Come cresce bene l’aglio
all’ombra di Westminster
Londra: esplode la moda dell’orto in città. È caccia agli ultimi "lots"
di MATTIA BERNARDO BAGNOLI *
LONDRA. Quando si dice Londra, la prima immagine che salta in testa non è certo quella di zappare la terra in un orto: metropoli tentacolare e vita di campagna non vanno certo di pari passo. Ma nel caso della capitale britannica, le cose non stanno come sembrano. Sono una miriade, infatti, «gli appezzamenti di terreno ad uso agricolo» disseminati nei quartieri della città, compresi quelli più centrali: basta ottenere l’autorizzazione dal comune, e darci sotto con vanga e concime - un passatempo, a quanto pare, molto popolare tra i londinesi.
«Le richieste di affitto dei terreni non sono mai state così alte», spiega Peter Hulme Cross, consulente del comune di Londra, che ha censito uno ad uno tutti i lotti a disposizione del pubblico. E che ieri ha lanciato un sito Internet per permettere ai londinesi di individuare facilmente gli orti a loro più vicini - e ancora disponibili. Basta individuare - attraverso una mappa interattiva - un appezzamento libero, fare richiesta, pagare la quota di affitto annuale - che varia da un minimo di 30 sterline a un massimo di 100 (circa 130 euro) - e cominciare a dissodare il terreno. Un’impresa non facilissima però.
«Nei quartieri più centrali, come Camden Town, la lista di attesa può durare anche dieci anni», spiega Peter. «La “pressione” dell’industria edilizia ha considerevolmente ridotto il numero degli orti: in pratica, questi autentici tesori stanno lentamente scomparendo». Sono circa 1.500 gli orticelli urbani spazzati via negli ultimi 10 anni - una superficie pari a 50 campi da calcio, all’incirca un decimo del totale. Ed ecco allora il sito Internet, perché la conoscenza del territorio è il primo passo per la sua conservazione. Una battaglia che ha raccolto il favore del sindaco di Londra Ken Livingstone che, se rieletto alle comunali di maggio, potrebbe inserire dei vincoli più stringenti per obbligare le varie circoscrizioni locali a conservare gli orti pubblici.
Tradizionalmente, infatti, questa tipologia di terreni - «allotments» in inglese - è posseduta dalle circoscrizioni locali del comune di Londra (borough). Gli allotments, però, possono anche appartenere a associazioni, istituti religiosi o privati. La tentazione di «fare cassa», quindi, può essere molto forte. Nei tre quartieri più centrali - Westminster, la City e Kensington - gli orti non sono che un ricordo: un metro quadro edificabile, da queste parti, ha valori prossimi alla follia.
«Il sito Internet - dice ancora Peter - vuole fornire informazioni e incoraggiare le persone a richiedere l’uso degli orti, assicurandone così il futuro. Questi spazi aiutano a creare un forte senso di comunità e danno la possibilità a tutti di coltivare cibo salutare: devono essere protetti». L’estensione di un «campo» londinese-tipo, infatti, è di 250 metri quadrati: una dimensione ragguardevole. È pratica comune, quindi, dividere l’orto con amici, parenti o con estranei che hanno la stessa passione.
E se un tempo a sgobbare dietro a zucche e cetrioli erano perlopiù anziani pensionati con il pollice verde, oggi, a riscoprire le gioie della campagna a portata di metropolitana, sono in realtà giovani professionisti con famiglia: ventenni e trentenni che passano il fine settimana a dissodare la terra con i bambini. Ma non solo. Ad affollare gli orti di Londra, ci stanno anche molti membri delle «minoranze etniche» - che non trovando nei supermercati della capitale gli alimenti tipici dei loro paesi d’origine, se li coltivano da sé.
L’amore per il giardinaggio non è, dunque, solo appannaggio degli inglesi «doc». «Tra i «possessori» degli orti figurano molti membri delle minoranze turche, indiane, pachistane e di Trinidad e Tobago», spiega ancora Peter. «L’immagine che emerge dal nostro studio - continua - è molto variegata e aggiornata coi tempi: la maggior parte delle persone si dedica all’agricoltura biologica, per portare frutta e verdura il più salutare possibile sulla tavola di casa. Ma c’è anche gente che usa gli orti per coltivare fiori. Sa, non tutti sono così fortunati da avere il giardino dietro casa».
Un orto londinese, secondo i dati in possesso del comune, è abbastanza grande da «soddisfare il fabbisogno alimentare annuale di una famiglia». E allora, messe da parte la moda-bio ed esigenze di approvvigionamento del tutto particolari, gli orti londinesi, visti i prezzi che corrono nella metropoli, sono anche un toccasana per il portafoglio, oltre che per l’alimentazione.
* La Stampa, 23/2/2008
Sul tema, nel sito, si cfr.;
Skyfarming, l’orto verticale
il progetto piace alle metropoli
L’idea del ricercatore Despommier: fattorie-grattacielo a impatto zero
per riciclare e produrre localmente. Il tutto puntando
sulla crisi del mercato immobiliare
di PAOLO PONTONIERE *
IL profilo urbano di posti come Manhattan e Chicago potrebbe essere presto trasformato dallo skyfarming, ovvero dall’introduzione di torri agricole per la produzione di cibo a basso costo e di basso impatto ambientale. Edifici nei quali i suini verrebbero allevati al quinto piano, i polli al sesto e gli ovini al settimo (tanto per fare un esempio) mentre ai piani più alti si coltiverebbero legumi, vigne, ortaggi e tutte le varietà vegetali che hanno bisogno di tanta acqua per crescere. Non solo un tentativo di fornire le città di un modo per garantirsi l’approvvigionamento di cibi coltivati localmente e con metodi organici, ma anche una risposta ai problemi ambientali più pressanti del momento.
