L’EDITORIALE
Montezemolo e il sogno della nuova borghesia
di EUGENIO SCALFARI *
NELLA vignetta di Altan pubblicata ieri dal nostro giornale uno dei due consueti protagonisti dice fissando l’altro: "Confindustria all’attacco" e l’altro con la mano in tasca e il basco di traverso risponde: "Speriamo in una forte risposta della Conferenza episcopale". Ha ricordato Ezio Mauro nel suo editoriale dell’altro giorno che molti anni fa, in analoghe circostanze, l’avvocato Agnelli di fronte alle pressioni di chi auspicava una sua "scesa in campo" nell’agone politico, commentò: "Ipotesi ad alto rischio. Se fallisce non resta che ricorrere a un generale o a un cardinale". I nostri generali sono leali alla Repubblica; i cardinali sono extraterritoriali, la loro verità viene da un altrove. A quindici anni di distanza uno dall’altro, Agnelli e Altan hanno colto perfettamente la fragilità della democrazia italiana quando la politica si infiacchisce e la società ripiega sui suoi "spiriti animali".
Televisioni e giornali da qualche settimana sono pieni di dibattiti e inchieste sul costo della politica. Il libro dei bravissimi Stella e Rizzo ha dato la stura ad un Niagara di dati, testimonianze, invettive, denunce, che documentano sprechi, arricchimenti illeciti, ruberie, rendite di posizione, privilegi, tutti sulla pelle e con i soldi dei cittadini, vittime designate, agnelli sacrificali di tanto malaffare.
Tra i molti pezzi di bravura nel proporre e in un certo senso imporre questa agenda all’opinione pubblica si è distinto martedì scorso Enrico Mentana in due ore e mezzo di dibattito nella sua trasmissione "Matrix". Merita di essere segnalato perché il montaggio televisivo era di rara efficacia.
Partiva documentando che il costo complessivo dell’attività politica vera e propria - stipendi dei ministri, dei parlamentari, degli eletti nelle Regioni e negli enti locali, dei loro portaborse, del finanziamento dei partiti e dei giornali di partito - ammonta a 4 e più miliardi (la stessa cifra è stata ripresa da Montezemolo nella sua allocuzione all’assemblea della Confindustria).
Ma questo è solo l’inizio, l’antipasto, incalzava Mentana dal video di Canale 5. E via una serie serrata di quadri, brevi inchieste, tabelle sinottiche da lasciarti senza fiato, nelle quali si avvicendavano le cifre del debito pubblico, gli stipendi pagati ai dipendenti dello Stato e del parastato, il costo delle Ferrovie, il peso delle imposte e infine l’intero ammontare della spesa pubblica, cioè la metà di tutto il prodotto italiano, imputato in blocco al costo della politica. In studio due o tre personaggi con volti gravi e occhi spiritati annuivano e rilanciavano. Quando ho spento il televisore (era quasi l’una dopo mezzanotte) ero francamente spaventato. A tal punto che lo stesso dibattito mi è ricomparso in sogno con le sembianze dell’incubo e la sensazione di essere fisicamente stritolato da una morsa che si stringeva su di me togliendomi l’aria e il respiro. Enrico Mentana, quando ci si mette, è bravo, non c’è che dire.
Il 27 dicembre del 1944 Guglielmo Giannini fondò il settimanale "L’Uomo qualunque", che ebbe come insegna un omino inerme schiacciato da un torchio. Il primo numero tirò 25 mila copie ma appena cinque mesi dopo, nel maggio del ’45, era già arrivato a 850 mila.
Lo scopo del settimanale era di dar voce all’uomo della strada contro i partiti di qualunque colore, contro lo Stato, contro il centralismo, ovviamente contro il comunismo e contro "gli antifascisti di professione". Il 21 giugno di quello stesso anno nasce il governo presieduto da Ferruccio Parri che per Giannini diventò il bersaglio numero uno. Lo scontro aumentò il successo del settimanale. Sotto la spinta d’un vento così favorevole Giannini fondò il partito dell’Uomo qualunque; si aprirono sedi in tutta Italia, il giornale superò il milione di copie, fu tenuto a Roma il congresso di fondazione.
Il programma approvato all’unanimità "concepisce lo Stato come semplice ente amministrativo e non politico. Lo Stato deve essere presente il meno possibile nella società. L’economia deve essere lasciata totalmente ai privati in un sistema totalmente liberista". I punti cardine del partito enumerati nel programma erano: Lotta al comunismo. Lotta al capitalismo della grande industria. Propugnazione del liberismo economico individuale. Limitazione del prelievo fiscale. Negazione della presenza dello Stato nella vita sociale del Paese.
