull’Unità del 22 giugno scorso con un articolo dal titolo "Quando Grasso inviò la Boccassini", mentre il dibattito infuocato sulle telefonate di Mancino al Colle si concentra sulla rivelazione di Panorama dell’esistenza di telefonate intercettate tra Mancino e Napolitano in persona.
LO "SCOOP": «IL COLLE SPINSE BOCCASSINI»
Ma il vero scoop lo fa Lettera43.it, quotidiano online diretto da Paolo Madron, che a fine agosto pubblica una notizia bomba: nella primavera del 2009 Giorgio Napolitano in persona avrebbe telefonato al procuratore Lari per sponsorizzare la proposta di Grasso e sostenere l’applicazione di Ilda Boccassini alle indagini su via D’Amelio, fornendo - come fa notare Lettera43 - «un’altissima copertura istituzionale all’operazione voluta da Grasso». Copertura istituzionale sì, di fatto si sarebbe trattato di una pressione forte e illegittima sul capo della procura nissena. Re Giorgio avrebbe fatto questa presunta telefonata in quanto presidente della Repubblica, presidente del CSM o in nome di cosa? Nessuna norma prevede tale possibilità, la divisione tra i poteri dello Stato è uno dei capisaldi della nostra Costituzione e il presidente della Repubblica non può intromettersi in inchieste in corso né come capo dello Stato né come presidente del CSM. La notizia comincia a fare scalpore. Piomba nel pieno delle polemiche su altre telefonate di Giorgio Napolitano, quelle con l’ex vicepresidente del CSM Nicola Mancino, e sul conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale sollevato dal capo dello Stato contro la procura di Palermo e in contemporanea con il falso scoop di Panorama sui presunti contenuti di tali telefonate.
La fonte di Lettera43 rimane però anonima e il procuratore Lari si affretta a smentire tutto: «Un anno dopo l’inizio della collaborazione di Gaspare Spatuzza, il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso mi propose l’applicazione della Boccassini alle indagini sulla strage di via D’Amelio. Io risposi dicendo che, pur riconoscendo le grandi doti della collega, ritenevo inopportuna l’applicazione in quanto si era occupata già dell’inchiesta e avremmo dovuto sentirla come testimone. La cosa finì lì. Ma ci tengo a ribadire che né Napolitano né il suo staff si è mai occupato della vicenda». Anzi, afferma Lari, «da Napolitano ho ricevuto solo parole di incoraggiamento, sia in occasione delle commemorazioni, sia quando il presidente ha indicato gli organismi deputati a darci più mezzi per le indagini. E proprio le sue parole utilizzai per chiedere alla Dia più uomini per l’inchiesta.»
La smentita del procuratore capo nisseno è netta: «Smentisco categoricamente di avere ricevuto pressioni dal Quirinale sull’applicazione della collega Boccassini a Caltanissetta e, in generale, sulle indagini relative alla ’trattativa’ condotte dal mio ufficio».
Anche il procuratore aggiunto Nico Gozzo, come riportato dal Fatto Quotidiano, dà man forte al suo capo e smentisce a sua volta la notizia diramando una nota: «Nessun intervento vi è mai stato da parte del Presidente sulle indagini della Procura di Caltanissetta. Nessuna telefonata. Unico intervento fu, proprio all’inizio delle indagini, un pubblico intervento nel corso delle commemorazioni per l’anniversario della strage di Capaci, quando il Presidente Napolitano perorò un incremento delle unità investigative impiegate per le indagini sulle stragi, proprio sul presupposto della loro importanza. Incremento poi effettivamente avvenuto.»
Attenzione alle parole dei due magistrati nisseni. Gozzo è categorico «nessun intervento vi è mai stato», il procuratore capo ancora più preciso: non si limita a smentire con forza la telefonata di Napolitano pro Boccassini, ma aggiunge «e, in generale, sulle indagini relative alla ’trattativa’ condotte dal mio ufficio». Sembra quasi mettere le mani avanti. Come mai?
«INCRIMINATE MASSIMO CIANCIMINO!»
