Un ordigno ad alto potenziale, costruito artigianalmente, con esplosivo collegato a una bombola del gas
Bomba esplode davanti alla Procura Generale di Reggio Calabria
lo hanno posto due uomini col volto coperto da caschi alle 4,50 di domenica mattina *
REGGIO CALABRIA - Un ordigno è stato fatto esplodere l nella domenica mattina davanti all’ingresso dell’ufficio del Giudice di pace di Reggio Calabria, che si trova accanto al portone della Procura generale, in piazza Castello. L’esplosione ha provocato danni al portone, scardinando un’inferriata. Fortunatamente nessun passante si trovava nella zona quando c’è stata la deflagrazione. L’ordigno, ad alto potenziale, è stato costruito artigianalmente, con esplosivo collegato a una bombola del gas. Sul posto sono intervenuti i Vigili del fuoco e i Carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria che hanno avviato le indagini. I carabinieri, che non fanno al momento ipotesi sugli autori del gesto, hanno sequestrato quel che resta dell’ordigno per accertamenti.
DUE UOMINI CON CASCHI - Sono stati due uomini con il volto coperto da caschi da motociclista a collocare l’ordigno al portone di ingresso della Procura generale di Reggio Calabria intorno alle 4,50 di domenica mattina. Lo ha riferito il procuratore generale, Salvatore Di Landro, incontrando i giornalisti. «Dalla telecamera di servizio - ha detto - è stato possibile notare che due individui, che indossavano i caschi e che sono giunti a bordo di un motorino, hanno depositato l’ordigno composto da una bombola di gas e da materiale esplodente. Siamo certi che si tratti di un grave attentato perpetrato dalla criminalità organizzata». Il procuratore generale, incontrando i giornalisti, ha espresso forte preoccupazione per il gravo atto intimidatorio. Di landro ha puntualizzato che in un primo momento si era sperato che il gesto fosse rivolto contro gli uffici del giudice di pace, ma successivamente, vista la potenzialità dell’ordigno e le modalità professionali con cui lo stesso è stato posizionato e soprattutto costruito, si è ritenuto che l’attacco avesse come obiettivo gli uffici della procura generale. «Voglio ricordare - ha detto il procuratore - che l’ufficio della procura si occupa della confisca e del sequestro dei beni, e dei procedimenti di appello contro le cosche della criminalità organizzata. Chiederò nel corso del vertice con il prefetto maggiori controlli delle forze dell’ordine e maggiore vigilanza dei nostri uffici, ma soprattutto un maggior controllo da parte degli uffici preposti». Lo stesso procuratore ha detto che le prime indagini saranno svolte dalla procura distrettuale di Reggio Calabria che è già al corrente e che successivamente passeranno per competenza a Catanzaro, tribunale competente dei reati contro i magistrati della Corte d’appello di Reggio Calabria.
ATTENTATO SIMILE A BAR DI PARENTI DI UN PENTITO - Un attentato analogo a quello compiuto contro la Procura generale di Reggio Calabria, con l’utilizzo di una bombola di gas ed esplosivo, è stato compiuto, sempre domenica mattina, ai danni di una pescheria situata nel quartiere Santa Caterina, alla periferia nord di Reggio, mentre un altro era stato compiuto prima di natale ai danni di un bar i cui titolari sono legati da vincoli di parentela con il collaboratore di giustizia Emilio Di Giovine. Di Giovine è considerato dagli investigatori un boss della ’ndrangheta operante a Milano e trafficante di armi e droga. Tra l’altro, recentemente, il suo avvocato ha chiesto la sua audizione da parte della Commissione sulle ecomafie dopo che Di Giovine avrebbe riferito di essere a conoscenza di particolari sull’affondamento di navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi nei mari italiani.
NAPOLITANO: «PIENO SOSTEGNO A MAGISTRATI» - Appresa la notizia del grave atto intimidatorio compiuto questa notte agli uffici della Procura Generale di Reggio Calabria, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha espresso ai Capi degli uffici inquirenti della Città la sua solidarietà e la vicinanza del Paese a tutti i magistrati reggini. Il Capo dello Stato, si legge in una nota del Quirinale, ha manifestato il convinto apprezzamento e il forte incoraggiamento alla tenace azione, assieme alle forze dell’ordine, di contrasto della criminalità, assicurando il pieno sostegno delle istituzioni.