Il 2 giugno del ’46 "L’Uomo qualunque" si presentò alle elezioni per l’Assemblea Costituente, ottenendo 1.211.956 voti, pari al 5,3 per cento, diventando il quinto partito italiano dopo la Dc, i socialisti, il Pci e l’Unione Democratica Nazionale di Croce, Orlando, Nitti. Ebbe 30 deputati. Nel ’47, quando De Gasperi ruppe con le sinistre, l’Uomo qualunque appoggiò il governo centrista, ma questo fu l’inizio della sua fine. I qualunquisti finirono per confluire nel Partito monarchico e nel neonato Movimento sociale. Fino al 1947 il giornale e il partito ricevettero sostegno finanziario dalle associazioni agrarie meridionali e dalla Confindustria.
Qualunquismo, antipolitica, populismo, demagogia: sono quattro parole che configurano modalità ed esprimono modi di sentire abbastanza simili, pur non essendo termini sinonimi. Nella vita pubblica italiana queste modalità e questi sentimenti rappresentano una costante da molti anni, dalla fondazione dello Stato unitario ma anche prima, soprattutto nelle province del Mezzogiorno. Una costante, ma per fortuna non una dominante se non a tratti e per brevi periodi. Per diventare dominante ci vogliono condizioni che esaltino quella costante e la propaghino nella psicologia di massa.
Una condizione è la debolezza dell’autorità politica. Un’altra è la debolezza delle organizzazioni dei lavoratori. Un’altra ancora è l’assenza d’una borghesia forte e responsabile. E il proliferare delle corporazioni e dei sindacati corporativi. L’ultima condizione infine è la presenza di demagoghi e populisti capaci di cavalcare il qualunquismo e trasformarlo in una forza d’urto che pervada le istituzioni e le offra al potere dei demagoghi di turno.
Ho letto con molta attenzione l’omelia, o se volete la "lectio magistralis" di Luca Cordero di Montezemolo e ne ho sottolineato i passi salienti, i punti di consenso e quelli - dal mio punto di vista - di dissenso. Poiché molti amici e lettori mi hanno chiesto di esprimere un’opinione in proposito, dirò che i punti di consenso sono nettamente superiori a quelli di dissenso, sicché - sia pure con alcune note a margine - potrei concludere con un’approvazione finale.
Le note a margine riguardano: 1. Il mancato riconoscimento del risanamento finanziario come premessa indispensabile della ripresa economica. 2. Il merito della ripresa attribuito soltanto agli imprenditori e al mercato. 3. Il silenzio sulle responsabilità di molti imprenditori in operazioni truffaldine che hanno pesantemente colpito il risparmio e la fiducia. 4. Le leggi e le politiche dissennate del quinquennio berlusconiano, per terminare con una legge elettorale votata da tutto il centrodestra a cominciare dall’Udc di Casini, che ha reso ingovernabile il Parlamento e il Paese.
Non sono note a margine trascurabili, ma le tralascio: sono state già segnalate e approfondite nei giorni scorsi, sicché le do per note, lo stesso Montezemolo del resto mi pare che le abbia riconosciute come valide e ne abbia fatto ammenda.
Confermo che, nonostante tali rilievi, la "lectio" confindustriale mi pare meritevole di consenso. Però...
Il punto in questione riguarda la nascita d’una nuova borghesia. Montezemolo ha più volte insistito su questo aspetto e c’è ritornato nelle dichiarazioni del giorno dopo: è nata una nuova borghesia che sta facendo la sua parte. Lavora come e più di tutti. Effettua investimenti. Innova i prodotti e i processi di produzione. Accorcia lo svantaggio competitivo. Ha ridato slancio alle esportazioni.
In forza di questi meriti la nuova borghesia chiede, anzi pretende: meno tasse sulle imprese, piena mobilità del lavoro, ammortizzatori sociali adeguati, liberalizzazioni in tutti i settori, riforma delle pensioni in armonia con gli andamenti demografici, riconoscimento del merito in tutti i settori e a tutti i livelli.
La nuova borghesia ha già fatto ciò che il Paese si attendeva e continuerà a farlo, ma non può esser lasciata sola. Il governo finora è stato inadeguato e indeciso. Partiti e Parlamento altrettanto o peggio. Opposizione forse pure. Si mettano dunque al passo. Gran parte di queste richieste sono condivisibili, anzi sacrosante. Per quanto ci riguarda le sosteniamo da mesi, anzi da anni. Ma l’osservazione che qui solleviamo riguarda la nuova borghesia, innovatrice, liberista e liberale, corretta con le regole del mercato. E dunque meritevole. Con quel che segue.
