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CALABRIA: SERRA D’AIELLO (Cosenza). La Casa di cura "Papa Giovanni": la reggia del prete in Harley Davidson. LA DIOCESI CERCA DA ANNI DI CEDERE LA STRUTTURA ALLA REGIONE...

venerdì 20 ottobre 2006.
 

LO SCANDALO DI COSENZA. LA PROCURA ACCUSA GLI AMMINISTRATORI DELLA CASA DI CURA: AVREBBERO INTASCATO MILIONI DI EURO DESTINATI AI PAZIENTI

La reggia del prete in Harley Davidson

Quadri e gioielli con i soldi del «manicomio»

di Marco Sodano (La Stampa, 20/10/2006)

SERRA D’AIELLO (Cosenza). I trecentosessanta fantasmi condannati a scontare la malattia mentale - chi vent’anni, chi trenta e più - all’istituto Papa Giovanni di Serra d’Aiello sono vestiti con roba di recupero. Oggi arriva un furgone carico di scarpe, domani si spera nelle maglie di lana. Nel superattico intestato all’ex presidente della Fondazione che gestisce l’istituto monsignor Alfredo Luberto, dice il faldone custodito a Palazzo di Giustizia, hanno trovato un televisore al plasma in ogni stanza, una sauna e la palestra. I dipendenti del manicomio-lager travestito da casa di cura mendicano credito dal fornaio per i loro assistiti (150 mila euro gli arretrati per il pane) e a fidano nella Provvidenza, in attesa di uno stipendio che non arriva intero da anni.

Dai conti della Fondazione qualcuno ha spiccato assegni intestati alle gioiellerie più esclusive di Roma, boutique di grido, ad alberghi a cinque stelle nei registri dei quali sono annotati soggiorni da favola «in camera matrimoniale». I dipendenti, protagonisti di proteste accese contro Luberto, raccontano che il monsignore si faceva vedere in giro a cavallo di una Harley Davidson: sembrava una battuta avvelenata, carica di livore sindacale. Oggi come oggi, una maximoto è ridotta al rango di peccato veniale. Un salotto «inestimabile» I pazienti del Papa Giovanni convivono con le zecche, i casi di scabbia sono diversi. Dormono in letti sgangherati e senza lenzuola tra servizi in condizioni penose, pareti scrostate, finestre che fanno aria: altro che ospedale, altro che casa di cura.

Il lusso più sopraffino è una cioccolata alla macchinetta nell’atrio. E invece tra i tesori acquistati dai consiglieri d’amministrazione del Papa Giovanni figura un leggio firmato Giacomo Manzù un dipinto firmato Giorgio De Chirico, un «rarissimo orologio a pressione atmosferica» e un salotto d’antiquariato che ha lasciato a bocca aperta i periti incaricati dalla Procura di Paola di valutarlo: «È inestimabile», hanno risposto lì per lì. Poi, messi alle strette dai magistrati - «Abbiamo bisogno di una cifra, almeno indicativa» - hanno azzardato: «Un pezzo del genere si paga senz’altro più di un milione».

Il blitz della Finanza

L’inventario dei tesori e delle miserie del Papa Giovanni è custodito nel fascicolo dell’indagine sul manicomio-istituto condotta dal pubblico ministero della Procura di Paola Eugenio Facciolla. Nei giorni scorsi (e dopo il reportage pubblicato da La Stampa) il magistrato ha mandato sul posto la Guardia di Finanza, che si è presentata ai cancelli alle due del mattino. Un blitz in piena regola per mettere nero su bianco le condizioni in cui vivono i malati: due ore dopo l’ispezione l’intera casa di cura è finita sotto sequestro probatorio. L’attività continua, perché non sarebbe possibile sistemare in altro modo gli ospiti, ma a questo punto non si tocca più nulla, non è ammesso neppure il più piccolo ritocco salvafaccia (alle strutture) almeno finché le indagini non saranno concluse. Quelle sull’istituto e quelle su conti correnti e proprietà delle cinque persone che hanno gestito il Papa Giovanni per conto della Diocesi di Cosenza. A cominciare dall’ex presidente Alfredo Luberto.

Nel frattempo, si attendono gli esiti degli esami clinici ordinati dal magistrato, e dopo il blitz s’è allungata la lista delle ipotesi di reato su cui lavora la Procura. Appropriazione indebita, associazione a delinquere finalizzata alla truffa, false fatturazioni, abbandono di persone incapaci. Così il gergo della Giustizia riassume l’accusa: i soldi destinati ai malati finivano in tasca degli amministratori. Lo scippo all’Antiusura Ma il lavoro di Facciolla ha scoperchiato un’altro pentolone inquietante.