Forse perché quella non è l’unica telefonata che Lari avrebbe ricevuto dal presidente Napolitano di cui si è avuta notizia. Se ne parlò al processo Mori-Obinu in corso a Palermo che vede imputati i due ufficiali del ROS per la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso nel 1995 e che ha finito inevitabilmente per intrecciarsi con l’indagine sulla trattativa. Il 10 maggio 2011 venne ascoltato il supertestimone della procura di Palermo Massimo Ciancimino, fermato dalla stessa procura appena tre settimane prima per un documento consegnato dal teste nel quale il nome di De Gennaro era risultato falsificato. Il testimone, rispondendo alle domanda del pm Nino Di Matteo, stava ricostruendo gli incontri con l’uomo appartenente agli apparati istituzionali e presumibilmente vicino ai servizi che si era presentato come vecchio amico del padre, Vito Ciancimino, e gli aveva consegnato il documento manomesso, la famosa cartolina con i nomi del quarto livello, insieme ad altri documenti che aveva detto di aver ricevuto a suo tempo proprio dal padre, compreso il documento che avrebbe provato la contraffazione della cartolina. Una trappola per incastrare e screditare il supertestimone che già aveva cominciato a raccontare quanto a sua conoscenza sul potente capo dei servizi segreti ed aveva identificato diversi uomini dei servizi? Difficile pensare ad una spiegazione diversa. Una vicenda rimasta ancora oscura, nonostante Massimo Ciancimino abbia fornito agli inquirenti le informazioni in suo possesso per identificare l’uomo e la procura abbia avviato un’indagine, tanto che al teste fu chiesto in aula di non fare il nome di questo mister X per ragioni di segreto investigativo. Una polpetta avvelenata che ha avuto i suoi effetti tossici anche se non letali, se la procura di Palermo, nonostante la vicenda sia come abbiamo detto ben lungi dall’essere chiarita, ha scelto, in un clima comunque non sereno di continui attacchi mediatici e indagini del Csm, di chiederne il rinvio a giudizio per il reato di calunnia ai danni di De Gennaro nello stesso processo sulla trattativa in cui lo stesso Ciancimino sarà il teste chiave dell’accusa.
Torniamo a quella mattina del 10 maggio 2011. Grande attenzione mediatica c’è intorno all’aula del secondo piano di Palazzo di Giustizia dove si sta tenendo la deposizione di Massimo Ciancimino. Il testimone, come abbiamo detto, risponde alle tante domande del sostituto procuratore Nino Di Matteo, che vertono su vari argomenti, sta ricostruendo i suoi incontri con quello che per semplicità, non potendo farne il nome in dibattimento, viene ribattezzato come Mister X. Il dott. Di Matteo chiede: «Quando e dove avvengono gli ultimi incontri?». Il teste risponde: «Sempre al Cafè de Paris a Bologna. L’ultimo incontro è quando lui mi informa che c’era stata la telefonata personale di Napolitano al procuratore di... alla procura di Caltanissetta per la mia iscrizione per calunnia e anche sul fatto che la vicenda quella legata... di Verona delle intercettazioni uscite così veloci era stata tutta una manovra fatta da De Gennaro tramite lo SCO per delegittimarmi.» Nessuno si sofferma su quella frase riguardante Napolitano, né il pubblico ministero (che però ne era evidentemente già a conoscenza), né il presidente Fontana, né tanto meno gli avvocati degli imputati. Ma l’udienza viene registrata e trasmessa da Radio Radicale e i giornali (Repubblica.it, Corriere della Sera, Giornale di Sicilia e pochi altri) ne scrivono nelle cronache dell’udienza.
La notizia però non fece scalpore, forse pochi colsero l’importanza della cosa, che tra l’altro si collegava ad altre indiscrezioni su pressioni istituzionali che sarebbero state fatte sulla procura di Caltanissetta per ottenere l’incriminazione di Massimo Ciancimino per il reato di calunnia ai danni di Gianni De Gennaro, cosa che di fatto avvenne improvvisamente il 6 dicembre 2010, quando, dopo giorni di voci sui giornali, a Massimo Ciancimino fu notificato in tarda serata un avviso di garanzia, ad oltre due mesi dall’interrogatorio che gli veniva contestato (svoltosi il 28 settembre). Senza ancora nessun documento risultato alterato. Con in più la contestazione del reato di calunnia anche ai danni di un altro uomo dei servizi segreti, Lorenzo Narracci (entrato in qualche modo e sempre uscito indenne un po’ in tutte le indagini riguardanti le stragi del ’92-’93), di vari episodi di rivelazione di segreto di ufficio e (cosa che a molti apparve singolare) di favoreggiamento al sig. Franco. L’annuncio fu clamoroso: non sentiremo più Ciancimino, abbiamo solo perso due anni di tempo. Per la prima volta le divergenze con la procura di Palermo, di cui da tempo si vociferava, venivano allo scoperto. Il tutto avveniva in una strana e singolare concomitanza con la pubblicazione di un articolo che ricostruiva in modo alquanto discutibile alcune intercettazioni ambientali dello stesso Ciancimino registrate appena pochi giorni prima ad opera della squadra mobile di Reggio Calabria di Renato Cortese, dello SCO diretto da Gilberto Caldarozzi e della procura reggina di Giuseppe Pignatone. Un’altra polpetta avvelenata, stavolta mediatica, per screditare e delegittimare il supertestimone agli occhi dell’opinione pubblica. L’effetto mediatico della doppia notizia fu enorme e devastante.