È già nata questa nuova borghesia, amico Montezemolo? E quando? Lei stesso fa datare il risveglio, la ripresa, l’innovazione a due-tre anni fa. Più o meno dall’inizio della sua presidenza in Confindustria. Prima di allora, è verissimo, l’innovazione era ridotta ai minimi termini, gli investimenti languivano, il Pil aveva addirittura cessato di crescere. Crescita zero. Non voglio discutere le sue capacità salvifiche ma chiedo: in tre anni, in un paese dal quale la borghesia è scomparsa da almeno vent’anni, ce la troviamo rinata all’improvviso come Minerva che uscì armata di tutto punto dalla testa di Zeus? Non è credibile. Le esportazioni sono aumentate. Verso quali aree del mondo e in quali settori della produzione? Lei lo sa benissimo. Perché non lo ha detto?
Gli investimenti. Quelli privati la soddisfano perché sono aumentati di ben il 2,3 per cento. Ma più oltre lei lamenta che quelli pubblici sono aumentati "soltanto" del 4 per cento. Quattro non è forse il doppio di due? C’è un punto della sua relazione in cui lei, giustamente, lamenta l’evasione fiscale enorme e il sommerso altrettanto enorme. Ha ragione. Ma chi evade? E chi si sommerge? Che mestieri fanno i sommersi e gli evasori? Fanno molti e vari mestieri, ma concederà che quelli che pagano con il sostituto d’imposta evadono infinitamente meno di tutti gli altri. Ne dobbiamo dedurre che gli evasori sono tutti e soltanto i liberi professionisti?
Lei non ha parlato delle violazioni delle regole di mercato. Uno dei suoi vicepresidenti seduto accanto a lei ne rappresenta un luminoso modello: quello di aver controllato fino a ieri la più grande società per azioni italiana rischiando in proprio l’1 per cento del capitale. Sono questi i meriti da imitare e riconoscere?
Gentile presidente di Confindustria, di Fiat, di Ferrari e di parecchie altre iniziative certamente meritevoli, noi abbiamo la sensazione che la nuova borghesia non sia ancora nata e - purtroppo - sia ancora sulle ginocchia di Giove. Lei fa benissimo ad auspicarla. Fa benissimo a dedicare i tre quarti del suo discorso ad una politica insufficiente e indecisa. Fa benissimo a parlare più da cittadino che da capo della sua associazione. Ci ruba un po’ il mestiere, ma ben venga.
Per fortuna per farci conoscere qualche cosa di più approfondito sui problemi dell’industria italiana c’è stato, dopo il suo, l’intervento del ministro Bersani. Se la platea dell’Auditorium fosse stata popolata dalla nuova borghesia, Bersani avrebbe avuto applausi appena appena inferiori a quelli avuti da lei. Non la pensa anche lei così? Non l’ha un po’ colpita constatare che l’ovazione più lunga al suo discorso è venuta quando lei ha scandito che gli industriali non pagheranno un solo euro di più di tasse? Dichiarazione ineccepibile. Da sottoscrivere. L’aveva già detto Mario Monti. Non parliamo di Giavazzi. Vedrà che il 31 maggio lo ripeterà Draghi e sarà più d’una triade, sarà un quadrumvirato. Ci vogliamo aggiungere anche Pezzotta e i cardinali? Per finanziare tutte le richieste che vengono i soldi ci sono: basta cancellare il debito con un colpo di bacchetta, abolire la spesa pubblica seguendo le indicazioni di Matrix, e oplà, non è poi così difficile. I soldi si trovano sempre. Basta decidere da quali tasche prenderli.
Lei mi risponderà: dal sommerso e dall’evasione. Perfetto, è il programma del governo Prodi. Visco ci sta provando e qualche risultato è già arrivato. Forse è per questo che stanno facendo il tiro a bersaglio su di lui. Le do una cifra, amico Montezemolo: la vecchia borghesia - la sola che l’Italia abbia avuto in 150 anni di storia unitaria, la cosiddetta destra storica - pagò attraverso l’imposta fondiaria il 52 per cento di tutte le entrate tributarie dello Stato nel periodo in cui governò, tra il 1861 e il 1876. Il 52 per cento. Era una borghesia composta interamente da proprietari fondiari. Le entrate extra tributarie vennero dalla vendita dei beni ecclesiastici, avocati allo Stato e venduti da Marco Minghetti.
Purtroppo tarderà a nascere, se nasce, una borghesia di quel conio, che nazionalizzò le ferrovie e le assicurazioni sulla vita.
* la Repubblica, 27 maggio 2007
Confindustria - Assemblea 2007 Intervento del Presidente Luca Cordero di Montezemolo
Tanto per ricordare qualcosa degli anni recenti, nel sito, si cfr.:
Non posso stare zitto.
di don Aldo Antonelli
Mi giro e mi rigiro nel mio letto, pensando e ripensando ai dati letti ieri sera che mi sento bruciare le lenzuola.
