[...] Il male abbiamo preso a rappresentarlo come banalità, col male abbiamo una dimestichezza familiare. Così ci troviamo in mano il bene come residuo. E come mistero. Non bisogna essere credenti per accedere a questa scoperta che lascia più attoniti e sgomenti che pieni di speranza.
E poi quali speranze bisogna avere? Il gesto di Emilia non è servito a nulla. Giovanna Reggiani è morta. Il governo di centro sinistra ha varato il decreto sulle espulsioni ad indirizzo principale dei cittadini di una sola nazionalità, il presidente l’ha firmato, le ruspe hanno cominciato a piallare, i prefetti a individuare i soggetti da buttar fuori, allo stato attuale siamo a quota 5000. La stampa della sinistra moderata acclama, la destra sbraita che non basta [...]
Emilia
di Helena Janeczek
Di Emilia, persino i figli dicono che è “un po’ tocca”. Ossia: che è pazza. Emilia è quella che ha fermato un autobus per denunciare il carnefice di Giovanna Reggiani.
L’ha fermato piazzandosi in mezzo alla strada. Secondo gli investigatori, diceva solo “Mailat, Mailat”. Non parla italiano.Vive- viveva- nello stesso accampamento di Nicolae Mailat, lo schifo di baracche i mezzo alla sterpaglia di Tor di Quinto che sta per essere raso al suolo.
Ma Emilia non è più lì a stipare nelle borse di plastica quel che bisogna portar via prima che arrivino le ruspe. E’ stata condotta “in luogo protetto”, perché la sua denuncia l’avrebbe esposta a rischi.
A queste informazioni è riservata una trentina di righe in alto a destra della terza pagina di “Repubblica” di oggi, 2.11.2007. E basta.
Nessuno ci ha mostrato una sua foto, mentre ci sbattono in faccia il volto di Nicolae Mailat e persino di sua madre, una donna col fazzoletto in testa che sembra anziana, mentre probabilmente ha la stessa età di Giovanna Reggiani e di Emilia.
E’ molto meglio per lei, su questo non ci sono dubbi. Perché ciò che ha fatto Emilia è una cosa abnorme e, in un certo senso, forse è davvero un atto di follia.
“Se te ne stavi zitta”, me li sento dire, gli altri del campo compresi i suoi figli, “quello lo mandavamo via noi, lo sbattevamo fuori e quando lo prendevano- se lo prendevano, perché non è detto- noi non ci finivamo in mezzo tutti quanti”.
“Chi cazzo credi di essere, chi credi che ti ringrazia, donna, che cosa vuoi che cambi se una come te cerca di salvare una gage?”
“Hai visto che non cambia nulla? Hai visto che ora la paghiamo noi, noi tutti quanti, e questo è colpa tua. E’ colpa tua tanto quanto è colpa di Romik. No: in fondo è soprattutto colpa tua. C’era questa gage vestita bene, piena di buste costose, con la sua bella borsetta stretta sotto le ascelle, questa donna sola all’uscita del treno di Tor di Quinto a un’ora in cui le donne dovrebbero stare a casa e preparare cena. Romik l’ha vista e ha fatto quel che ha fatto: a questa mezza troia di gage piena di soldi. Noi l’avremmo punito, l’avremmo espulso, ma sei arrivata tu a trascinarci nella merda tutti quanti. Se i tuoi figli vengono mandati in Romania a fare la fame e a prendersi la rogna, sappilo Emilia: è colpa tua.”
Correndo in mezzo a quella strada, fermando col suo corpo quell’autobus che forse altrimenti non si sarebbe fermato per una zingara fetente, Emilia si è bruciata tutto.
Potrebbero volerla anche ammazzare per vendetta, ma persino se non le torcono un capello, è come se fosse morta. Peggio che morta: Emilia è fuori, è fuorilegge di fuorilegge, nomade senza un posto dove andare. Una vita che forse non potrà far altro che aspettare la propria fine, sperando che questo stato o più probabilmente qualcuno dei suoi preti benemeriti almeno la mantenga. O quali prospettive potrà avere, secondo voi, una zingara vecchia di quarantacinque anni che i figli ricusano pubblicamente e che non parla una parola d’italiano?