Ci fu o non ci fu quella telefonata di re Giorgio a Lari? All’epoca, nonostante le notizie stampa ne avessero parlato e la cosa fosse emersa in un pubblico dibattimento, nessuno smentì, né dall’Alto Colle né dalla procura nissena. Oggi però, quando tutto appare dimenticato, Lari assicura: «mai nessuna telefonata da Napolitano.»
Sarà. Intanto troppi misteri, troppe voci, troppe notizie soffocate si infittiscono intorno a queste indagini.
LE INTERCETTAZIONI DI LUIGI BISIGNANI CON IL PREFETTO PECORARO
Come dimenticare ad esempio le intercettazioni emerse nel giugno dello scorso anno (quindi circa un mese dopo la deposizione di Massimo Ciancimino al processo Mori) nell’ambito dell’inchiesta della procura di Napoli su Luigi Bisignani e la cosiddetta P4: intercettati ad ottobre 2010, il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro e il faccendiere piduista discutevano delle accuse di Massimo Ciancimino a De Gennaro e Narracci e di una riunione del Copasir presieduto da D’Alema in cui si doveva discutere di tali dichiarazioni. Ricordiamo che parliamo di indagini coperte da segreto, di verbali, quelli di Massimo Ciancimino, che erano stati secretati. Ascoltato dai pm il 23 febbraio 2011 Pecoraro ha spiegato quelle telefonate: «Io e il Bisignani facciamo riferimento alla vicenda inerente alle dichiarazioni del figlio di Ciancimino su De Gennaro e su Narracci, e cioe’ al fatto che il Ciancimino avesse detto che il signor Franco di cui si parlava nel noto papello era il mio amico Gianni De Gennaro; nella conversazione io dico al Bisignani di aver appreso che il Copasir avrebbe trattato e messo all’ordine del giorno tale argomento»
Il prefetto ha poi dichiarato: «Quella era una chiacchierata tra amici. Io sono stato capo di gabinetto di De Gennaro e quello con Bisignani era uno sfogo. Ormai assistiamo a un impazzimento generale e, in quel caso, io non potevo accettare che si gettasse fango sulla figura di De Gennaro». Alla richiesta dei magistrati su come e da chi avesse saputo che il Copasir si sarebbe occupato delle dichiarazioni di Ciancimino su De Gennaro, Pecoraro risponde: «In questo momento non sono in condizione di dire da chi io abbia appreso della presunta iniziativa del Copasir».
Quindi mentre le inchieste andavano avanti e Massimo Ciancimino continuava a rendere delicate dichiarazioni e consegnare documenti riguardanti De Gennaro ma anche altri uomini dei servizi segreti, il Copasir da una parte e Luigi Bisignani con il prefetto Pecoraro dall’altro affrontavano la questione, mentre sono emerse anche voci riguardanti riunioni a margine di un Consiglio dei ministri. L’impressione è che le dichiarazioni di Massimo Ciancimino su De Gennaro e il possibile coinvolgimento nell’inchiesta sulla trattativa di quello che all’epoca era il direttore del DIS, cioè il capo dei servizi segreti, abbiano provocato un terremoto all’interno degli apparati istituzionali e paraistituzionali.