Si è scatenata una tale bagarre sul costo della politica (che, sia chiaro, non difendo in modo più assoluto) da far sentire in giro odore di zolfo... Quasi che l’affaire fosse parto della politica "comunista" al governo.
Il gioco del "dagli all’untore" è di antica data, ma trova sempre di rigenerarsi sotto le vesti della modernità e, meglio, della attualità, da risultare sempre nuovo. Mentre diventa l’arma inossidabile dei lestofanti che vogliono farsi passare per benefattori e dei lupi che amano travestirsi da miti agnelli.
E perchè nenache voi veniate distratti dagli untuosi untori di turno, eccovi la bellissima lettera a Luca Cordero di Montezemolo che Marco Travaglio ha pubblicato e la sdegnosa reazione dell’amico Enrico Peyretti di Torino a questo gioco del nascondino.
Buona lettura e buona giornata, nonostante tutto.
Aldo [don Antonelli]
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Lettera di Marco Travaglio
Gentile Luca Cordero di Montezemolo,
il presidente di Federmeccanica, che fa parte della Confindustria, dice che l’aumento di 100 euro all’anno chiesto dagli operai è "una proposta ridicola" perché ci metterebbe "fuori dal mercato". E lei ha dichiarato che la ripresa economica dell’Italia è "esclusivamente merito delle imprese". Eppure lei stesso ripete sempre che un’impresa non è fatta solo dagli imprenditori e dai manager, ma anche dai lavoratori. Dunque tutti dovrebbero essere premiati per il loro lavoro.
Invece i manager in Italia guadagnano molto di più dei loro colleghi del resto d’Europa, mentre i lavoratori molto di meno.
In Italia un operaio guadagna in media, al lordo, 21 mila euro, contro i 29 mila della Francia, i 32 della Svezia, i 35 del Belgio, i 37 dell’Olanda, i 39,7 della Gran Bretagna, i 41 della Germania, i 42 della Danimarca.
Qualche anno fa, un tale disse: "se i nostri operai guadagnano poco, le macchine che gli facciamo costruire chi se le compra?"
Tra il 2000 e il 2005, secondo l’Eurispes, in Europa gli stipendi sono aumentati del 20%, in Italia del 13,7. Da noi gli stipendi dei lavoratori aumentano ogni anno del 2,7%, mentre quelli dei manager del 17%, otto volte l’inflazione. Le stipendio medio dei primi cento top manager italiani è di 3,4 milioni all’anno, 7 miliardi di lire: guadagnano 160 volte lo stipendio di un operaio, prendono in due giorni quello che un operaio prende in un anno.
In ogni caso la Fiat, con le sue mani e con la cassa integrazione, s’è rimessa in sesto grazie a un manager come Marchionne. Che dunque si merita tutti i 7 milioni di euro che guadagna all’anno, poco meno di quelli che guadagna lei. Ma, se il mercato ha un senso, chi ottiene risultati dovrebbe guadagnare molto e chi va male dovrebbe guadagnare poco, o farsi da parte.
Mi sa spiegare allora perché, visto come va la Telecom, il manager più pagato d’Italia è proprio Carlo Buora della Telecom, con 18.860 milioni di euro nel 2006 tra stipendio e liquidazione Pirelli? E perché Tronchetti
Provera guadagna come Marchionne che ha risanato la Fiat? Poi c’è Cimoli, che ha così ben ridotto l’Alitalia: guadagna 12 mila euro al giorno, quello che un operaio guadagna in un anno. Il presidente di Air France guadagna un terzo: ma la compagnia francese è in attivo, mentre la nostra perde un milione al giorno. Dopo 2 anni e mezzo disastrosi, col buco Alitalia salito a 380 milioni, Cimoli per andarsene ha pure preso 5 milioni di liquidazione. Alberto Lina è l’amministratore delegato dell’Impregilo, capo-gruppo della ditta che smaltisce così bene i rifiuti in Campania: guadagna addirittura più di lei, 7,3 milioni.
Anche lui prende in un giorno quanto un suo operaio guadagna in un anno.
Dov’è il mercato?
Dov’è la meritocrazia?
La prima regola del mercato è che tutti rischiano qualcosa, e chi sbaglia paga. Voi top manager, invece, non rischiate mai nulla. Se avete successo, vi aumentate lo stipendio. Se fallite, ve lo aumentate lo stesso. Se vi cacciano, ci guadagnate una fortuna con le superliquidazioni. Poi passate a far danni da un’altra parte. E se non garantite la sicurezza o la salute dei vostri dipendenti, loro pagano con la vita, per voi c’è l’indulto. Con la certezza di morire di morte naturale, nel vostro letto. Gli operai invece muoiono al lavoro come le mosche, al ritmo di quattro al giorno.
