di Gianni Vattimo
Di ritorno da L’AVANA. Ebbene sì, anch’io sono tra quegli intellettuali occidentali che si lasciano affascinare da dittatori e caudilli sudamericani, magari anche attratti dal fatto di essere invitati a viaggi principeschi verso le loro spiagge dorate... Le spiagge di Cuba sono effettivamente dorate, ma io ci sono arrivato, su invito della Biennale d’arte della Avana, con un volo charter in cui non c’era nemmeno il posto per le gambe, in compagnia di turisti per lo più anziani che si lamentavano perché l’ultimo giorno prima della partenza il volo, che non era riuscito a riempirsi, era stato svenduto a prezzi incredibili (600 euro o giù di lì tutto incluso). D’accordo, io non avevo pagato neanche quello, la compagnia aveva regalato alcuni biglietti (quelli da 600 euro?) agli organizzatori della biennale, ma certo mancava uno degli elementi fondamentali per la corruzione dell’intellettuale europeo. Se son venuto meno ai miei doveri di buon occidentale nemico del terrorismo internazionale - ça va sans dire - e delle dittature, non è stato per denaro o beni materiali, ma per amore. Di Castro, sì. Il primo amore, si sa, è difficile da scordare, e io avevo passato parte della mia giovinezza, a partire dagli anni Sessanta almeno, imparando le canzoni della rivoluzione cubana e rimirando il poster di Che Guevara. «Por llanuras y montanas, guerrilleros libres van...» Così, quando dopo aver assistito all’apertura delle Biennale e aver anche ricevuto un diploma onorario assegnatomi, in quanto cultore di estetica, dalla Accademia di Belle arti, molto pubblicizzato dal «Granma» del giorno dopo, sono stato ricevuto da Fidel (una domenica pomeriggio) per un colloquio privato, non ho dovuto fingere nulla, i miei sentimenti di ammirazione, devozione, vero e proprio «amoroso affetto» hanno potuto esprimersi liberamente. Castro (nella sua usuale uniforme verde oliva) mi ha abbracciato e io gli ho preso il viso tra le mani con qualche lacrima agli occhi. Non solo rivivevo la mia gioventù (pseudo) rivoluzionaria, ma ero consapevole di essere in presenza di uno dei pochi resti monumentali della storia del secolo XX (anche mia, perciò). Fidel comincia a parlare di Europa, sa che sono stato deputato europeo, mi domanda della nuova costituzione, poi si allarga a una specie di sunto della storia europea del Novecento, le guerre mondiali uno e due, e la ragionevolezza del fare una Unione per evitare che quelle guerre si ripetano. Ma funziona? Esprimo i miei dubbi, c’è di mezzo sempre una certa riluttanza degli inglesi... Già, perché sono così legati agli Usa.
Digressione sulla crisi dei missili anni Sessanta. «E poi, a un certo punto, arriva quel campesino astuto di Nikita» - mi emoziona un po’ sentir definire così familiarmente Krusciov. Ma Castro poi si mette anche a fare l’imitazione di Bush jr., che egli vede evidentemente sulla CNN, e mostra come Bush quando parla in pubblico guardi di lato, per vedere l’effetto (di quelle che Castro ritiene bugie). Mi parla con entusiasmo delle dimostrazioni degli immigrati ispanici negli Stati Uniti, che chiedono più diritti, poi degli accordi che è riuscito a strappare, certo in amicizia, a Chavez, e non concorda con l’idea che mi sono fatto, e che forse ho incautamente espresso, per la quale con il petrolio di Chavez Cuba può finalmente uscire dalla povertà e magari permettersi una vita meno austera. «La colpa della povertà di Cuba», dice Castro, «è il blocco statunitense. Che ha sostituito le aggressioni militari vere e proprie, Baia dei Porci e simili». Insiste sul fatto che con gli Stati Uniti «c’è una vera e propria guerra in corso». Non lo dice lui, ma io lo penso: se c’è la guerra anche certe restrizioni delle libertà individuali (che non ignoro), e il razionamento del riso, la doppia economia (per turisti e per cubani) non sono poi così scandalosi; tutti i cubani con cui parlo si lamentano, ma sopportano appunto perché si sentono in guerra, e poi ricordano che cos’era il regime di Batista. Invento persino, non solo ad usum Castri, l’ipotesi «cubanizzazione del mondo», cioè che il fattore A., l’America di Bush, condizioni ormai tutto il mondo «democratico» imponendo limiti spesso intollerabili alle libertà civili. Anche in Italia, qualunque sinistra che voglia avere possibilità di andare al governo è condizionata da questo fattore A.; gli racconto anche per sommi capi la storia delle imprese della Cia nel nostro paese, il rapimento di un musulmano sospettato di essere un terrorista.