Impostate secondo i più stretti principi dello "zero waste", cioè "rifiuti zero", le fattorie verticali, nel progetto, tendono a utilizzare al massimo le risorse e a riutilizzare gli scarti. L’acqua usata per irrigare i raccolti situati ai piani superiori percolerebbe lentamente verso i piani inferiori per irrigare grano, frutta e verdura mentre i rifiuti - quelli non utilizzati come mangime per gli animali dei piani più bassi - finirebbero nei sotterranei con gli altri scarti organici per essere trasformati, grazie a fornaci termovoltaiche, in "bio-palline" di combustibile ultracompresso che, producendo tanta energia, finirebbe col generare l’elettricità utilizzata dall’edificio.
Quanti ai rifiuti, questi verrebbero ridotti al minimo attraverso un rigorosissimo programa di riciclaggio che finirebbe col recuperare anche il vapore acqueo emesso da piante e animali. Trasformato in acqua pura, verrebbe imbottigliato per la vendita al dettaglio nei ristoranti e nei supermercati situati ai livelli più bassi dell’edificio. Il tutto in un ambiente superclimatizzato.
L’idea dello skyfarming, finora sperimentata solo in piccoli edifici di comunità ecosostenibili dell’Arizona e della California, ha ricevuto un improvviso impulso dalla crisi immobiliare statunitense. Colpito dall’ondata di fallimenti aziendali, il settore immobiliare per il commercio sta registrando un’incidenza di edifici vuoti che ricorda quella degli inzi degli anni ’80, quando interi isolati erano completamente spopolati. Nelle downtown (i centri finanziari) delle metropoli, ora abbondano edifici vuoti che potrebbero essere riconvertiti in aziende agricole a carattere urbano.
Secondo gli esperti, nella sola New York se ne potrebbero costruire in poco tempo oltre una quindicina, ciascuna in grado di produrre cibo sufficiente a soddisfare oltre 75 mila persone. Se se ne costruissero 160, si potrebbe sfamare l’intera popolazione della Big Apple.
Il numero dei centri urbani che hanno espresso interesse per la nuova proposta, oltre a New York, va da Toronto a Seattle e da San Francisco a Los Angeles. Anche Las Vegas, dove quella di ricreare i simboli architettonici di altri luoghi del mondo è un’arte, sta pianificando una skyfarm di trenta piani. Mentre Shangai, Corea del Sud, Abu Dabi e Emirati Arabi - dove la disponibilità di suolo coltivabile è per ragioni di forza maggiore una risorsa scarseggiante - si sono affrettati a chiedere progetti di fattibilità.
Lanciata circa cinque anni fa in maniera provocatoria da Dickson Despommier, docente di Salute pubblica e microbiologia alla Columbia University, l’idea del vertical farming non ci ha messo molto ad attecchire accendendo la fantasia di amministratori locali e architetti di grido. Il sindaco di San Francisco, Gavin Newsom, ne è un sotenitore convinto mentre a New York l’ipotesi è stata abbracciata da Scott Stringer, presidente del consiglio di quartiere di Manhattan, che ha ordinato uno studio di fattibilità da presentare al sindaco Michael Bloomberg, entro la fine di Febbraio. "Non disponiamo di molta terra coltivabile, ma a Manhattan il cielo non ha limiti", ha detto Stringer.
In una fase in cui gli Stati Uniti si apprestano a lanciarsi in un’opera di riconversione ecosostenibile delle metropoli, i sindaci sono disposti a sposare anche le idee più futuristiche pur di ridurre la dipendenza da risorse straniere. Tra gli architetti di grido attratti dall’idea si distinguono invece il francese Pierre Satroux, l’americano Chris Jacobs, l’australiano Oliver Foster, il canadese Gordon Graff e il polacco Daniel Libeskind. I loro progetti sono degli ibridi architettonici con riferimenti stilistici che spaziano dai giardini pendenti di Babilonia alla Biosfera del deserto dell’Arizona con un tocco di SimCity e Second Life.
Ma non tutti sono entusiasti dell’idea di Despommier, che alla sua idea ha dedicato un sito internet. Secondo Jeffrey Kaufman, professore di Pianificazione urbana all’Università del Wisconsin a Madison, Despommier tende a strafare. "Perché trenta piani? Sei basterebbero. Il concetto è interessante ma è estremizzato". Per Armand Carbonell, direttore del Dipartimento di Pianificazione urbana del Lincoln Institute of Land Policy, il problema è di un altro ordine: a un costo nominale di circa 200 milioni di dollari l’impresa rischia di essere antieconomica. "Siamo sicuri - osserva Carbonell - che un pomodoro risucirebbe a battere un banchiere per l’affitto di di un grattacielo nella parte sud di Mahattan? Scommetto che il banchiere pagherebbe di più".
* la Repubblica, 1 gennaio 2009