Andare a lavorare, in Italia, è più pericoloso che andare in guerra. Ogni anno muoiono 1250 lavoratori italiani, la metà delle vittime delle Torri gemelle, meno dei morti di tutto il mondo per attentati terroristici. E un milione restano feriti.
Ora lei, dottor Montezemolo, è preoccupato che il tesoretto si disperda in mille rivoli. Giusto. Ma perché non parlate mai del tesorone dell’evasione fiscale, 200 miliardi l’anno? E del tesorone del lavoro nero e sommerso, il 27% del pil, cioè 400 miliardi? E del tesorone delle mafie, 1000 miliardi di euro? La legge sul falso in bilancio varata dal governo Berlusconi e finora confermata, in barba alle promesse elettorali, dal governo Prodi, consente a ogni impresa di occultare dai bilanci fino al 5% dell’utile prima delle imposte, al 10% delle valutazioni e all’1% del patrimonio netto. Centinaia di milioni di nero legalizzato per ogni grande gruppo.
Una sorta di modica quantità di falso in bilancio consentita, come per la droga, per uso personale. Non vi vergognate di una situazione del genere, che vi rende tutti sospettabili? Il "mercato" è anche 25 anni di galera per chi trucca i bilanci, come in America: o no? Perché allora non avete detto una parola contro la depenalizzazione del falso in bilancio? Perché Confindustria non fa una grande battaglia per importare in Italia la legge americana sui reati finanziari?
Vedrà che, recuperando un po’ di evasione, si potranno garantire case, asili e pensioni al popolo dei 1000 euro al mese, che con un giusto aumento di stipendio potrebbero fare un bel passettino in avanti. Perchè, come diceva quel tale, "se gli operai guadagnano poco, le macchine che costruiscono chi se le compra?".
A proposito: lo sa chi era quel tale? Non era Marx, e nemmeno il subcomandante Marcos.
Era l’avvocato Agnelli.
In attesa di un cortese riscontro, porgo distinti saluti.
Marco Travaglio
Maggio 2007
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Messaggio di Enrico Peyretti
La casta dei provocatori.
Ai dati impressionanti provocatori e offensivi riferiti qui da Travaglio - il costo della casta non dei politici, ma dei grandi manager che condannano, per bocca di Montezemolo, i politici - , va aggiunto il dato fornito da Giovanni De Mauro, direttore di "Internazionale", a p. 3 del numero 694, di ieri 25 maggio: "... cinquanta milioni di euro che ha appena preso Matteo Arpe per andare via da Capitalia".
Se non sbaglio 50 milioni di euro equivalgono (x quasi 2.000) a quasi 100 miliardi di vecchie lire. Fa più impressione. Se un operaio o un impiegato (e sono ben pochi!) prende 1.500 euro al mese, mette insieme in un anno (x 12) 18.000 euro. Cento dipendenti così ben pagati sommano, tutti insieme, un milione e ottocentomila euro. Giusto? 1.800.000 x 25 anni = 45 milioni. Giusto? Me la cavo male coi calcoli. Dunque, cento dipendenti devono lavorare 25 anni per guadagnare, tutti insieme, il 10 % in meno di quanto Arpe (si suppone che sia il maggiore benefattore dell’umanità) ha chiesto, dobbiamo pensare, e ottenuto senza bisogno di fare scioperi, per andarsene dal dirigere una banca (che lo pagava già bene). Andarsene perché, se era così prezioso? Se qualcuno, per l’indignazione, fa pazzie, lui è colpevole, ma i mandanti sono i provocatori. Che ne dice Montezemolo? E il papa? E il governo? (in ordine di importanza).
Enrico Peyretti
Il presidente della Camera replica all’affondo del presidente della Camera
"Non ho nulla da rimproverarmi e mi aspettavo l’attacco degli industriali"
Bertinotti replica a Montezemolo "La sua non è la vera Italia"
L’ex segretario di Rifondazione aveva definito "impresentabile" una parte del capitalismo italiano frutto di "un impasto non trasparente tra banche e imprese" *
ROMA - L’attacco di Montezemolo? "Me l’aspettavo, lo considero legittima difesa". Così Fausto Bertinotti, a Radio Radicale, dopo i cinque giorni di silenzio seguiti alla relazione del numero 1 di Confindustria che aveva chiamato direttamente in causa, con toni critici, il presidente della Camera. "Non ho nulla da rimproverarmi" aggiunge Bertinotti pur precisando di non voler tornare negli stessi termini sulla questione della definizione del capitalismo italiano.
