IL CARDINALE MARTINI, espressione della parte progressista della Chiesa uscita sconfitta nel conclave dalla parte conservatrice rappresentata da Ratzinger e Ruini, scende in campo contro la deriva reazionaria vaticana dando speranza e voce, con la sua grande autorità morale ed intellettuale, ai molti cattolici stanchi e delusi dal fariseismo in salsa vaticana.
Nota non redazionale
DA LA REPUBBLICA DI OGGI, INTERVISTA AL CARD. MARTINI
"Credo che la chiesa italiana debba dire cose che la gente capisce, non tanto come un comando ricevuto dall’alto, al quale bisogna obbedire perché si è comandati. Ma cose che si capiscono perché hanno una ragione, un senso. Prego molto per questo". Raramente, il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, 80 anni compiuti da poco, ha fatto un accenno così diretto, così esplicito, durante un’omelia pronunciata in chiesa, a temi che agitano anche il dibattito politico nazionale. Ma non lasciavano molti dubbi di interpretazione, le frasi pronunciate ieri sera, durante la messa celebrata nella basilica della Natività di Betlemme, davanti a 1300 pellegrini arrivati al seguito del suo successore, l’arcivescovo Dionigi Tettamanzi. Il cardinal Martini, parlando a braccio, fra gli applausi dei fedeli, ha sollecitato la chiesa italiana a credere nel dialogo "fra chi è religioso e chi è non religioso, fra credenti e non credenti" aggiungendo di pregare " perché si raggiunga quel livello di verità delle parole per cui tutti si sentano coinvolti".
Eminenza, a cosa si riferiva quando parlava della necessità di usare un linguaggio che la gente possa intendere non come un comando ma come una verità quotidiana?
"Credo che la chiesa debba farsi comprendere, innanzitutto ascoltando la gente, le sue sofferenze, le sue necessità, i problemi, lasciando che le parole rimbalzino nel cuore, lasciando che queste sofferenze della gente risuonino nelle nostre parole. In questo modo le nostre parole non sembreranno cadute dall’alto, o da una teoria, ma saranno prese per quel quello che la gente vive. E porteranno la luce del Vangelo, che non porta parole strane, incomprensibili, ma parla in modo che tutti possono intendere. Anche chi non pratica la religione, o chi ha un’altra religione".
Lei ha sempre auspicato la nascita di una pubblica opinione nella chiesa, con la possibilità di discutere, anche di non essere d’accordo.
"Venendo a vivere qui a Gerusalemme io mi sono posto come se fossi in pensione, fuori dai doveri pubblici. Mi sono posto l’impegno di osservare rigorosamente il precetto del vangelo di Matteo, quello che dice non giudicare e non sarai giudicato. Quindi io non giudico, perché con quella misura sarei giudicato. Ma il mio auspicio va in quella direzione".
Lei ha parlato recentemente della necessità di promuovere la famiglia, un compito che ha definito "più urgente" rispetto alla difesa della famiglia. Con quali azioni si può raggiungere lo scopo?
"Promuovere la famiglia significa sottolineare che si tratta di un’istituzione che ha una forza intrinseca, che non è data dall’esterno, o da chissà dove. La famiglia ha una sua forza e bisogna che questa forza sia messa in rilievo, che quindi appaia la bellezza, la nobiltà, l’utilità, la ricchezza, la pienezza di soddisfazioni di una vera vita di famiglia. Bisognerà che la gente la desideri, la gusti, la ami e faccia sacrifici per essa".
Invece, in questa fase del dibattito politico, della famiglia attuale vengono più facilmente lamentati i modi in cui essa si discosta rispetto al modello ideale.