Sono ormai passate circa tre ore dall’inizio del colloquio. Durante le quali, mentre parla, Castro (ahi, mi ricorda Berlusconi nel primo faccia a faccia elettorale con Prodi) ha disegnato, scritto cifre, fatto segni in un taccuino blu simile a quello che ho anch’io sul tavolo davanti a me. Gli chiedo se me lo lascia portar via, giuro di non venderlo. Scrive allora una bella dedica che al ritorno mostro ad ex rivoluzionari commossi. Ma al momento di lasciarmi andare (alla lettera, di mollarmi; in questi giorni è uscito il libro che riporta la sua intervista di cento ore con Ignacio Ramonet!) Castro mi dice che vuole ancora mostrarmi una cosa: apre una porta accanto alla sala (del Palacio de la Revoluciòn, dove siamo) e mi trovo in un altro salone che è una specie di esposizione di elettrodomestici: frigoriferi, pentole a pressione, condizionatori, lampade, aggeggi vari da cucina elettrica. Mi viene in mente che, dopo tutto, a ottant’anni Castro può anche essere impazzito, e che questa sala sia il suo giocattolo... Ecco dunque che cosa fa dal mattino alla sera... Ma il cattivo pensiero viene subito dissipato, anche se Fidel si gode per un momento il mio sconcerto. Mi spiega che sta facendo personalmente esperimenti per trovare gli elettrodomestici che consumano meno; a Cuba questo è l’anno del risparmio energetico.
Già nei giorni precedenti, visitando Pinar del Rio e Santa Clara (dove c’è il mausoleo del Che), ho notato che davanti alle porte delle case di interi quartieri c’erano dei frigoriferi; pronti, mi hanno spiegato, a essere sostituiti in massa da altri (credo cinesi) che consumano la metà dell’energia. Castro vuole procedere su questa strada anche per altre attrezzature domestiche - specialmente la pentola a pressione, sogno di tutte le massaie cubane. Se compriamo questi apparecchi in grandi numeri, dice, otteniamo sconti giganti e possiamo rinnovare tutto il «parco». Accanto all’ingresso della sala degli elettrodomestici c’è anche un ventilatore rudimentale, fatto con pezzi di motori di vecchie automobili: «Ecco come i cubani si difendevano dal caldo negli anni del “periodo eccezionale”», quello seguito alla caduta dell’Urss, quando Cuba si trovò (anni Novanta) senza acquirenti per il suo zucchero e senza aiuti di nessun tipo. Sono gli anni di cui mi parla anche la mia guida locale, un esperto di storia dell’arte che racconta anche la fame di quell’epoca, mitigata da acqua e zucchero e poco più.