"Non ho nulla da eccepire e non ho nulla da rimproverarmi - aggiunge Bertinotti in merito alle sue critiche al capitalismo italiano che hanno provocato l’affondo di Montezemolo - ma è inutile e stucchevole il ping pong di dichiarazioni. Proviamo a discutere. Non sono stato della sinistra che definiva il capitalismo italiano ’straccione’. In Italia c’è una crescita, ed è possibile vedere elementi strutturali del nostro capitalismo: uno è l’impasto con la politica, un altro è un impasto non trasparente tra impresa e sistema bancario. Il crac Parmalat non me lo sono inventato io, così come la vicenda dei ’furbetti del quartierino’. Sono pazzo, o c’è del marcio in Danimarca? Forse c’è del marcio in Danimarca".
Giovedì mattina, durante il suo ultimo discorso in Confindustria come numero uno degli industriali, Montezemolo aveva attaccato direttamente Bertinotti che aveva definito "impresentabile" il capitalismo italiano. "Quando figure di primissimo piano delle istituzioni si spingono a dipingere come impresentabile il capitalismo italiano, senza che si alzi una sola voce dal mondo della politica a smentire una autentica falsità, il mondo industriale deve rivendicare a viso aperto capacità di saper fare il proprio mestiere" era stata la replica di Montezemolo. Nella sala dell’Auditorium di Roma s’era alzato un lunghissimo applauso.
Oggi, cinque giorni dopo, la replica. Tanto attesa quanto istituzionale. Bertinotti insiste indicando quelle che, a suo parere, sono le ragioni dell’arretratezza del capitalismo italiano: "Chiedo di fare la comparazione tra il rapporto dell’Istat del giorno prima e quello del presidente di Confindustria il giorno dopo. Sono due Italie diverse e a me sembra più realistica quella dell’Istat". L’Istituto nazionale di statistica ha fotografato un’ Italia che ha decisamente agganciato la ripresa. Gli industriali invece rivendicano a sè quel po’ di buono che c’è e addebitano alla politica arretratezza e stagnazione.
* la Repubblica, 28 maggio 2007
La sinistra nella crisi della politica
di Ezio Mauro (la Repubblica, 23 maggio 2007
Ci sono due strade per cercare di uscire dalla crisi della politica che è sotto gli occhi di tutti. La prima, è quella di denunciare i ritardi e gli abusi della classe dirigente - tutta - lavorando per una riforma del sistema che è necessaria e urgente, ma che forse è ancora in tempo per salvare le istituzioni dal collasso e per evitare che l’antipolitica diventi il sentimento prevalente del Paese. La seconda, è quella di puntare direttamente sul collasso del sistema, vellicando l’antipolitica per arrivare se non a una seconda ribellione popolare in quindici anni almeno a una delegittimazione dei poteri costituiti: in modo da aprire la strada agli "ereditieri", quel pezzo di classe dirigente che non sa fare establishment ma sa proteggere molto bene la sua dubbia imprenditorialità e la sua scarsa responsabilità, sperando addirittura di ereditare il Paese. Come se in una democrazia, anche malata, la cosa pubblica fosse scalabile al pari di un’azienda in crisi, trasferendo in politica il network italiano delle scatole cinesi che consente di comandare senza essersi guadagnati il comando, senza aver costruito o almeno riammodernato qualcosa - come un partito, un movimento, un sistema culturale - che parla ai cittadini e raccoglie il loro consenso semplicemente perché "poggia su una intuizione del mondo".
Bisogna dire che i partiti e i loro leader fanno di tutto per deludere chi crede nella prima strada, e aiutano chi punta sulla seconda. Solo la cecità e la sordità italiana consentono di dire che l’allarme nasce oggi, all’improvviso. In realtà, prima di Natale il Presidente della Repubblica Napolitano (destinato ad avere un ruolo come quello di Pertini, denunciando la crisi del mondo da cui proviene) aveva parlato chiaro e forte, lanciando un vero e proprio allarme per la "tenuta" della democrazia, lamentando il "distacco" tra politica, istituzioni e cittadini, ammonendo tutte le parti politiche, perché nessuna si illudesse di "trarne vantaggio". Cosa ci voleva di più? Siamo da almeno cinque mesi davanti al rischio conclamato di una regressione democratica, con lo Stato che ritorna Palazzo, separato, trent’anni dopo.
È chiaro che la sinistra, guidando il governo e il Paese, ha le responsabilità maggiori di questo disincanto democratico, ed è naturale che ne subisca le conseguenze maggiori, in termini di consenso. Ma è altrettanto chiaro - e ripeto quel che ho scritto altre volte - che c’è qualcosa di più generale, di sistemico, che sta intaccando le istituzioni e corrode lo stesso discorso pubblico senza distinzioni, perché salta ogni intermediazione riconosciuta e accettata, sia di tipo organizzativo che di tipo culturale, dunque è la doppia anima della politica che viene colpita. Tutta la politica.