"Durante l’omelia ho parlato delle comunità che troppo spesso rimangono prigioniere della lamentosità. Il Signore vuole che noi guardiamo alla vita con gratitudine, riconoscenza, fiducia, vedendo le vie che si aprono davanti a noi. Quando andavo nelle parrocchie a Milano, trovavo sempre chi si lamentava delle mancanze, del fatto che non ci sono giovani. E io dicevo di ringraziare Dio per i beni che ci ha concesso, non per quelli che mancano. Dicevo che la fede, in una situazione così secolarizzata, è già un miracolo. Bisogna partire dalle cose belle che abbiamo e ampliarle. L’elenco delle cose che mancano è senza fine. E i piani pastorali che partono dall’elenco delle lacune sono destinati a dare frustrazioni e non speranze".
da Libero blog
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Monsignor Negri: «No alla comunione ai politici pro Dico»*
«Chi celebra l’Eucaristia non può poi tollerare e consentire leggi che sono evidentemente eversive dell’antropologia personale e familiare che dall’Eucaristia scaturisce». Dai microfoni di Radio Vaticana, il vescovo di San Marino-Montefeltro, Luigi Negri, spiega e chiarisce il richiamo del Papa alla «coerenza eucaristica» contenuto nella «Sacramentum caritatis» in cui Ratzinger ha invitato i politici cattolici a non votare le leggi «contro natura» come i Dico. «il culto gradito a Dio non è mai atto meramente privato, esso richiede la pubblica testimonianza della propria fede» intima Benedetto XVI ai politici italiani.
Ma cosa significa in termini concreti? Niente comunione per i politici cattolici che sostengono i Dico. «Non c’è da gridare allo scandalo se da questa centralità dell’Eucaristia vengono tirate conseguenze di carattere sociale sulla vita della famiglia, sulla sua responsabilità, sui suoi diritti educativi - spiega infatti monsignor Negri - l’Eucaristia è il fondamento dell’ecclesiologia, ma è anche il fondamento di un’antropologia, di un’esperienza umana che non è vissuta fuori dal tempo ma nella storia, nelle circostanze economiche, politiche, sociali, ambientali». «Ecco allora - spiega Negri - c’è un legame fra l’Eucaristia e la società, c’è un legame fra l’Eucaristia e coloro che nella società si assumono la responsabilità molto impegnativa di portare questa antropologia adeguata, come avrebbe detto Giovanni Paolo II, dentro la vita sociale».
Intanto la discussione sui Dico continua. Sul versante parlamentare il senatore dei Ds Cesare Salvi, presidente della Commissione giustizia di Palazzo Madama, ha ribadito che « i Dico non sono su un binario morto»: «Stiamo lavorando in Commissione giustizia - ha spiegato Salvi -, faremo una seduta a settimana, appena la discussione generale sarà conclusa avremo un comitato ristretto dal quale cercare di trovare un testo unificato che possa avere una condivisione larga in Parlamento».
Però i "teodem" affilano le armi. Sempre più certo che il 12 maggio gli "anti-dico" scenderanno in piazza per celebrare il "family day"(giovedì sera a Crotone la "prova generale" con 3mila persone in piazza) con la benedizione delle gerarchie ecclesiastiche . Famiglia Cristiana che «manifestazioni pacifiche e rispettose, per affermare pubblicamente le proprie convinzioni,qualunque esse siano, costituiscono il sale della democrazia».
Non tutti i cattolici però sembrano aderire in toto a questa visione.
Inoltre organizzazioni come le Acli hanno tenuto a ribadire l’autonomia dell’associazionismo proprio sul "famiily Day". «La nostra adesione dipende dal documento finale» ha detto il presidente delle Associazioni cristiane lavoratori ialiani, Andrea Olivero, riferendosi al fatto che .un "comitato di saggi" del mondo cattolico è stato incaricato di stendere un "manifesto" a sostegno della famiglia che costituirà la piattaforma della manifestazione.
Intanto cento esponenti cattolici torinesi hanno scritto una lettera aperta al cardinale Poletto in cui c’è una aperta critica al comportamento della Cei che - a giudizio dei firmatari - sta assumendo un ruolo improprio: «L’intervento nel dettaglio sulle decisioni politiche, col dare ai laici prescrizioni che non attengono alla missione episcopale» finisce per «ostacolare il necessario pluralismo». Così facendo l’episcopato assume «posizioni opinabili di una parte dei credenti contro gli altri, dividendo la chiesa e pretendendo di imporre uniformi scelte politiche». Una presa di posizione forte che arriva in una realtà come quella di Torino dove i rapporti tra il vescovo e i cattolici laici non sono facili. Due giorni fa infatti Poletto ha cancellato un incontro in programma con esponenti della Margherita e il giornale della Curia ha attaccato la proposta della giunta Bresso sulle unioni di fatto.