E dopo l’illustrazione dei vantaggi e svantaggi di pentole e lampadine, è la volta dei cataloghi di attrezzature mediche: che ho già visto in funzione alla Scuola di medicina latino-americana, una istituzione dove, gratuitamente, studiano migliaia di ragazzi e ragazze dei paesi del Sudamerica, con standard accademici da grande università nordamericana. Li ammettono previo esame politico-ideologico? Mi si dice di no, ma si insiste anche sul fatto che cercano di dar loro una formazione socialmente orientata, perché una volta diventati medici generici o specialisti, si impegnino a tornare nei loro paesi di origine invece di rivendersi sul mercato capitalistico. Sono come i medici cubani che, insieme ai maestri di scuola, ho già visto al lavoro nelle favelas del Venezuela, e che non sono solo la mano d’opera «di scambio» per il petrolio di Chavez, ma la realizzazione del sogno del Che, l’esportazione della rivoluzione cubana nei paesi latino-americani o anche in Angola. Così, è esportazione della rivoluzione anche la cosiddetta «Operaciòn Milagro», la campagna di operazioni gratuite di cataratta per decine di migliaia di latino-americani poveri che recuperano la vista con una settimana di soggiorno (gratis, con viaggio pagato per sé e un accompagnatore) nel grande ospedale oftalmico dove si utilizzano quegli apparecchi modernissimi (spesso giapponesi) di cui Castro mi fa vedere i cataloghi, e che ho visto in uso visitando l’ospedale. Gli oftalmologi dei paesi latino-americani, e del Nord America, sono furiosi per questo servizio, che sottrae loro pazienti altrimenti paganti.
Scuola di medicina, ospedale del miracolo, anche università di informatica (situata negli edifici, evidentemente già molto cablati, in cui stavano i servizi di intelligence russi ai tempi del socialismo reale). Ho fatto il tipico itinerario offerto agli ospiti del regime, mi sento come Sartre (si licet) quando andava in Cina con la De Beauvoir. Ma ho visto anche una quantità di iniziative di base, piccoli teatri di provincia, piccole case editrici, scuole d’arte non solo alla Avana, ma nei villaggi lontani. La mia coscienza «democratica» mi dice di vigilare, mi richiama agli anni del fascismo italiano prima della alleanza con Hitler, le massaie rurali, il sabato fascista (certo, con le «adunate» più o meno obbligatorie). Non ho il coraggio di domandare a Castro dei tanti omosessuali ancora in prigione a Cuba. Ma sono lì in sua presenza accompagnato da alcuni intellettuali notoriamente gay, dunque...
Non so se sto scegliendo tra il mio amore per la libertà e l’amore per Castro. Certo preferisco vivere nel mondo capitalista, ma davvero l’entusiasmo per un impegno politico che forse costa (privazioni e limiti) ma che almeno fa sentire vivi non conta niente, è solo una faccenda da ingenui privilegiati che ogni tanto fanno del turismo rivoluzionario (sia pure con voli charter)? Mi sembra invece di aver imparato che la rivoluzione cubana non è più soltanto una questione di progetti e di chiacchiere socialiste, diventa un fenomeno concretamente capace di fornire modelli, di costituire un centro di resistenza alla forza del capitalismo nordamericano.
La mia ipotesi avventurosa di una «cubanizzazione del mondo» forse non è così insensata. Anzitutto, a partire da Cuba, dal Venezuela, ma ormai anche dalla Bolivia di Morales, dal Brasile di Lula, dal Cile della signora Bachelet, dall’Argentina di Kirchner, si sta profilando un gruppo di paesi che, pur con le loro differenze, hanno interesse a rendersi autonomi dagli Usa e che possono diventare i partner di una Europa un po’ meno Bush-dipendente. Sarà vero che ora l’interesse del grande capitale americano è diretto verso l’Oriente di India e Cina la quale ultima è ormai proprietaria di mezza America. Ma forse anche grazie a questa minore attenzione per la metà Sud del continente da parte di Washington, in questi paesi si sta costruendo una alternativa non solo politica, ma anche sociale, al modello capitalistico sempre più evidentemente in crisi. Che tutto questo succeda in una regione dove il volto umano del socialismo può prendere anche le sembianze del Buena Vista Social Club, della musica e del piacere di vivere dei Caraibi, non fa che rendere la prospettiva ancora piu attraente e amichevole.