Quando il sistema dei partiti fa lievitare in modo indecente i costi della politica e si trasforma in "classe" privilegiata, autoprotetta e onnipotente, controllando gli accessi, premiando l’appartenenza, puntando sulla cooptazione dei fedeli e dei simili, lottizzando ogni spazio pubblico con l’umiliazione del merito, corrodendo così la stessa efficienza della macchina statale, allora diventa impossibile fare distinzioni tra destra e sinistra. Quando a tutto questo si aggiunge da un lato l’esercizio disinvolto e automatico del denaro pubblico per mantenere e far crescere questo sistema autoreferenziale e dall’altro lato l’esibizione pubblica dei privilegi, diventa difficile non parlare di "ceto separato", un tutt’uno dove le differenze culturali e politiche che - per fortuna - dividono e connotano i due schieramenti di destra e sinistra finiscono per essere travolti dal sentimento indistinto di rifiuto e di lontananza che cresce tra i cittadini.
Naturalmente l’anima originaria di Berlusconi, il suo istinto mimetico del senso comune dominante e il carattere della destra italiana possono portarlo a fingere di interpretare il risentimento democratico come una sua possibile politica, perché in realtà l’antipolitica è una forma primaria di espressione del populismo, che se ne giova mentre la nutre. La sinistra, semplicemente, non può. Questo sentimento di progressiva perdita della cittadinanza - perché di questo si tratta - la colpisce al cuore, distrugge il canale di dialogo e di incontro con la sua gente perché fa venir meno una piattaforma identitaria comune, ogni appartenenza sicura, qualsiasi cultura di riferimento: come se con l’agibilità dello spazio politico pubblico venisse a mancare un territorio in cui muoversi da cittadini consapevoli dell’ambito di libertà nostro e altrui, del portato di storia e di tradizione che ci definisce, dei nostri diritti e dei nostri doveri. In questo senso, è drammatico il vuoto di ogni proposta di cambiamento nel costume e nel metodo politico (la rinuncia alla lottizzazione, la riduzione drastica del numero dei ministri, il rifiuto dei privilegi, la riorganizzazione del tempo di lavoro del parlamento) da parte del centrosinistra tornato al governo, dopo il quinquennio berlusconiano. La sinistra radicale, mentre vuole cambiare il mondo vuole intanto cambiare anche il cda delle Ferrovie, per avere un posto. La sinistra riformista, non vede la riforma più urgente: e che credito riformatore può avere - si è chiesto qui Adriano Sofri - una politica che non mostri di saper riformare se stessa?
Un ritardo reso tragico dal paragone con i tempi del nuovo presidente francese Sarkozy, che in due giorni ha fatto il governo, lo ha ridotto ai minimi termini, lo ha rinnovato per metà con ministri-donna. Un ritardo reso amaro dall’abbandono di Blair, che lascia il governo inglese all’età in cui da noi normalmente vi ci si affaccia e lo fa nella convinzione di poter avere una "second life" altrettanto piena e soddisfacente, cancellando lo stereotipo della politica non come professione, ma addirittura come vitalizio. Sia in Francia che in Gran Bretagna, nei discorsi di addio e di investitura la retorica dei leader usa la coppia concettuale formata da "io" e "voi", due parole che trasmettono molto semplicemente l’idea del vincolo di mandato e anche l’idea del vecchio partito come animale politico vivo e vitale, soggetto politico obbligatorio di riferimento, anche per leader carismatici e decisionisti.
Da noi, i partiti sono nati tutti mercoledì scorso, non hanno storia, tradizione, valori consolidati, una cultura di riferimento: tutte quelle cose che fanno muovere e garrire le bandiere, che infatti non ci sono, o restano ammosciate. Anche qui, ancora una volta, la nuova destra berlusconiana prende a prestito i valori e i precetti nel deposito di tradizione millenaria della Chiesa, mentre riempie il vuoto culturale con un carisma vagamente paganeggiante e idolatrico che finge di restituire la politica ai cittadini trasformati in folla mostrando il corpo mistico del leader: mentre in realtà sottrae loro ogni partecipazione reale e per sempre, ipotizzando addirittura una successione in forma dinastica, capricciosa e incontrollabile, comunque autocratica.