Queste voci, queste mezze notizie si accavallano con le documentate telefonate tra il consigliere di Napolitano Loris D’Ambrosio e Mancino, con la lettera del Quirinale al Procuratore Generale della Cassazione per chiedere un intervento sulla procura di Palermo, tutte cose che abbiamo letto sui giornali in questa rovente estate. Cose venute fuori per puro caso, perché Mancino era stato messo sotto intercettazione. Così come per puro caso sappiamo per certo che Napolitano ha parlato anche personalmente con Mancino almeno quattro volte e, se non possiamo conoscere il contenuto di quelle telefonate, a giudicare dalla reazione del Colle che ha ottenuto proprio in questi giorni un controverso e discusso verdetto favorevole da parte della Consulta al conflitto di attribuzione che aveva sollevato, possiamo ipotizzare che Napolitano abbia ragione di temere la fuoriuscita del contenuto di tali telefonate, che anche se non penalmente rilevanti potrebbero essere quantomeno imbarazzanti. Una sola certezza abbiamo: che le inchieste sui misteri del ’92-’93, sull’infame trattativa e sulle stragi che la accompagnarono hanno messo in fibrillazione i più alti livelli istituzionali del nostro Paese. E che ingerenze ci sono state. Anche ben prima delle telefonate di Mancino al Quirinale.
Adriana Stazio
La geometria del diritto
di Franco Cordero (la Repubblica, 6 maggio 2012)
Motivare le sentenze è affare serio, talvolta arduo, antipatico, rischioso. È pandemonio a Napoli quando Sua Maestà Ferdinando IV, persuaso dal vecchio ministro Bernardo Tanucci (da giovane professore nell’ateneo pisano), esige decisioni motivate (prammatica reale 27 settembre 1774). Dall’estate pendeva un ricorso del Quirinale davanti alla Consulta, contro i pubblici ministeri palermitani in una causa assai grave, dove s’intravedono fondi cupi della recente storia d’Italia.
Martedì 2 dicembre, dopo quattro ore, dalla camera di consiglio filtra l’oracolo. Poche frasi incongrue, ma non potevano suonare meglio, se presupponiamo l’esito favorevole all’attore, tale conclusione non essendo motivabile nell’ordinamento italiano, anno Domini 2012. Impresa impossibile: in qualche misura il diritto è anche geometria; e supponendo che la corvée sia disegnare nello spazio euclideo un triangolo i cui angoli non siano 180°, vengono fuori faticosi sgorbi.
La Corte doveva scovare nella Carta un equivalente dell’art. 4 Statuto albertino («la persona del Re è sacra e inviolabile»). Solo così il Presidente non sarebbe mai ascoltabile, fuori della cerchia in cui parla, salvo che vi consenta graziosamente: ad esempio, parlava in una cabina telefonica e occhi lesti decifrano i segni labiali; data l’inviolabilità, il voyeur è testimone ammissibile o no, secondo l’augusto beneplacito. Idem quando l’incauto conversatore s’infili in linee soggette a controllo telefonico. Trovare la norma ossia cavarla dal testo, perché vigono solo fonti scritte, era compito erculeo: non esistono testi adoperabili a tale fine; e l’arte ermeneutica ha delle regole.
Dal fatto che il Presidente non risponda penalmente degli atti d’ufficio (art. 90 Cost.) non è seriamente arguibile il tabù su emissioni verbali private (in un film Clint Eastwood, ladro, ascolta e guarda, nascosto dietro una tenda, mentre the President in preda all’alcol collutta con un’amica e la cosa finisce male); né possiamo arguirlo dalle funzioni enumerate nell’art. 87; chi lo tenti cade nel vaniloquio. M’ero permessa una citazione dalle avventure d’Alice, settimo capitolo, dove Cappellaio, Lepre, Talpa spendono parole matte; e notavo come, dedotta l’«inviolabilità», tutto diventi asseribile, anche che l’Unto sia profeta, regoli i cicli naturali, guarisca le scrofole, et cetera.
La Carta è muta in proposito e i lavori preparatori non lasciano dubbi sul disegno dei costituenti: avevano in mente una figura laica, senza cascami d’ancien régime; gli negano l’immunità processuale che, senza fondamento, l’attuale capo dello Stato rivendica. Le prerogative esistono in quanto una norma le definisca. Non hanno più corso i misteri covati dalla ragion di Stato (voleva imbrigliarla già l’autore dell’omonimo trattato cinquecentesco, Giovanni Botero) ed è manovra reazionaria ogni tentativo d’esumarli.