GRASSO: «SOLIDARIETÀ AI COLLEGHI» - «Esprimo la mia solidarietà al procuratore generale di Reggio Calabria e a tutta la magistratura della città che è stata vittima di un gravissimo atto intimidatorio» ha detto il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. «Sono vicino - ha aggiunto - al procuratore generale Salvatore Di Landro, al procuratore Giuseppe Pignatone e a tutti i colleghi». Grasso che ritiene ancora prematuri i tempi per giungere a conclusioni investigative sull’attentato ha proseguito: «Anche se si tratta di una bomba rudimentale e certo non piazzata, vista l’ora in cui i due criminali hanno agito, per uccidere, gli attentatori hanno certamente ottenuto l’effetto che volevano».
* Corriere della Sera, 03 gennaio 2010
La ’ndrangheta e la svolta del tritolo
così l’altra mafia ha scelto la guerra
di ROBERTO SAVIANO *
CHI parla di mafia diffama il Paese? Chi parla di mafia difende il Paese. Le organizzazioni criminali contano molto: solo con la coca i clan fatturano sessanta volte quanto fattura la Fiat. Calabria e Campania forniscono i più grandi mediatori mondiali per il traffico di cocaina. Si arriva a calcolare che ’ndrangheta e camorra trattano circa 600 tonnellate di coca l’anno, ed è una stima per difetto. La ’ndrangheta - come dimostrano le inchieste di Nicola Gratteri - compra coca a 2.400 euro al kilo e la rivende a 60 euro al grammo, guadagnando 60.000 euro. Quindi con meno di 2.400 euro di investimento iniziale, percepisce una entrata pulita di 57.600 euro. Basta moltiplicare questa cifra per le tonnellate di coca acquistate e distribuite da tutte le mafie italiane e diventa facile capire la quantità di denaro di cui dispongono, al netto di cemento ed estorsioni.
E raffrontarla con il peso industriale delle imprese leader - che hanno molti meno profitti - per comprendere il potere che oggi hanno realmente nel paese e in Europa le organizzazioni criminali.
Proprio dinanzi a fatti come l’attentato di Reggio Calabria diventa imperativa la necessità di capire. È la conoscenza che permette di capire cosa stia accadendo. E non raccontare questa azione come un episodio avvenuto in un altro mondo, in un altro 1paese. Un paese di quelli lontani dove una bomba o un morto rientrano nel quotidiano. Le organizzazioni criminali italiane quando agiscono e quando decidono di mandare un segnale, sanno perfettamente cosa fanno e dove vogliono arrivare. La bomba non è stata messa davanti a una caserma, né alla sede della Direzione Antimafia, ma alla Procura generale. Il messaggio, dunque, è rivolto alla Procura Generale. E forse - ma qui si è ancora nel territorio delle ipotesi - a Salvatore Di Landro, da poco più di un mese divenuto Procuratore generale. Da quando si è insediato, il clima non è più quello che le ’ndrine reggine conoscevano. Le cose stanno cambiando e le ’ndrine non apprezzano questo cambiamento. Preferirebbero magari che le difficoltà burocratiche e certe gestioni non proprio coraggiose del passato possano continuare. Le mafie sanno che la giustizia italiana è complicata e spesso così lenta che è come se un bambino rompesse un vaso a sei anni e la madre gli desse uno schiaffo quando ne ha compiuti trenta.
Se volessero, le cosche potrebbero far saltare in aria tutta Reggio Calabria. La ’ndrangheta possiede esplosivo c3 e c4. Decine di bazooka. Perché, allora, far esplodere una bomba artigianale davanti alla Procura, quasi fosse una lettera da imbucare? Evidentemente non volevano colpire duramente, ma lanciare un primo segnale, dare inizio a un "confronto militare". Anche l’operatività potrebbe essere stata di una sola famiglia, con una sorta di silenzio-assenso delle altre che in questo modo hanno reso il gesto collettivo.