Ma la sinistra, quanto può resistere sul mercato politico senza una rifondazione di pensiero, senza idee-forti che diano sostanza alla sua politica, la pre-determinino, e parlino della vita e della morte, dei grandi temi, al cittadino? La parte radicale ha ancora il comunismo nelle sue bandiere, e finché dura quel simbolo sconfitto dalla tragedia che ha suscitato, ogni altra idea non è accostabile. I Ds sembrano credere che diventare riformisti significhi annacquare ogni mattina la propria identità nel mare turbolento del senso comune altrui. Come se gli strumenti propri di una sinistra riformatrice, serena e radicale insieme, non fossero oggi probabilmente i più adatti a governare le contraddizioni della fase: basterebbe saperlo, e usarli, a partire dalla laicità.
Davanti a questi ritardi conclamati, al camaleontismo della destra, alle cifre del disincanto svelate da Ilvo Diamanti, la sinistra ha tuttavia una carta, che è il Partito democratico. Può banalizzarla, come sta facendo, giocandola tutta dentro il mondo chiuso degli apparati, facendo di questo partito l’ultima della creature politiche del Novecento, e allora si misurerà soprattutto il ritardo, l’affanno, il costo tardivo dell’operazione. Oppure, può farne il primo soggetto diverso del nuovo secolo, per una nuova politica, contagiando la "cosa" che dovrà nascere nella sinistra radicale, e forse persino il futuro partito conservatore, a destra. Un partito, ha scritto Mario Pirani, forte perché leggero, potente in quanto disarmato: e soprattutto, scalabile, infiltrabile, contendibile. Da qui non si scappa: perché la riforma della politica parte da qui, se si vuol fare sul serio.
Altrimenti, si inseguirà il fastidio popolare crescente, da gregari spaventati, sperando che non si condensi in quell’antipolitica in cui si entra tutti insieme, ma si esce soltanto a destra. Sperando in più di evitare un nuovo collasso e una nuova supplenza, anche perché non sempre il supplente si chiama Ciampi. "Benissimo il Governatore - diceva allora l’avvocato Agnelli - ma ricordiamoci che dopo di lui c’è solo un generale o un cardinale". I generali non so, ma i cardinali sarebbero anche pronti. Proviamo a dire che non è il caso, perché non ce ne sarà bisogno.
"Sono partito con gomme dure - spiega lo spagnolo della McLaren - ma la pista non era in condizioni ottimali e ho preferito non correre rischi all’inizio. Quando ho montato gomme morbide, tutto è andato via liscio"
Alonso: "Stupito dal distacco su Ferrari"
Briatore: "Montezemolo pensa alla politica" *
"Una splendida tripletta. Il vantaggio sulla Ferrari è quasi una sorpresa". Alonso è euforico per il trionfo a Montecarlo: "E’ sempre speciale vincere qui, mi sono divertito molto - spiega - merito soprattutto di una macchina perfetta, non ho avuto nessun problema per 78 giri. Nella prima fase non sono riuscito ad andar via, ho perso qualcosa nel doppiaggio di Jarno Trulli. Avevo 9" di vantaggio e improvvisamente mi sono ritrovato Lewis ad appena 3", tutto è tornato in gioco. Sono partito con gomme dure, la pista non era in condizioni ottimali e ho preferito non correre rischi all’inizio. Quando ho montato gomme morbide, tutto è andato via liscio".
Negli specchietti, Alonso non ha mai visto la Ferrari. Felipe Massa ha chiuso al terzo posto con oltre 1 minuto di ritardo. "Sì, tutto questo divario mi sorprende un po’. Quello che conta è aver vinto".
Molto più polemico, invece, nei confronti della Ferrari è Flavio Briatore, direttore generale del team Renault: "Montezemolo si occupa di politica in questo momento, sicuramente, e molto meno di Ferrari. Ma non credo che sia per questo che la Ferrari oggi è dietro...".
Fisichella ha invece qualcosa da recriminare, nonostante il quarto posto: "Ho fatto il massimo che potevo fare oggi, ho tenuto dietro le Bmw, le McLaren hanno un altro passo, sono su un altro pianeta, la Ferrari andava più forte, però ho amministrato, l’importante è aver acquisito il vantaggio per mantenere dietro le BMW, oggi il quarto posto è un risultato eccezionale, come essere saliti sul podio. Dopo un inizio di stagione così difficile, sono contento e fiducioso per il futuro".
E la Ferrari? "Per come è andata la gara, ma soprattutto le qualifiche, siamo contenti - spiega Stefano Domenicali, direttore sportivo - anche se è chiaro che non sono i target che abbiamo in testa. Però non dimentichiamo che Montecarlo è una gara molto particolare. Quindi, non lasciamoci fuorviare dai distacchi, che non sono quelli reali. Poi, non dimentichiamoci neanche che Felipe si è trovato nel traffico nel periodo più importante e cruciale della gara, dietro dei doppiati. Purtroppo con due secondi a giro per 6 giri, perdi la gara".
* la Repubblica, 27 maggio 2007