Nel atto di Emilia, negli atti simili ai suoi testimoniati in mezzo a tante cronache dell’orrore - ho sempre in mente una pagina di Imre Kértesz in Kaddish per un bambino mai nato dove racconta di un deportato che paga con la vita il gesto istintivo di aver consegnato la razione di pane che gli era capitata in mano a quello che non l’aveva ricevuta - c’è qualcosa di incommensurabile. E’ il bene che si compie gratis. Che anzi si compie contro la legge della necessità, contro gli interessi del singolo, persino contro il primario istinto di sopravivenza. C’è qualcosa di inspiegabile nel gesto di Emilia.
Il male abbiamo preso a rappresentarlo come banalità, col male abbiamo una dimestichezza familiare. Così ci troviamo in mano il bene come residuo. E come mistero. Non bisogna essere credenti per accedere a questa scoperta che lascia più attoniti e sgomenti che pieni di speranza.
E poi quali speranze bisogna avere? Il gesto di Emilia non è servito a nulla. Giovanna Reggiani è morta. Il governo di centro sinistra ha varato il decreto sulle espulsioni ad indirizzo principale dei cittadini di una sola nazionalità, il presidente l’ha firmato, le ruspe hanno cominciato a piallare, i prefetti a individuare i soggetti da buttar fuori, allo stato attuale siamo a quota 5000. La stampa della sinistra moderata acclama, la destra sbraita che non basta.
E chissà quando il sindaco di Roma, il nuovo leader del Partito Democratico, deciderà di stanziare quattro spiccioli strappati ai suoi festival per aggiungere qualche lampione in posti come la stazione di Tor di Quinto? Fatemi sapere. Accadesse almeno questo, forse il sacrificio di Giovanna e di Emilia non sarebbe stato del tutto in vano.
Fonte: NAZIONE INDIANA - This entry was written by helena janeczek, posted on 2 Novembre 2007 at 17:33...-
A Roma i funerali della donna uccisa a Tor di Quinto
Le lacrime del marito: "Non è giusto". In pochi contestano
L’addio a Giovanna Reggiani
"Giustizia e non intolleranza"
Il fratello: "I nostri genitori ci hanno insegnato l’amore"
ROMA - Quella rosa rossa l’ha tenuta in mano tutto il tempo. Solo alla fine l’ha lasciata sulla bara. Dolore, lacrime e tanta compostezza. Giovanni Gumiero, capitano di vascello della Marina e marito di Giovanna Reggiani, la donna seviziata e uccisa a Roma, era in prima fila ai funerali della moglie che si sono tenuti stamattina nella chiesa del Cristo Re. Accanto a lui, i genitori di Giovanna, i fratelli, gli amici, tanta gente. E i rappresentanti delle istituzioni: il sindaco di Roma Walter Veltroni, il ministro dell’Interno Giuliano Amato, il leader di An Gianfranco Fini. E i vertici della Marina. Fuori dalla chiesa telecamere e fotografi.
I funerali, cominciati alle 11 e terminati poco dopo mezzogiorno, sono stati celebrati, per volontà della famiglia, con rito valdese a partecipazione ecumenica, per rispettare la fede valdese di Giovanna Reggiani e quella cattolica del marito. Ed è stata la moderatrice della tavola valdese Maria Bonafede a chiedere giustizia e a mettere in guardia dal rischio dell’intolleranza verso gli immigrati. "La giustizia - ha detto Bonafede - deve fare il suo corso. Punire i colpevoli. Va detto no all’intolleranza e al razzismo".
Parole tanto più significative all’indomani della spedizione punitiva contro un gruppo di romeni di Tor Bella Monaca. L’invito è stato poi rilanciato dal cappellano della Marina Fabrizio Benvenuti: "Sento parlare sui giornali di intolleranza, vogliamo giustizia e non intolleranza che è una malaerba".
Quindi è stata la volta del fratello di Giovanna Reggiani, Luca. Parole pacate le sue: "Cara Giovanna, il babbo e la mamma ci hanno insegnato la tolleranza e l’importanza dell’amore. Noi fratelli abbiamo sempre avuto uno spirito libero, grazie ai nostri genitori. Ricordiamoci che il silenzio non è sempre muto. Ciao sorella".
Smisurato il dolore del marito di Giovanna. Spesso con il volto rigato dalla lacrime. Circondato dall’affetto di parenti e amici: "Non è giusto, non è giusto. Perché? Perché?", ha detto più volte fissando la bara. Alla fine della cerimonia il feretro è uscito accompagnato da un lungo applauso. Sporadiche e fuori posto alcune voci che chiedevano "vendetta" e "pena di morte per gli assassini".