Ora bisogna accendere una luce su ogni angolo della Procura generale, stare al fianco di chi sta attuando questo cambiamento. Capire se le ’ndrine vogliono che una corrente prevalga sull’altra. Capire, parlarne, dare visibilità alla Calabria, alle dinamiche che legano imprenditoria, criminalità, massoneria, politica in un intreccio che fattura miliardi di euro di cui nessuno viene investito in Calabria e tutti fuori. Da Montreal a Sidney. E alla solita idiozia che verrà ripetuta a chi scrive di questi temi, ossia di essere "professionisti dell’antimafia", occorre rispondere che il vero problema è che esistono troppi "dilettanti" dell’antimafia.
Le mafie stanno alzando il tiro. O almeno, si sente in diversi territori una forte tensione. Dovuta a diversi motivi, non ultima la chiusura di importanti processi, come il terzo grado del processo Spartacus di cui fra pochi giorni verrà pronunciata la sentenza. I Casalesi potrebbero agire militarmente dopo una condanna definitiva. Avevano nei loro referenti politici una sorta di garanzia che si sarebbero occupati dei loro processi. In caso di ergastoli, gli inquirenti temono risposte e l’attenzione mediatica dovrebbe essere massima, ma non lo è.
A Reggio Calabria l’arresto di Pasquale Condello, nel giugno dell’anno scorso, fatto dai Carabinieri comandati da una leggenda del contrasto alle ’ndrine, il colonnello Valerio Giardina, ha rotto gli equilibri di pace. Pasquale Condello detto "il supremo" era riuscito a mettere pace tra le ’ndrine di Reggio dopo una faida tra 1985 e il 1991 tra i De Stefano-Tegano e Condello-Imerti che aveva portato ad una mattanza di più di mille persone. Condello faceva affari ovunque: senza un suo si o un suo no nulla sarebbe potuto accadere a Reggio. Quindi è anche alla sua famiglia che bisogna guardare per capire da dove è partito l’ordine della bomba. La sua capacità di aprire verticalmente e orizzontalmente i propri affari era la garanzia di pace. All’inizio di ottobre, la famiglia Condello è persino riuscita ad ottenere la lettura delle parole di felicitazione diBenedetto XVI trasmesse nella cattedrale di Reggio Calabria da don Roberto Lodetti, parroco di Archi, agli sposiCaterina Condello e Daniele Ionetti: la prima, figlia diPasquale; il secondo, il figlio diAlfredo Ionetti, ritenuto il tesoriere della cosca. "Increscioso e deplorevole" ha definito l’episodio il settimanale diocesano l’Avvenire di Calabria. La prassi vuole che quando gli sposi desiderano ricevere un telegramma o una pergamena del papa, ne facciano richiesta al parroco o ad un prete di loro conoscenza, il quale trasmette la richiesta all’ufficio matrimoni della Curia. Non è il telegramma a destare scandalo quanto piuttosto il via libera dato dalla Curia reggina per le nozze in cattedrale di due rampolli di una potentissima ’ndrina calabrese. Difficile credere che non si sia prestata attenzione ai cognomi dei due sposi. Anche perché Caterina Condello e Daniele Ionetti sono cugini di primo grado e il diritto canonico (art. 1091) consente un matrimonio tra consanguinei solo con motivata dispensa richiesta dal parroco e sottoscritta dal vescovo.
Il clan Condello da oltre 25 anni ha comandato a Reggio. I matrimoni dovrebbero essere molto controllati e i preti dovrebbero davvero interessarsi alla motivazione delle unioni. Nel 2003 fu sequestrata una lettera a Cesena a casa di Alfredo Ionetti, lettera scritta dalla moglie del Supremo, Maria Morabito. In questa lettera spedita a un’amica si parlava dell’altra figlia femmina, Angela: "Cara Anna (...) mia figlia ha dovuto lasciare un bel ragazzo solamente perché, nel passato, alcuni suoi parenti erano nemici di mio marito (...) Non c’è stato niente da fare, hanno dovuto smettere (...) Avevo sperato in un futuro migliore per mia figlia, che sarebbero stati bene insieme. (...) Ma dobbiamo portare la nostra croce...".
Le famiglie di Reggio vivono di questi vincoli, e spesso le prime vittime sono i familiari. In questo contesto, rompere il ruolo del sacramento religioso come patto di sangue tra mafiosi è qualcosa che solo i sacerdoti coraggiosi - e per fortuna ce ne sono - possono fare.