I deliberanti devono essersene resi conto, perché muovono un passo laterale puntando sull’art. 271 c. p. p. Infelice mossa del cavallo. L’art. 271 contempla due casi diversi dal nostro: intercettazioni illegalmente eseguite (comma 1); e quando parli un obbligato al segreto (c. 2). Qui nessuna norma codificata vietava l’ascolto, né esistevano segreti (il conversante avrebbe guadagnato simpatia politica svelando i contenuti, anziché nasconderli strenuamente, con qualche gesto eccepibile: ad esempio, attribuendosi inesistenti poteri da organo censorio d’atti giudiziari). L’art. 271 non detta divieti, li presuppone, stabiliti altrove, e l’unica fonte possibile è la Carta, nella quale non ne esiste nemmeno l’ombra .Pour cause
I comunicanti tacciono sull’art. 7, l. 5 giugno 1989 n. 219, invocato dal Quirinale: «I provvedimenti che dispongono intercettazioni» sono ammessi solo nei confronti del sospeso dalla carica; non è norma applicabile qui (non era lui l’intercettato, né pendono accuse votate dal Parlamento in seduta comune). Vale il regime delle voci fortuitamente colte, non equiparabili all’intercettazione mirata (le distingue l’art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140 a proposito dei parlamentari).
In cauda venenum, scrivevano vecchi avvocati latinisti. Meno forbito, il comunicato esige l’immediata distruzione dei materiali sacrileghi (era «sacra» la persona regale nello Statuto al quale regrediamo): la ordini il giudice, e sia eseguita clandestinamente; nessun estraneo deve vedere o udire, meno che mai gl’interessati al processo. Non stupisce sentirlo dal soi-disantinviolabile, ma sono parole della Corte chiamata a custodire le norme fondamentali, quasi avesse dimenticato gli artt. 24 («la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado») e 111 Cost., dove il contraddittorio figura due volte, requisito immanente. L’art. 271, c. 3, lo presuppone: va stabilito se i reperti siano fruibili; mandarli in cenere al buio è fosco stile inquisitorio. Quel giudice non ha in corpo lo Spirito santo: forse sbaglia definendo irrilevante qualcosa d’utile; o sta affossando materiale costituente corpo del reato (art. 271, c. 3, dov’è ovvio il rinvio all’art. 269, c. 2, sull’udienza camerale, art. 127).
Supponiamo che N stia scontando l’ergastolo, e parole del presidente nel dialogo con un intercettato forniscano materia alla revisione della condanna; o l’inverso, che costituiscano notitia criminis: va tutto al diavolo in rigorosa clandestinità? Abbiamo sotto gli occhi una decisione esemplare, in senso negativo, rincresce dirlo: vi spirano nostalgie del segreto; sottintende la mistica delle prerogative; tira in ballo un inesistente limite istruttorio (art. 271 c. p. p.); e incredibile, viola norme costituzionali sul contraddittorio.
Ormai sa d’ipocrisia aspettare i motivi: quando anche li compili un mago dialettico, il quadro resta; quel comunicato chiude la Corte in gabbia. Fossero in ballo interessi disponibili, diremmo: ogni tanto capita; non era buona giornata. Stavolta l’evento pesa in sede culturale e politica. Era l’ultimo accidente augurabile all’Italia devastata dai quasi vent’anni d’egemonia berlusconiana.
Una manifestazione a Roma
Con i magistrati, per la Costituzione
di Salvatore Borsellino (il Fatto, 12.12.2012)
Caro direttore,
ci sono dei momenti nella vita di una nazione in cui non si può stare alla finestra. Ci sono momenti in cui è necessario mettersi in gioco e dare, ciascuno di noi, il nostro contributo nella difesa dei valori in cui crediamo e che vogliamo trasmettere ai nostri figli.
Stiamo attraversando un momento particolare della nostra storia perché, per la prima volta nella storia del nostro paese, lo Stato sta trovando il coraggio di processare se stesso.
C’è un peccato originale alla base di questa che chiamano Seconda Repubblica, una scellerata trattativa tra pezzi dello Stato e quello che dovrebbe essere l’anti-Stato.
Sull’altare di questa trattativa è stata immolata la vita di Paolo Borsellino, dei ragazzi che gli facevano da scorta, sono stati sacrificati i martiri di via dei Georgofili e di via Palestro.
Per mantenere su di essa il segreto c’è stata una congiura del silenzio che è durata vent’anni e che ha coinvolto centinaia di personaggi della politica e delle istituzioni. C’è stato un depistaggio che ha falsato il processo sulla strage di via D’Amelio.