"Dalla chiesa del Cristo Re, si sono innalzate parole che hanno chiesto giustizia mai vendetta, fermezza mai intolleranza, rigore mai odio. Quelle parole, tutta la città di Roma, le condivide e le fa proprie" ha poi commentato Veltroni. Alcuni politici di destra lo accusano di essere uscito da una porta secondaria.
Dopo la cerimonia funebre anche Giovanni Gumiero ha voluto lanciare un appello alla tolleranza: "Sappiamo e dobbiamo distinguere le persone, un rom da un rom, un romeno da un romeno, un italiano da un altro italiano", ha detto al ministro Parisi.
* la Repubblica, 3 novembre 2007.
Un clima pericoloso
di STEFANO RODOTÀ *
L’aggressione di ieri sera contro un gruppo di romeni dimostra che è avvenuto qualcosa che i pessimisti sentivano nell’aria. Quando sono tanto forti le emozioni, e nessuno le raffredda e troppi le sfruttano, non soltanto diventa difficile trovare le risposte giuste, ma si esasperano i conflitti.
Da un caso gravissimo, l’uccisione di Giovanna Reggiani, si è passati con troppa rapidità all’indicazione di responsabilità collettive. L’assassinio è quasi finito in secondo piano, e l’attenzione è stata tutta rivolta a documentare una sorta di incompatibilità tra la nostra società e la presenza romena, insistendo sulla percentuale di reati commessi da persone provenienti da quel paese. In un clima sociale che si sta facendo sempre più violento, le premesse per l’apertura della caccia al romeno, purtroppo, ci sono tutte.
Così non basterà condannare l’accaduto. Le risposte istituzionali sono già venute, e sarebbe sbagliato chiederne ulteriori inasprimenti, che darebbero la sensazione che alla violenza si debba reagire solo con la violenza sì che, se lo Stato arriva tardi o in maniera ritenuta inadeguata, tutti sarebbero legittimati a farsi giustizia da sé. Alla politica si devono chiedere non deplorazioni, ma misura; non ricerca di consenso, ma di soluzioni ragionate.
Da anni, da troppi anni, siamo prigionieri di un uso congiunturale delle istituzioni, che porta a misure che rispondono ad emozioni o a interessi di breve periodo più che alla realtà dei problemi da affrontare. E’ un rischio che stiamo correndo anche in questi giorni, mentre avremmo bisogno di analisi non approssimative e testa fredda nell’indicare le via d’uscita. Di fronte alle tragedie nessuno dovrebbe fare calcoli meschini.
Il presidente della Repubblica ha sottolineato che le questioni dell’immigrazione esigono responsabilità comuni dell’Unione europea. Il presidente del Consiglio si è messo in contatto con il primo ministro romeno. Dalle parti più diverse si è sottolineata la necessità di un controllo del territorio e di una attenzione per le condizioni in cui vivono gli immigrati. E’ stata proprio una donna romena che ha consentito l’immediato arresto dell’assassino.
Perché allineo questi fatti? Perché, messi insieme, dimostrano la parzialità della tesi di chi pensa che sia sufficiente inasprire le pene, cancellare le garanzie, far di tutt’erbe un fascio, sparare nel mucchio. "Facimmo ’a faccia feroce" è una vecchia tecnica di governo, ma è esattamente il contrario di quel che serve in situazioni come questa. E’ indispensabile, invece, una strategia integrata, fatta di cooperazione internazionale, di legalità a tutto campo, di efficienza degli apparati di sicurezza, di misure per l’integrazione, di politica delle città. Ed è indispensabile una politica volta a promuovere la fiducia degli immigrati: senza la collaborazione di quella donna, senza la rottura dello schema dell’omertà (purtroppo così forte anche nella nostra cultura), l’assassino non sarebbe stato individuato così rapidamente. In ogni società la fiducia è una risorsa essenziale. Da soli, i provvedimenti di ordine pubblico non ce la fanno, non ce l’hanno mai fatta.
Essere consapevoli di tutto questo non è cattiva sociologia, ma buona politica, anzi l’unica politica possibile. Proprio quanti si preoccupano dell’efficienza dovrebbero esigere che si facciano passi concreti in quelle direzioni. Proprio chi invoca la legalità deve sapere che questa non è divisibile, ed è stato giustamente notato che uno dei meriti del "pacchetto sicurezza" è nell’aver previsto anche una nuova disciplina del falso in bilancio. Proprio chi fa professione di garantismo deve mostrare coerenza, soprattutto nei momenti difficili: non si può essere garantisti a corrente alternata.