È importante che le istituzioni diano una risposta forte dopo la vicenda dell’attentato in Calabria. Quindi è bene che Maroni visiti Reggio, ma dovrebbe farlo anche il Ministro della Giustizia. Ai messaggi mafiosi bisogna rispondere subito, duramente, e soprattutto comprendendoli e non lasciandoli passare come un generico assalto alle istituzioni. Le mafie sanno che la più grande tragedia e la più grande festa non durano per più di cinque giorni. Quindi l’attenzione si abbassa, il giunco si cala e passa la china. Oggi la situazione storica sembra pericolosamente somigliare a quella già passata in Sicilia. Non è questo un governo con la priorità antimafia, non è questa un’opposizione con una priorità antimafia. Nonostante gli sforzi degli arresti.
Ad esempio: la legge sulle intercettazioni. Nella lotta alla mafia sono uno strumento indispensabile. E ora diviene talmente difficile poterle fare e ancora più poterle far proseguire per un tempo adeguato per ottenere dei risultati, che la macchina della giustizia viene nuovamente oberata di burocrazia, rallentata. Si rischia di privare gli inquirenti dell’unico strumento capace di stare al passo con una criminalità che dispone di ogni mezzo moderno per continuare a fare i propri interessi. Se i magistrati si trovano davanti a grossissime limitazioni nell’uso delle intercettazioni, è come se dovessero tornare a combattere con lo schioppetto contro chi possiede nel proprio armamentario ogni sofisticato dispositivo tecnologico. L’altro problema sta in ogni disegno che cerca di accorciare i tempi processuali. Abolito il patteggiamento in appello, resta in vigore il rito abbreviato. Per un mafioso è conveniente: così - fra vari sconti e discrezionalità della pena valutata dai giudici - va a finire che spesso un boss può cavarsela con cinque anni di galera. Per lui e il suo potere non sono nulla, anzi sono quasi un regalo. E questa situazione col disegno sul processo breve cambia, ma solo in peggio.
Per i reati di mafia bisogna fare il contrario: creare un sistema più certo e più serio delle pene, tale da rendere non conveniente essere mafiosi. La pena deve essere comminata in dibattimento, senza possibilità di abbreviazione del rito. Lo stato non può rinunciare a celebrare processi regolari contro chi si macchia di certi reati e, peggio ancora, inquina il suo stesso funzionamento. Non si tratta di giustizialismo, ma semplicemente dell’esigenza che una condanna equa scaturisca da un processo fatto come si deve.
Questo governo agisce soprattutto a livello di ordine pubblico. In primo luogo con gli arresti, che divengono l’unica prova dell’efficacia della lotta alla mafia. Ma l’esecutivo non ha approntato strumenti per colpire il punto nevralgico delle organizzazioni criminali: la loro forza economica. Sì certo, i sequestri di beni ci sono, ma i sequestri dei beni materiali sono il risultato di imprese che invece ancora proliferano e di un sistema economico che non è stato affatto aggredito. Sul piano legislativo sarebbe gravissimo reimmettere all’asta i beni dei mafiosi. Li acquisterebbero di nuovo. Lo scudo fiscale per le mafie è un favore. E questa è la valutazione di moltissimi investistigatori antimafia. Bisogna fare invece altro. Intervenire sul piano legislativo altrove. Cominciare col mettere uno spartiacque tra i reati comuni e quelli della criminalità organizzata. Ma bisogna anche smettere una volta per tutte di definire "diffamatori" coloro che accendono una luce sui fenomeni di mafia. Anche perché non è purtroppo con l’episodio di Reggio che si chiude una vicenda. Questo è soltanto l’inizio.
© 2010 Roberto Saviano.
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency
© la Repubblica, 5 gennaio 2010
Bomba al tribunale di Reggio Calabria, l’ira dei clan per i beni nel mirino
In Calabria un pezzo del pool di Palermo: ed è scattata la sfida
Tesori sequestrati e maxi condanne
ecco perché i boss hanno alzato il tiro
di FRANCESCO VIVIANO *
I BOSS della ’ndrangheta avevano già preso le loro contromisure il giorno stesso dell’arrivo da Palermo del nuovo procuratore della Repubblica, Giuseppe Pignatone. Correva la primavera del 2008. Qualcuno era riuscito a piazzare una microspia nell’ufficio di uno dei sostituti più impegnati della Dda, Nicola Gratteri. Così, sperava di carpire le conversazioni fra i magistrati e gli investigatori sulle inchieste cruciali riguardanti la ’ndrangheta, quelle sui traffici di droga, gli appalti, la sanità, i rapporti fra mafia e politica. Ma uno dei primi atti di Pignatone fu quello di disporre una bonifica elettronica della Procura. Niente altro che un atto di routine, che subito fece saltare fuori la microspia.