Gianni Vattimo
su La Stampa del 28 maggio 2006, pagg. 1-11
Ancora e sempre Fidel
di GIANNI VATTIMO (La Stampa, 9/1/2009)
Cinquant’anni dalla rivoluzione cubana. La stampa «indipendente» mi ripete che la rivoluzione è fallita, ma io non ci credo. Come molti intellettuali «vintage», anch’io ho attraversato disciplinatamente almeno le prime due fasi della parabola castrista: l’entusiasmo per la rivoluzione vittoriosa, il Che e le canzoni dei barbudos, il progetto di un allargamento del movimento fuori dai confini di Cuba; persino l’accettazione rassegnata della caduta dell’isola nella sfera d’influenza sovietica - perché non si poteva fare altro. Poi, certo anche a partire dalla dipendenza verso Mosca, la crescente delusione per le promesse non mantenute: povertà, limitazioni severe delle libertà politiche e civili; con le storie di persecuzione di scrittori e intellettuali gay, che mi vengono ancora puntualmente rinfacciate con sempre meno verosimiglianza. Oggi, a quanto pare, non «si può» decentemente professarsi castrista nel mondo della cultura predominante; è quasi una caduta grave come dubitare del diritto di Israele di affamare e poi bombardare Gaza, o porre troppe domande sull’11 settembre...
Io mi trovo però nella (minoritaria) condizione di un intellettuale italiano che non ha solo percorso le prime due fasi della parabola dell’immagine del castrismo, ma che ne ha vissuto di recente una terza, che si potrebbe chiamare la sintesi dialettica delle prime due. Sono stato a Cuba, ho potuto incontrare faccia a faccia Fidel, non più solo per speculum et in aenigmate (ho raccontato l’incontro su questo giornale nell’aprile 2003, non senza suscitare un fiera, e per me molto onorevole, reazione del Miami Herald). Ma soprattutto ho visto molti cubani, certo non oppositori del regime ma nemmeno privilegiati o personaggi ufficiali. Gente che crede ancora nella rivoluzione, e sopporta i tanti disagi quotidiani, anzitutto perché ricorda, personalmente o per memorie ricevute, che cos’era Cuba ai tempi di Batista; ed è convinta che le difficoltà economiche dipendono dal fatto che l’isola è in guerra ed è soggetta a un permanente assedio statunitense (oltre che alle minacce degli attentati). Di recente, poi, è nata nei cubani una nuova fierezza: la resistenza di Castro al gigante nordamericano è diventata fonte d’ispirazione per le tante trasformazioni politiche che hanno cominciato a fiorire nel resto dell’America Latina. E, a proposito di benessere: Michael Moore ha mostrato e documentato che un cittadino cubano può contare su un’assistenza medica gratuita di un livello che negli Usa è riservato solo a un piccolo gruppo di ricchi.
Ma, si dice sempre: la libertà, i gay in carcere, la stampa di regime, gli scaffali dei supermercati vuoti? Sui gay, almeno, la signora Mariela Castro, figlia di Raul, che dirige un modernissimo istituto di sessuologia, spiega che le ondate omofobiche, analoghe a quelle contro cui si rivoltarono i gay di New York con la battaglia dello Stonewall (ed era New York; ma la provincia americana, cioè tutto il resto degli Usa?) dipesero nei primi tempi della rivoluzione dalle «democratiche» decisioni dei capi locali del partito castrista, omofobi più o meno come tutta la società cubana e degli altri Paesi latino-americani (oggi peraltro molto più avanti di noi italo-vaticani). E più tardi dalla stretta securitaria e dal clima di guerra.
La rivoluzione castrista, nel quadro della nuova America Latina che si è delineato negli ultimi anni - anche, ma non solo, per merito di Chavez e del suo petrolio - non è affatto una (altra) speranza fallita, a dimostrazione che ha sempre ancora ragione il nostro «democratico» capitalismo. Semmai, certo, mostra che nel mondo tardo-moderno la rivoluzione in un solo Paese, che non sia un intero continente o quasi, come la Cina, non ha probabilità di successo: non potremmo mai pensare nemmeno a una rivoluzione classica, come quella francese, nel mondo odierno delle multinazionali, economiche o politiche che siano. Ma quando parliamo di America Latina (e non di Europa, ahimè) è proprio un continente quello a cui pensiamo.