Quando finalmente l’opera di alcuni magistrati, le rivelazioni di nuovi collaboratori di giustizia, hanno cominciato a squarciare il velo, sono cominciati i muri di gomma e la guerra scatenata contro i magistrati.
Mi sarei aspettato che a questi magistrati arrivassero incoraggiamenti, che venissero spianati gli ostacoli che si frapponevano sulla difficile strada della Verità.
Al contrario ho dovuto leggere con raccapriccio di intercettazioni in cui a un indagato in questo processo, Nicola Mancino, che si lamentava al telefono per essere stato lasciato solo, veniva, non so se a torto o a ragione, promessa la benevolenza e l’attenzione della più alta Istituzione del nostro Stato. Fino all’ultimo atto, quello in cui, per impedire la divulgazione delle intercettazioni che in maniera casuale riguardavano lo stesso Presidente della Repubblica, viene sollevato un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo, che rischia di essere il più grave ostacolo sull’iter di un processo dal quale ci aspettavamo quella Verità.
PERCHÉ questa ansia, quasi questo panico, sul contenuto di queste intercettazioni e sulla possibilità che l’opinione pubblica ne venga a conoscenza? Forse contengono dei giudizi di merito su dei magistrati, su dei parenti di vittime che a voce troppo alta continuano a gridare la loro rabbia per una verità occultata?
Io non credo, non voglio e non posso credere che sia così, ma è proprio per poterne dissipare anche soltanto il sospetto che la stessa Presidenza della Repubblica dovrebbe chiedere la divulgazione del testo di queste intercettazioni. Anche perché per quanto riguarda direttamente me, fratello di Paolo Borsellino, mi è già sufficiente essere stato escluso, insieme con mia sorella Rita, dal novero dei parenti di Paolo nel messaggio inviato dalla Presidenza della Repubblica all’Anm il 19 luglio.
Questa stessa sorte forse toccherà ora, per le sue manifestazioni di sdegno nei confronti dell’imputato Nicola Mancino, anche ad Agnese, la moglie di Paolo, alla quale, insieme con il figlio, quel messaggio era stato rivolto.
E adesso è arrivata anche la decisione della Consulta sul conflitto di attribuzioni, sentenza della quale non si conoscono ancora le motivazioni, ma che sembra non colmare il vuoto legislativo o indicare una corretta interpretazione della Costituzione riguardo alle casuali intercettazioni riguardanti il Presidente della Repubblica. Sempre che di un vuoto si tratti e non di un esplicito silenzio. E mentre fa riferimento a un inapplicabile, in tale caso, articolo 271 del codice di procedura penale, a meno che in quelle telefonate Mancino non pensasse di rivolgersi al suo avvocato o al suo confessore, la sentenza non manca di censurare pesantemente l’operato della Procura di Palermo che invece ha agito applicando rigorosamente le leggi sulle intercettazioni.
A FRONTE di queste continue invasioni di campo del potere legislativo ed esecutivo su quello giudiziario, per dimostrare a questa classe dirigente che non siamo tutti assopiti, che abbiamo ancora la forza di reagire, noi non resteremo a guardare. E lo facciamo come passo successivo e conseguente all’appello sottoscritto da migliaia di cittadini a sostegno di questi magistrati. Noi crediamo che una firma non sia sufficiente, noi chiamiamo tutti i cittadini che hanno il coraggio, come Antonio Ingroia, di dichiararsi “partigiani della Costituzione”, a scendere in piazza con noi e a gridare la nostra voglia di Giustizia, di Verità e di Resistenza.
Assieme a me, ai giovani e ai sempre giovani delle Agende Rosse e a tutte quelle persone che hanno deciso di non tacere. Assieme a Marco Travaglio, a Luigi De Magistris, a Ferdinando Imposimato, a Sonia Alfano, a Sabina Guzzanti, ad Aldo Busi, ad Antonio Padellaro, a Marco Lillo, a Vauro Senesi, a Moni Ovadia, a Silvia Resta, a Sandra Amurri, a Fabio Repici, a Daniele Silvestri, a Manuel Agnelli e a tanti altri, che sabato 15, a Roma, in Piazza Farnese hanno accettato con entusiasmo di essere assieme a noi.
Dimostriamo a questa classe dirigente, al paese, a noi stessi, che siamo ancora capaci di alzare la testa. A fianco dei magistrati del pool di Palermo.