Al buco nero nei conti del Papa Giovanni - 80 milioni di debito che si aggrava al ritmo di 500mila euro al mese -, s’è aggiunto un altro cratere. Scovato ne fondi antiusura gestiti dalla diocesi: anche il denaro destinato a combattere i cravattari (in una terra in cui povertà e omertà combinate rendono ancora più difficile una guerra del genere) sarebbe finito in una società-calderone architettata dai cinque indagati. La stessa società che avrebbe raccolto i milioni dei rimborsi per le prestazioni sanitarie pagati dalla Regione Calabria e dallo Stato al Papa Giovanni e mai convertiti in medicinali, stipendi per gli infermieri, abiti decenti, lenzuola eccetera eccetera. Denari spesi in boutique, in gioielleria, nei grandi alberghi, dagli antiquari.

Lussi da faraone, non da monsignore.

La palla ai politici Ora in Calabria si muove anche la politica. Il senatore di Forza Italia Antonio Gentile ha presentato un’interrogazione, chiedendo che si vegli perché «l’istituto non cada preda degli interessi non legittimi di politici locali», il deputato dell’Ulivo Franco Laratta chiede «la chiusura dell’istituto», l’assessore regionale alla sanità Doris Lo Moro assicura che si provvederà presto a trovare una soluzione per affidare la casa di cura a una gestione degna. Nel frattempo, i trecentosessanta ospiti del Papa Giovanni continuano a scontare la loro malattia. Troppo facile derubarli: dell’attico, della sauna, della palestra non sanno che farsene. E sul leggio di Manzù appoggerebbero la solita cioccolata della macchinetta, accompagnata dal ritornello con cui accolgono tutti i visitatori: «Me lo dai un euro?».


CALABRIA LA DIOCESI CERCA DA ANNI DI CEDERE LA STRUTTURA ALLA REGIONE, CHE DOVREBBE DARLA IN CONCESSIONE AI PRIVATI. DECINE DI PROMESSE, MA L’ACCORDO NON SI RAGGIUNGE MAI

-  La follia dell’ultimo manicomio.
-  Quattrocento pazienti e un mare di debiti:
-  150 mila euro solo per il pane

di Marco Sodano (La Stampa, 09.10.2006)

SERRA d’AIELLO (Cosenza) Chiamiamoli pure Luigi, Ciccio, Giuseppe, Franco, Antonio. Trecento e passa nomi, altrettanti disperati. Per gli interessati fa lo stesso: reclusi in una prigione dalle porte aperte - non saprebbero dove andare - non hanno esigenze di privacy. Ingabbiati nei loro cattivi pensieri cercano altro: «Tu ssì Giuseppe, u nipote mio? Ssu’ ventiquattr’anni che stu ‘ccà, che mi hanno chiuso qui, um’mi sì cchiù venut’atruvà», non sei più venuto a farmi visita. «Mò ne tengo sessantasei, di anni. Ssì uguale a Giuseppe, e l’amico tuo uguale a Giovanni, i nipoti miei».

Chiamiamolo Franco: il viso un groviglio di rughe, braccia gambe collo annodati dalla malattia, più che camminare incespica, «me lo dai un euro?». Come no, e la moneta accende un barbaglio di lucidità in fondo agli occhi a fessura. Pochi passi, eccola trasformata in un bicchiere al baruccio del paese. Serra d’Aiello, provincia di Cosenza: piazza deserta, due signore sulle sedie d’ordinanza, silenzio rotto da parole urlate al vento. Più che grida di dolore maledizioni, invocazioni d’aiuto, risate sgangherate. Le urla vengono dall’Istituto Papa Giovanni. Tre casermoni Anni Sessanta arroccati sull’appennino calabrese, 420 posti letto, un padiglione incompiuto, un altro sventrato per una ristrutturazione rimasta a metà. Tutt’intorno terre a perdita d’occhio, come nella storia del Gatto con gli stivali e del marchese di Carabàs: di chi è quest’uliveto? «D’u Papa Giovanni». E le piante da frutta? «Sempre d’u Papa Giovanni», e così il frantoio, le casette, e tutto il resto. Tutto del Papa Giovanni, che a sua volta è della Diocesi di Cosenza.

Il manicomio che non c’è

I manicomi non esistono più, se basta cambiare la targhetta in «istituto di riabilitazione». Ma niente come il «Papa Giovanni» somiglia a un manicomio. «Uomini e donne lasciati a terra come cartocci, letti senza lenzuola, porte e finestre sgangherate» ebbe a raccontare l’allora arcivescovo di Cosenza Giuseppe Agostino dopo una visita a sorpresa nell’aprile 2004. «Mi sono vergognato di essere uomo, cristiano, vescovo e calabrese», scrisse in una lettera pubblica Agostino definendo il (suo) istituto «una bestemmia sociale». Gli uomini e le donne lasciati a terra come cartocci sono sempre lì, sempre lì i letti senza lenzuola, le porte sgangherate: ancora lì dovrebbe essere di conseguenza la vergogna per la bestemmia sociale.