Comitato Politico Nazionale del PRC del 03-04 maggio 2003
Ordine del giorno su Cuba presentato da PROGETTO COMUNISTA (SINISTRA DEL PRC)
www.progettocomunista.it
Il CPN del PRC esprime il proprio sostegno incondizionato a Cuba nella sua lotta nei confronti dell’imperialismo. Ritiene infatti dovere di ogni comunista nel mondo difendere Cuba come stato e le conquiste che permangono della sua rivoluzione.
Non possono che essere respinte con sdegno le argomentazioni sviluppate, rispetto ai recenti avvenimenti, da quelle forze che non hanno trovato e non trovano obiezione alcuna alle guerre imperialiste; all’embargo genocida decretato e mantenuto per un decennio dall’ONU contro l’Irak e che ha causato un milione e mezzo di vittime; alle molteplici forme di sfruttamento, oppressione e repressione che quotidianamente causano migliaia e migliaia di morti nel mondo capitalistico.
La loro opposizione alla pena di morte e alla repressione a Cuba non è che l’espressione di una volgare demagogia. Quello che in realtà imputano a Cuba è il fatto di non adeguarsi puramente e semplicemente all’imperialismo e di mantenere una continuità ideologica e, in parte, materiale con il processo di rivoluzione anticapitalistica del 1958-1960.
Come PRC riconosciamo a Cuba il diritto di autodifendersi nell’attuale situazione anche con misure drastiche contro la reazione. In ogni modo prescindiamo nella nostra posizione di difesa dal giudizio sui singoli atti del governo cubano.
E’ tuttavia dovere dei comunisti sviluppare, dal punto di vista di classe e rivoluzionario, un giudizio chiaro sull’attuale regime cubano. Il CPN ritiene che ciò che esiste a Cuba è un profondo deficit, a carattere qualitativo, di dittatura del proletariato. Un regime questo che, per noi non può che essere che quello che si è espresso per la prima volta nella Comune di Parigi e poi nell’Ottobre russo, prima della degenerazione stalinista. Cioè una democrazia operaia basata sull’autorganizzazione delle masse proletarie che imponga il proprio dominio egemonico (“dittatura”) sull’insieme della società trasformata in un processo di socializzazione.
A Cuba invece, nella sua più che quarantennale storia post rivoluzionaria, il potere non è mai stato nelle mani di strutture consiliari di operai e contadini. Al di là delle ultime decisioni, obiettivamente esagerate e controproducenti, avvenimenti recenti hanno sottolineato questo deficit di democrazia operaia. Così è stato per le elezioni formalmente in termini di democrazia parlamentare aclassista, con 179 candidati per 179 eleggibili, senza nemmeno la possibilità di voto negativo. Così per il referendum plebiscitario di sostegno al regime, concluso con un incredibile 99,2% di voti favorevoli.
Più in generale la mancanza di democrazia operaia si esprime in un parlamento che vota sempre all’unanimità, e in un Partito che si riunisce in congresso circa ogni dieci anni e, anche in questo caso, così come nei suoi organismi dirigenti, non vede che voti all’unanimità. Mentre su tutto veglia, con potere decisionale supremo il “leader maximo”.
Né l’aggressione imperialista, col blocco, né l’isolamento di Cuba (che del resto era caratterizzata da analoga struttura di regime anche all’epoca in cui esisteva e ed era potente il blocco “sovietico”) possono giustificare questa situazione.