Non sto sostenendo che il problema è "ben altro". Cerco di dire che non ci si può mettere la coscienza in pace con un decreto e una raffica di espulsioni, dando così all’opinione pubblica la pericolosa illusione che il problema sia risolto. Qualche sera fa, intervenendo in una trasmissione televisiva, Pier Luigi Vigna, certo non imputabile di atteggiamenti compiacenti verso chi viola la legalità, ha riferito la risposta di un responsabile dell’ordine pubblico ad una sua domanda su dove fossero finiti i lavavetri scomparsi dalle vie di Firenze: "Stanno a rubare". E’ l’effetto ben noto a chi ha indagato sulla scomparsa o la diminuzione dei reati nelle aree videosorvegliate: semplicemente i comportamenti criminali si erano spostati nelle zone vicine. Ecco perché, se davvero si vuole uscire dalla violenza e vincere la paura, nuove norme contenute in un decreto possono essere un punto di partenza, vedremo fino a che punto accettabile.
Guardando solo agli inasprimenti della legislazione, anzi, si finisce col distogliere lo sguardo dalla realtà. Più di una inchiesta di questo giornale, ultima quella di Giuseppe D’Avanzo, ha documentato il degrado urbano, le terribili condizioni di vita degli immigrati. Si può davvero pensare che il problema si risolva con una politica delle ruspe e degli "allontanamenti"? Con una tolleranza zero che poi non riesce neppure ad essere tale se le forze di polizia non sono messe in grado di un controllo intelligente e mirato del territorio, se i nuovi poteri dei sindaci finiscono con l’indirizzare la loro attenzione verso una esasperazione del momento dell’ordine pubblico invece di mettere al centro gli interventi strutturali, complici le difficoltà economiche dei comuni? Si può certo contare sull’effetto dissuasivo di una massiccia ondata di espulsioni. Ma quanto potrà durare? E quali saranno gli effetti reali e i prezzi della nuova disciplina?
Il decreto riprende lo schema delle norme di attuazione della direttiva comunitaria del 2004 sul diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini comunitari (romeni compresi), in vigore dal marzo di quest’anno, con due significative integrazioni. La prima riguarda l’attribuzione del "potere di allontanamento" non più al solo ministro dell’Interno, ma pure al prefetto (una figura di cui si continua chiedere la scomparsa e che, invece, ottiene così una nuova e forte legittimazione). La seconda, ben più incisiva, consiste nell’ampliamento delle cause che permettono l’allontanamento del cittadino comunitario, riassunte nella formula dei "motivi imperativi di pubblica sicurezza" che derivano dall’aver "tenuto comportamenti che compromettono la tutela della dignità umana o dei diritti fondamentali della persona umana ovvero l’incolumità pubblica, rendendo la sua permanenza sul territorio nazionale incompatibile con l’ordinaria convivenza". Malgrado riferimenti altisonanti come dignità o diritti fondamentali, siamo di fronte ad una formula larghissima, nella quale possono rientrare le situazioni e i comportamenti più diversi. Come sarà interpretata?
Qui gioca il clima in cui il decreto è stato approvato. Non "necessario e urgente" fino alla sera prima (sono questi i requisiti di un decreto), il provvedimento lo diventa dopo il brutale assassinio di Roma. Poiché si deve supporre che il governo conoscesse già i dati riguardanti i reati commessi dai romeni, sui quali si è tanto insistito in questi giorni, la conclusione obbligata è che si è utilizzato lo strumento del decreto unicamente per rispondere all’emozione dell’opinione pubblica. E la sua applicazione rischia di essere guidata dalla stessa ispirazione, rendendo inoperanti le garanzie necessarie per evitare che venga travolta una libertà essenziale del cittadino europeo.
La pressione dell’opinione pubblica non è stata alleggerita dal decreto. Al contrario, è stata ulteriormente legittimata, sì che bisogna attendersi che continuerà nei confronti dei prefetti. Già si annunciano liste di migliaia di persone da allontanare: questo renderà difficilissimo motivare in modo adeguato ciascun singolo provvedimento. E i debolissimi giudici di pace, che dovrebbero controllare questi provvedimenti, non hanno i mezzi per farlo in modo adeguato, sì che non se la sentiranno di pronunciare un no. Per non parlare di un successivo ricorso al tribunale amministrativo contro l’allontanamento, che quasi nessuno potrà concretamente proporre. La garanzia giurisdizionale, essenziale in uno Stato di diritto, rischia così d’essere concretamente cancellata.