Ancora lì è, per esempio, Giuseppe (chiamiamolo così). Non arriva a 45 anni: sul punto è confuso, al posto di quella di nascita ha fissa in testa un’altra data. «Sono entrato qui nel ‘71», e doveva per forza di cose essere un ragazzo agitato da una qualunque delle declinazioni della malattia mentale: schizofrenia, depressione, alzheimer, sindromi assortite, ritardi, deficit... il Papa Giovanni non si fa mancare niente. Giuseppe indossa un’assurda maglietta con un cuore mezzo rosa e mezzo a stelle e strisce «I love America», l’America non l’ha vista mai. E invece: «A volte c’è da mangiare, a volte un po’ meno. Manca il pane, fino a qualche giorno fa mancavano le scarpe». Anche lui, alla fine, ottiene una monetina e saltella alla macchinetta del caffè, nell’atrio: la trasforma in una cioccolata calda, si siede accanto a un compare di sventura che, rincagnato sulla panchina, guarda fisso nel vuoto. Non c’è verso di strappargli una parola, un saluto, un cenno che dimostri: si è accorto di te.

Il delirio burocratico

Roba da matti, dentro e soprattutto fuori dal cancello. Da una decina d’anni il Papa Giovanni rotola su se stesso preda di un delirio burocratico che puzza di saccheggio politico: la Diocesi dovrebbe cederlo alla Regione, che è pronta a pagare il pacchetto 15 milioni. La Regione dovrebbe poi affidarlo a una società privata che lo gestirebbe in convenzione. I privati fanno la coda, perché la convenzione è un fiume di denaro che non si secca mai. Nonostante i conti siano una voragine senza fondo: trecento dipendenti che sopravvivono al 40% dello stipendio (in media, 1.200 euro al mese). Molti hanno fatto causa all’istituto: aspettano chi 20 chi 40 mensilità arretrate. Il debito complessivo si aggira intorno ai 40 milioni. Perfino «il panettiere avanza 150 mila euro» e anche per questo a volte il pane manca. «Per dar da mangiare agli ospiti andiamo al banco alimentare», spiegano gli operatori, che si affidano come Don Bosco alla Provvidenza. Anche oggi gli «ospiti» hanno ricevuto la cena, intanto la gara per la convenzione è stata bloccata per l’ennesima volta. Nonostante la coda di pretendenti: prima c’era un gruppo milanese specializzato in gestione di strutture sanitarie, poi s’è fatto avanti un imprenditore di Cosenza, ora sono in gara tre società.

Sul più bello l’affare si inceppa, soprattutto perché lassù qualcuno ha capito che il «Papa Giovanni» è una monetona sonante che vale soprattutto se - anziché spenderla - la si promette a destra e a sinistra. Raccattando promesse di fedeltà politica, crocette sulle schede elettorali, appoggi in questo e quell’affare. Nel frattempo, a mandare avanti la baracca, ci pensano i dipendenti: quest’anno si sono tassati per portare gli ospiti che stanno meglio al mare. Lo stesso fanno per le feste di Natale e Pasqua, un po’ per carità cristiana. un po’ perché dopo tanti anni agli «ospiti» vogliono bene, un po’ perché il Papa Giovanni, «con tutti i soldi che ci deve, chi lo molla?» Roba da matti.

Il valzer dei crediti

I sindacati accusano la Curia di aver spogliato il Papa Giovanni nel corso degli anni, e certo qualche affare sul bordo della follia è stato fatto. Nel dicembre 2003 monsignor Alfredo Luberto «nella sua qualità di legale rappresentante della Fondazione di religione e di culto istituto Papa Giovanni XXIII» ha ceduto i crediti vantati nei confronti delle aziende sanitarie di tutto il Sud a un imprenditore di Crotone. Non un grande affare: tre milioni 769 mila euro di crediti sono passati di mano per 500 mila euro, pagabili in due rate da 250 mila. C’è tanto di atto notarile. Sarà pur vero che le aziende pubbliche fanno penare i pagamenti, ma un imprenditore avveduto sa che in banca non è difficile farsi anticipare «pagherò» del genere al 50%: qui siamo uno a sette, con buona pace degli stipendi arretrati, del pane che arriva a singhiozzo e perfino del fornaio che aspetta i suoi 150 mila euro.

Chiamiamoli Luigi, Ciccio, Giuseppe, Franco, Antonio e avanti così. Per loro non fa differenza, per chi sta fuori neppure: la vergogna non brucia meno se nascondiamo un essere umano dietro un’identità di cortesia, così come un istituto di riabilitazione non fa meno paura di un manicomio se gli ospiti sono «gettati a terra come cartocci», nei letti niente lenzuola, le porte restano sgangherate e chi dovrebbe assistere i malati non riceve lo stipendio da anni. Roba da matti.


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