La Russia rivoluzionaria dopo il 1917 si trovò isolata, rovinata economicamente da anni di guerra e guerra civile, invasa dall’esercito di 14 potenze imperialiste e loro alleati. Tuttavia, se questa situazione costrinse il regime leninista a limiti nello sviluppo della democrazia operaia, non lo portò mai a farne venir meno alcuni elementi fondamentali (questo fino alla degenerazione stalinista che implicò una vera e propria sanguinosa controrivoluzione burocratica contro il Partito leninista).
Così il Partito comunista russo anche nel corso della guerra civile, realizzò congressi annuali, svoltisi sempre su piattaforme contrapposte che si confrontavano col libero voto degli iscritti, in un quadro di dibattito così aperto che lo stesso Lenin non era garantito della vittoria (e in effetti finì in minoranza nel Comitato Centrale ancora nel 1921). Nelle organizzazioni di massa (soviet e sindacati) dirigenti e delegati si confrontavano liberamente sulle singole decisioni. Il diritto di sciopero era garantito dal codice del lavoro del 1922 che ne indicava la imprescindibilità contro le deviazioni burocratiche nelle aziende statali e, più in particolare, in rapporto alla, sia pur limitatissima, apertura ai capitali privati con la “Nuova Politica Economica” (mentre a Cuba lo sciopero è proibito, nonostante la ormai larghissima e libera presenza di capitale straniero).
La stessa illegalizzazione di fatto dei partiti democratici e della loro stampa era considerata dichiaratamente una misura transitoria che si sarebbe potuto superare con lo sviluppo e il rafforzamento della rivoluzione, in particolare sul piano internazionale. Ampia era poi sulla stampa l’informazione e il confronto tra opinioni e posizioni diverse su temi politici e sociali.
Lo stalinismo, prodotto dall’arretratezza economica della Russia e dalla mancata estensione della rivoluzione socialista sul piano internazionale, ha distrutto tutto ciò; ma , ciò non di meno, la realtà della rivoluzione d’ottobre e del regime bolscevico resta come esempio di differenza tra la dittatura del proletariato e un regime burocratico quale, pur con le sue specificità, è stato nella sua storia quello di Fidel Castro.
E’ per questo che il CPN ritiene che la prospettiva che i comunisti devono auspicare e sostenere per Cuba non è quella di una “democratizzazione” astratta e senza contenuti di classe; ma quella dell’instaurazione di un vero potere dei/le lavoratori/trici, basato su una loro autorganizzazione consiliare.
Non si tratta solo dello sviluppo della democrazia operaia, ma della stessa difesa di Cuba e delle sue conquiste dall’imperialismo. Perché solo un coinvolgimento vero dei/le lavoratori/trici cubani nella gestione del potere - identificandoli pienamente con lo stato - può evitare che, il futuro, una volta venuta meno l’attuale leadership (che certamente gode di un vasto prestigio e sostegno popolare) si ripetano le drammatiche esperienze di altri stati post capitalistici burocraticamente dominati (in termini marxisti “stati operai degenerati o deformati”) che sono caduti nel processo controrivoluzionario di restaurazione del capitalismo.
E’ nella prospettiva di un vero potere del proletariato cubano, insieme con lo sviluppo di processi rivoluzionari vincenti in America Latina e nel mondo, che sta il futuro per Cuba e la sua rivoluzione. Ed è quindi con questo approccio generale che il PRC ribadisce il proprio sostegno incondizionato a Cuba in questo difficile frangente.
Io avrei chiesto anche della cooperazione di Castro con Ahmadinejad; di come l’Iran sia interessato a giocare un ruolo in America Latina; di come Castro appoggi lo stesso Iran nello sviluppo del suo armamento nucleare; di come il Lider Maximo sia interessato all’islam (leggi: sviluppo del "comunislam" e ammirazione per il defunto ayatollah Khomeini); della collaborazione nelle biotecnologie col il "pazzo" di Teheran, e quindi con un possibile trasferimento di know-how chimico e biologico (leggi: costruzione di armi chimiche e batteriologiche) all’Iran...
Sì, povero Comandante (sic!), vittima sempre di questi sporchi yankee !