Polemiche e distinguo però anche nei Ds e in Rifondazione. Un gruppo di 19 militanti omosessuali della Quercia (in primis il deputato Franco Grillini) ha scritto una lettera aperta a Piero Fassino, Francesco Rutelli e Romano Prodi nella quale lamentano «continui attacchi alla dignità degli omosessuali italiani», lanciano «un accorato appello per il rispetto degli omosessuali» e chiedono «garanzie al costituendo Partito democratico, a partire dallo statuto». Ricordando le ultime dichiarazioni di Paola Binetti e Rosy Bindi sugli omosessuali, i firmatari spiegano: «Un partito non può che essere una comunità di donne e uomini liberi che si rispettano e che scelgono di costruire percorsi condivisi e battaglie comuni. In questo momento noi purtroppo non ci sentiamo affatto rispettati, tutelati da queste aggressioni continue che ci arrivano dall’interno, ora persino dal nostro governo. In un partito con chi ci discrimina e ci nega anche solo il rispetto e la dignità non potremmo mai entrare». ».
Caso anomalo invece quello di Massimo Colombo, dirigente di Rifondazione che si è dimesso dal partito in Liguria perché (dice il Giornale) sui Dico «il Papa ha dato una linea chiara, che intendo seguire. Purtroppo contrasta con le scelte del partito. Ma io credo nei valori della famiglia, ciò che dicono Chiesa e Vangeli per me deve essere uno stile di vita».
* l’Unità, Pubblicato il: 16.03.07, Modificato il: 16.03.07 alle ore 18.01
L’Amaca
di Michele Serra (la Repubblica, 15.03.2007)
Cerco di dirlo così come mi viene, mi scusino eventuali pignoli o suscettibili. Leggere sulle prime pagine le parole "contro natura", pronunciate dal papa a proposito delle unioni omosessuali, mi fa rivoltare le viscere.
La natura umana è così complicata e ricca (essendo biologica, psicologica, culturale, sociale) che estrarne un pezzo e appenderlo al lampione del Giudizio Divino equivale ad amputarla. L’omosessualità è sempre esistita ed esisterà sempre, consiste di amore e di vizio, di eros e di moda, di piacere e di colpa, di profondità e di futilità, tanto quanto le altre pulsioni dell’animo e del corpo.
Si può diffidarne, si può criticarla, ma solo una violenta e impaurita torsione dello sguardo sulle persone, sulla vita, sull’eros, può arrivare addirittura a scacciare l’amore omosessuale dalla "natura umana".
Leggendo quei titoli ho pensato ai miei amici omosessuali, ad alcune storie di sofferenza e di punizione, all’orribile marchio di "anormale" che qualcuno di loro ha dovuto leggere negli occhi e nelle parole degli altri, e mi sono profondamente vergognato per quel "contro natura". Possibile che i preti omosessuali, notoriamente molti, non abbiano niente da dire a questa Chiesa spietata?
MEDIA A CACCIA DELL’ANTIPAPA
di Massimo Introvigne
Conosco il cardinale Carlo Maria Martini fin da quando - più di trent’anni fa - lui non era ancora cardinale e io frequentavo il liceo dai gesuiti di Torino. Posso dunque attestare che si tratta di un uomo di fede, per di più umanamente ben più cordiale di quanto sembri di solito a chi non lo conosce.
Sono i media della sinistra ad avere bisogno di un antipapa.
Ne hanno bisogno ancora di più oggi, quando il Papa e il cardinale Ruini parlano di questioni che riguardano la politica e le leggi in modo così chiaro da non lasciare spazio ad alcuna ambiguità.
La settimana scorsa Benedetto XVI ha ricevuto gli amministratori della Regione Lazio, della Provincia e del Comune di Roma, tutti enti - vedi caso - retti da amministrazioni di centro-sinistra. Ha parlato loro dei Pacs, ricordando che una società bene ordinata riconosce valore giuridico solo al matrimonio e definendo «pericolosi e controproducenti quei progetti che puntano ad attribuire ad altre forme di unione impropri riconoscimenti giuridici, finendo inevitabilmente per indebolire e destabilizzare la famiglia legittima».