L’inchiesta, finita per competenza a Catanzaro, ha appurato che il dispositivo elettronico aveva breve gittata. Chi ascoltava, dunque, si trovava probabilmente all’interno del palazzo di giustizia calabrese. Gli inquirenti sembrano non avere ormai più dubbi: la ’ndrangheta potrebbe contare su alcune talpe. Quella cimice doveva essere il benvenuto dei padrini a Pignatone e alla sua squadra.
Il nuovo procuratore si è portato appresso un altro mastino, Michele Prestipino, oggi procuratore aggiunto: con lui in Sicilia ha coordinato tante inchieste sulla mafia, l’ultima quella sul capo dei capi di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, ammanettato da Renato Cortese, oggi capo della squadra mobile di Reggio Calabria. La corazzata antimafia ha subito dato man forte a quei pubblici ministeri, e tra questi Nicola Gratteri, che danni conducono delicate inchieste sulla ’ndrangheta.
La nuova squadra dell’antimafia preoccupa e molto i mafiosi calabresi. Di recente, è arrivato anche il nuovo corso della Procura generale, ora guidata da Salvatore Di Landro, a cui saranno consegnati a breve processi d’appello delicati, quelli sull’omicidio di Salvatore Fortugno, sulla strage di Duisburg e sulle infiltrazioni mafiose sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Tutti processi che in primo grado si sono conclusi con numerosi ergastoli e pesantissime condanne.
La ’ndrangheta, che mai prima d’ora aveva utilizzato segnali così forti come le bombe per intimidire magistrati ed investigatori, ha capito che le cose sono cambiate. Negli ultimi due anni, da quando si è insediato Pignatone, la Procura di Reggio insieme a quella di Palermo è quella che ha registrato più operazioni antimafia con centinaia e centinaia di arresti. Sono stati individuati i canali di approvvigionamento della cocaina, del riciclaggio; sono stati arrestati capi storici da sempre latitanti, come Giuseppe Di Stefano, ritenuto il Provenzano della Calabria, o Giuseppe Colucci, bloccato in Canada. I magistrati hanno messo in campo un’offensiva senza precedenti, che la ’ndrangheta probabilmente temeva, ma che non si sarebbe mai aspettata in tempi così brevi.
Quel che più preoccupa le cosche è adesso il metodo investigativo importato da Pignatone e dai suoi colleghi, che in pochi mesi di lavoro hanno già sferrato un vero e proprio attacco agli immensi patrimoni della ’ndrangheta. I tesori dei boss sono sparsi non soltanto nella regione, dove da sempre sono sotto controllo gli appalti pubblici e i grandi insediamenti turistici e commerciali, ma anche nel resto d’Italia e all’estero. Di recente, le inchieste hanno portato al sequestro di decine di beni tra i quali lo storico Cafè de Paris di via Veneto, a Roma, e di altri locali che in pochi anni erano passati nelle mani della criminalità organizzata calabrese. Tutti colpi durissimi che hanno messo in allarme i capi bastone, adesso alle prese con i tentativi di infiltrazione nei lavori per il ponte sullo stretto di Messina.
Ecco, probabilmente, perché adesso i padrini hanno scelto di cambiare strategia, passando alle maniere forti. Ma i magistrati e gli investigatori non hanno alcuna intenzione di indietreggiare nel loro percorso. Dicono all’unisono: "Quanto è accaduto è un evidente tentativo di intimidazione della magistratura reggina, ma che certamente non avrà risultati. A cominciare dal procuratore generale, noi continueremo a fare il nostro lavoro con impegno ancora maggiore e ringraziamo il capo dello Stato che ha espresso la sua solidarietà e la sua attenzione".
© la Repubblica, 4 gennaio 2010