Alle norme del decreto bisogna guardare con distacco e preoccupazione. Con distacco, perché non verrà solo da esse la soluzione di problemi che, com’è divenuto evidentissimo proprio in questi giorni, esigono interventi di altra qualità per rispondere alle legittime richieste dei cittadini in materia di sicurezza. L’ordinaria convivenza, alla quale il decreto si riferisce, non è un qualcosa da salvaguardare, ma da ricostruire con responsabilità e azioni comuni, di cui gli italiani devono essere i primi protagonisti. Con preoccupazione, perché le norme del decreto e il clima in cui nasce ci spingono in una direzione che aumenta la distanza dall’"altro", che favorisce la creazione di "gruppi sospetti", abbandonando la logica della responsabilità individuale.
Serve, davvero con "necessità e urgenza", un’altra forma di tolleranza zero. Quella contro chi parla di "bestie", o invoca i metodi nazisti. Non è questione di norme. Bisogna chiudere "la fabbrica della paura". E’ il compito di una politica degna di questo nome, di una cultura civile di cui è sempre più arduo ritrovare le tracce. Un’agenda politica ossessivamente dominata dal tema della sicurezza porta inevitabilmente con sé pulsioni autoritarie. Ricordiamo una volta di più che la democrazia è faticosa, ma è la strada che siamo obbligati a percorrere.
* la Repubblica, 3 novembre 2007.
Cronache italiane
di Gabriele Polo (il manifesto, 02.11.2007)
Forse sarebbero bastati un paio di lampioni su quella strada, per evitare a Giovanna Reggiani il buio e l’orrore in cui è stata trascinata. Non sarebbero stati necessari decreti d’urgenza e leggi speciali che trasformano un delitto individuale nell’annuncio di un repulisti di massa. E non serviranno a salvare altre future vittime.
Di certo sarebbe bastata una maggiore attenzione alla vita quotidiana delle periferie per cercare una soluzione al violento degrado in cui giacciono migliaia di persone. Non serve inseguire la destra sul terreno che le è più naturale e vincente. Non servirà a cacciare le paure metropolitane e nemmeno - più in piccolo - a conquistare consensi elettorali. Servirebbe più Zavattini di «Miracolo a Milano» che Veltroni del cinema in festa.
Spesso la cronaca illumina più di qualunque analisi sociologica. E ci rimanda una società in cui la violenza è diventata la principale risposta che gli individui danno alla asperità quotidiane; in cui l’uso della forza definisce i rapporti tra le persone come tra i gruppi (anche quando si chiamano «nazioni») e, in quanto forza, fissa la gerarchia del potere tra i sessi, cui si aggrappa il maschile per rispondere alla propria crisi di egemonia, come una superpotenza un po’ traballante usa la guerra per convincersi di essere ancora in sella. Quella cronaca poi ci parla di un’altra crisi, di una politica ormai incapace di sottrarsi alla dittatura della paura umorale, per dare solo risposte che cercano di rassicurare senza cambiare, oppure di spaventare senza risolvere. Cogliendo semplicemente l’attimo, come nel delirio su possibili frotte di tifosi capitolini pronti a uscire da uno stadio per dar vita a un pogrom di massa. E, allora meglio (pensa Amato) che il pogrom lo faccia lo stato, con la sua organizzata e legale autorità. Oppure che si accentui la «prevenzione repressiva» (dice Fini) cacciandoli tutti, quei derelitti potenzialmente criminali. E ci mostra - quella cronaca - un giornalismo guerriero, incapace di riflettere o semplicemente di distinguere e raccontare i fatti, che getta tutto in uno stesso calderone e confonde: tanto tra un campo sosta e una baraccopoli che differenza fa? tanto tra un rom e un rumeno, tra quest’ultimo e tutta la Romania, c’è persino assonanza lessicale.
Forse per battere la forza delle violenze quotidiane, per sottrarsi alla paura degli umori profondi, per battere l’insicurezza che da materiale diventa esistenziale, bisogna distinguere sempre di più, segnalare e segnare le differenze. Tra i sessi, tra le classi, tra gli stessi individui, trasformando la debolezza di oggi in una mite forza di domani, basata su convinzioni e bisogni, non sui muscoli: mutuo soccorso, non più «compattezza militare». Perché se il terreno del potere non può essere che quello andato in scena tra martedì e mercoledì scorsi (su una strada e in una sede di governo), allora è meglio ripudiarlo e cercare altrove un’altra relazione comune. Vale per chi vive in una baraccopoli, come per chi siede in un parlamento.