Quanto all’eutanasia, Benedetto XVI l’ha definita nel suo messaggio per la Giornata della Pace 2007 «uno scempio», lasciando alla Pontificia Accademia per la Vita precisare che le cure proporzionate alla malattia non sono accanimento terapeutico, e che il cosiddetto testamento biologico non può lasciare al singolo la decisione sul rifiuto di queste cure, e meno che mai dell’alimentazione e dell’idratazione, perché altrimenti gli riconoscerebbe il diritto al suicidio. Mangiare e bere non sono cure mediche, e cessando quest’assistenza al malato che non è in grado di alimentarsi da solo si compie un vero e proprio omicidio.
Il cardinale Martini è oggi nella Chiesa un illustre pensionato, le cui opinioni rappresentano solo il suo pensiero personale. È difficile però convincerne i lettori meno smaliziati dei giornali, per cui «se l’ha detto un cardinale» vuol dire che «per la Chiesa» va bene così. C’è poi chi alimenta l’equivoco in malafede, come quei parlamentari dell’Unione che cercano nelle parole del cardinale - magari facendogli dire più di quel che ha detto davvero - uno strumento per dividere i cattolici. Fino al totale rovesciamento del chirurgo e senatore ds Ignazio Marino - un uomo con una missione, tornato in Italia dagli Stati Uniti per far passare una legge sul testamento biologico che preveda la possibilità di interrompere l’alimentazione - il quale afferma allegramente, in un’intervista a La Stampa, che «Benedetto XVI ha come missione educare le coscienze, non dare direttive dogmatiche». È precisamente il contrario: dare «direttive dogmatiche» è il ruolo specifico del Papa, e forse a Marino potrebbe spiegarlo proprio il cardinale Martini, che ha dialogato con lui nello scorso aprile su L’Espresso. È da quel dialogo che cominciò la costruzione mediatica del Martini antipapa, disposto a sposare le posizioni dell’Unione su Pacs e fecondazione artificiale.
No, il cardinale Martini non è l’antipapa.
I suoi interventi sono problematici, sempre infarciti di se, di ma e di forse. A differenza del suo amico Marino, il cardinale sa bene, e lo dice, che le sue sono solo opinioni «pastorali» e che l’ultima parola dogmatica spetta al Papa: che in verità l’ha già detta.
Nell’attuale clima di confusione sarebbe bene però che i cardinali, anche in pensione, fossero assai più prudenti quando parlano con i giornalisti. E un gesuita come Martini sa bene che ci sono momenti in cui la Chiesa si serve meglio tacendo.
il Giornale - Martedì 23 gennaio 2007
Certo che se tu e Federico (La Sala-Nietzsche) non ci foste, bisognerebbe inventarvi. V’ho pungolato, ed eccovi pronti, già in campo, a suonarvele. A breve apriremo un sito di dibattito religioso. Si chiamerà www.lasalallevatodabiagioilfedelerico.va.
Carissimi saluti.
Fra’ Emiliano da Fiore, abate in Roma
MILANO IN TERRA SANTA
Festa e «lectio» ieri a Betlemme:ben 1.300 pellegrini della Chiesa di Ambrogio hanno abbracciato il loro arcivescovo emerito
Martini: «La verità parli con la nostra vita»
Il porporato biblista: «Non credo al dialogo astratto tra le religioni ma all’incontro fra le persone»
Dal Nostro Inviato A Betlemme - Giorgio Bernardelli (Avvenire, 16.02.2007)
La verità del cristiano? Non è calata dall’alto ma è la verità della nostra esperienza di persone; e chi ci ascolta deve poterlo capire. «È il grande dono per il quale prego, anche per la Chiesa italiana». Non è stata solo una grande rimpatriata l’incontro di ieri sera a Betlemme tra i 1.300 pellegrini milanesi e il loro arcivescovo emerito, il cardinale Carlo Maria Martini. Incontro festoso, all’insegna degli 80 anni compiuti il mese scorso. Ma incontro - come sempre col porporato che per 22 anni ha guidato la Chiesa di Milano - con la Parola di Dio al centro. Allora anche il commento alle letture della Messa di Natale, celebrata a pochi passi dal luogo che ne fa memoria, diventa l’occasione per affrontare quello che Martini definisce «un grande compito» per il cristiano d’oggi.
Il punto di partenza è un passo della lettera di san Paolo a Tito: «La grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo». Il porporato biblista sottolinea la «laicità» di quelle parole, nelle quali ogni uomo può riconoscersi. E ne trae l’indicazione di uno stile per il cristiano: bisogna che impariamo sempre di più a parlare «secondo la verità della nostra esperienza, così che ogni persona si senta toccata da questa stessa verità». Questo è il vero dialogo. E non tanto il dialogo astratto tra le religioni («non ci credo molto - confessa - perché ciascuna religione resta sempre un po’ incasellata nel proprio schema»). Il dialogo «è tra gli uomini; religiosi o non religiosi, credenti o non credenti». Il dialogo è vero quando «raggiunge quel livello di verità delle parole che vale per tutti. Quando ciascuno si sente coinvolto, chiamato, si sente parte di una responsabilità comune. Questo - aggiunge Martini - è un grande compito per il quale io prego. Che ci sia dato anche come Chiesa italiana di dire delle cose che la gente capisce, di cui sente la rilevanza. Che non rimangano come un comando dall’alto che bisogna accettare, ma siano avvertite come qualcosa che ha una ragione che la sorregge. Per questo io prego molto».
Più tardi, conversando coi giornalisti su questa parte dell’omelia, il cardinale spiegherà che non va dimenticato anche il resto del brano della lettera a Tito, cioè il riferimento all’attesa della manifestazione della gloria del Signore. «Si tratta - ha riassunto - di ascoltare la gente, lasciando rimbalzare questa voce nel nostro cuore e cercando di illuminarla con la parola del Vangelo. Non con parole strane, ma in una maniera che tutti possano intendere». Ma c’è una difficoltà della Chiesa, oggi, a rapportarsi con la modernità?. «Non saprei - risponde l’arcivescovo emerito di Milano -. La modernità non è una cosa astratta, ci siamo dentro tutti. Si tratta di lasciar risuonare le parole degli altri dentro di sé e valutarle alla luce del Vangelo. Questo è il cammino. Poi non voglio giudicare quali siano i risultati. Quando sono venuto qui a Gerusalemme mi sono posto l’impegno a osservare rigorosamente quanto scritto in Matteo 7, versetto 1: non giudicate e non sarete giudicati...».
Ma in che cosa consiste questa «verità della nostra esperienza»? Alcune indicazioni Martini le aveva offerte già nell’omelia: «Il Vangelo della Natività ci parla di gioia, di luce, di esultanza. Noi invece siamo sempre portati a rimandare queste cose. Diciamo: oggi ci sono tanti problemi, tante sofferenze, verrà un tempo migliore. La Scrittura invece non parla così. Leggevo ieri una pagina che dice: operiamo il bene perché i tempi sono cattivi. Noi diremmo il contrario. Invece dobbiamo vivere la gioia, la serenità, la pace, qualunque siano le circostanze in cui viviamo. Non vuol dire passare sopra le sofferenze, ma entrare più a fondo e vedere come non c’è proporzione tra il dolore di questo mondo e la gloria che ci è preparata».
E l’esperienza personale dell’arcivescovo emerito che, giunto a quest’età, racconta di sentir si «un po’ come sulla lista di attesa». «Guardo ai miei ottant’anni con molta fiducia e con molta pace perché confido nella misericordia di Dio e so che il Signore è più grande del nostro cuore. E vorrei che ciascuno potesse guardare alla propria vita con questa serenità. Curando sì le proprie ferite, le proprie fragilità, ma con una visione ottimista. Ce n’è tanto bisogno nella nostra società. Ma vale anche per le nostre comunità parrocchiali, che troppo spesso si lamentano e rimangono un po’ imprigionate in questo tipo di atteggiamento. Il Signore vuole che guardiamo alla nostra vita, qualunque essa sia, con gratitudine. Scrutando le vie che si aprono sempre davanti a noi». Forse il vero dialogo può partire proprio da qui.
Sul tema, nel sito, si cfr. anche il discorso di Tettamanzi a Verona: