di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 18.03.2008)
Marco Poggi, infermiere penitenziario, entrò in servizio a Bolzaneto alle 20 di venerdì 20 luglio 2001 e ci rimase fino alle 15, 15.30 di domenica 22 luglio. «Ho visto picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti con schiaffi, pugni, calci, testate contro il muro».
«Picchiava la polizia di stato ma soprattutto il "gruppo operativo mobile" e il "nucleo traduzioni" della polizia penitenziaria. Ho visto trascinare un detenuto in bagno, da tre o quattro agenti della "penitenziaria". Gli dicevano: "Devi pisciare, vero?". Una volta arrivati nell’androne del bagno, ho sentito che lo sottoponevano a un vero e proprio linciaggio...».
Marco Poggi dice che sa che cos’è la violenza. «Ci sono cresciuto dentro. Ho "rubato" la terza elementare ai corsi serali delle 150 ore e sono andato infermiere in carcere per buscarmi il mio pezzo di pane. Per anni ho lavorato al carcere della Dozza a Bologna. Un posto mica da ridere. Tossici, ladri di galline, mafiosi, trans, stupratori. La violenza la respiravi come aria, ma quel che ho visto a Bolzaneto in quei giorni non l’avrei mai ritenuto possibile, prima. Alcuni detenuti non capivano come fare le flessioni di routine previste dalla perquisizione di primo ingresso in carcere. Meno capivano e più venivano picchiati a pugni e calci dagli agenti della polizia penitenziaria. Gli ufficiali, i sottufficiali guardavano, ridevano e non intervenivano. Ho visto il medico, vestito con tuta mimetica, anfibi, maglietta blu con stampato sopra il distintivo degli agenti della polizia penitenziaria, togliere un piercing dal naso di una ragazza che era in quel momento sottoposta a visita medica e intanto le diceva: "Sei una brigatista?"».
Marco Poggi è «l’infame di Bolzaneto». Così lo chiamavano alcuni agenti della "penitenziaria" e lui, in risposta, per provocazione, per orgoglio, per sfida, proprio in quel modo - Io, l’infame di Bolzaneto - ha voluto titolare il libro che raccoglie la sua testimonianza. Poggi è stato il primo - tra chi era dall’altra parte - a sentire il dovere di rompere il cerchio del silenzio. «Delle violenze nelle strade di Genova - dice - c’erano le immagini, le foto, i filmati. Tutto è avvenuto alla luce del sole. A Bolzaneto, no. Le violenze, le torture si sono consumate dietro le mura di una caserma, in uno spazio chiuso e protetto, in un ambiente che prometteva impunità. Solo chi l’ha visto, poteva raccontarlo. Solo chi c’era poteva confermare che il racconto di quei ragazzi vittime delle violenze era autentico. Io ero tra quelli. Che dovevo fare, allora? Dopo che sono tornato a casa da Genova, per giorni me ne sono stato zitto, anche con i miei. Io sono un pavido, dico sempre. Ma in quei giorni avevo come un dolore al petto, un sapore di amaro nella bocca quando ascoltavo il bla bla bla dei ministri, le menzogne, la noncuranza e infine le accuse contro quei ragazzi. Non ho studiato - l’ho detto - ma la mia famiglia mi ha insegnato il senso della giustizia. Non ho la fortuna di credere in Dio, ho la fortuna di credere in questa cosa - nella giustizia - e allora mi sono ripetuto che non potevo fare anch’io scena muta come stavano facendo tutti gli altri che erano con me, accanto a me e avevano visto che quel che io avevo visto. Ne ho parlato con i miei e loro mi hanno detto che dovevo fare ciò che credevo giusto perché mi sarebbero stati sempre accanto. E l’ho fatta, la cosa giusta. Interrogato dal magistrato, ho detto quel che avevo visto e non ci ho messo coraggio, come mi dicono ora esagerando. Non sono matto. Ci ho messo, credo, soltanto l’ossequio per lo stato, il rispetto per il mio lavoro e per gli agenti della polizia carceraria - e sono la stragrande maggioranza - che non menano le mani».
Marco Poggi ha pagato il prezzo della sua testimonianza. «Beh! - dice - un po’ sì, devo dirlo. Dopo la testimonianza, in carcere mi hanno consigliato - vivamente, per dire così - di lasciare il lavoro. Dicevano che quel posto per me non era più sicuro. Qualcuno si è divertito con la mia auto, rovinandomela. Qualche altro mi ha spedito la mia foto con su scritto: "Te la faremo pagare". Il medico con la mimetica e gli anfibi mi ha denunciato per calunnia. Ma il giudice ha archiviato la mia posizione e con il lavoro mi sono arrangiato con contratti part-time in case di riposo per anziani. Oggi, anche se molti continuano a preoccuparsi della mia integrità più di quanto faccia solitamente la mia famiglia, sono tornato a lavorare in carcere, allo psichiatrico di Castelfranco Emilia. Mi faccio 160 chilometri al giorno, ma va bene così. Sono tutti gentili con me, l’infame di Bolzaneto». Dice Marco Poggi che «se i reati non ci sono - se la tortura non è ancora un reato - non è che te li puoi inventare». Dice che lui «lo sapeva fin dall’inizio che poi le condanne sarebbero state miti e magari cancellate con la prescrizione». Dice Poggi che però «quel che conta non è la vendetta. La vendetta è sempre oscena. Il direttore del carcere di Bologna Chirolli - una gran brava persona che mi ha insegnato molte cose sul mio lavoro - ci ripeteva sempre che lo Stato ha il dovere di punire e mai il diritto di vendicarsi. Mi sembra che sia una frase da tenere sempre a mente. Voglio dire che importanza ha che quelli di Bolzaneto, i picchiatori, non andranno in carcere? Non è che uno voglia vederli per forza in gabbia. La loro detenzione potrebbe apparire oggi soltanto una vendetta, mi pare. Quel che conta è che siano puniti e che la loro punizione sia monito per altri che, come loro, hanno la tentazione di abusare dell’autorità che hanno in quel luogo nascosto e chiuso che è il carcere, la questura, la caserma. Per come la penso io, la debolezza di questa storia non è nel carcere che quelli non faranno, ma nella sanzione amministrativa che non hanno ancora avuto e che non avranno mai. Che ci vuole a sospenderli da servizio? Non dico per molto. Per una settimana. Per segnare con un buco nero la loro carriera professionale. È questa la mia amarezza: vedere i De Gennaro, i Canterini, i Toccafondi al loro posto, spesso più prestigioso del passato, come se a Genova non fosse accaduto nulla. Io credo che bisogna espellere dal corpo sano i virus della malattia e ricordarsi che qualsiasi corpo si può ammalare se non è assistito con attenzione. Quella piccola minoranza di poliziotti, carabinieri, agenti di polizia penitenziaria, medici che è si abbandonata alle torture di Bolzaneto è il virus che minaccia il corpo sano. Sono i loro comportamenti che hanno creato e possono creare, se impuniti, sfiducia nelle istituzioni, diffidenza per lo Stato. Possono trasformare gli uomini in divisa - tutti, i moltissimi buoni e i pochissimi cattivi - in nemici del cittadino. Non ci vuole molto a comprendere - lo capisco anch’io e non ho studiato - che soltanto se si fa giustizia si potrà restituire alle vittime di Genova, ai giovani che vanno in strada per manifestare le loro idee, fiducia nella democrazia e non rancore e frustrazione. I giudici fanno il loro lavoro, ma devono fare i conti con quel che c’è scritto nei codici, con quel che viene fuori dai processi. Non parlo soltanto dei processi, è chiaro. Parlo della responsabilità della politica. Che cosa ha fatto la politica per sanare le ferite di Genova? Gianfranco Fini, che era al governo in quei giorni, disse che, se fossero emerse delle responsabilità, sarebbero state severamente punite. Perché non ne parla più, ora che quelle responsabilità sono alla luce del sole? Perché Luciano Violante si oppose alla commissione parlamentare d’inchiesta? Dopo sette anni questa pagina nera rischia di chiudersi con una notizia di cronaca che dà conto di una sentenza di condanna, peraltro inefficace, senza che la politica abbia fatto alcuno sforzo per riconciliare lo Stato e le istituzioni con i suoi giovani. Ecco quel che penso, e temo».
«A Bolzaneto fu sospeso lo Stato di diritto»
Le motivazioni della Cassazione per le violenze del G8 nel 2001: ignorati principi-cardine del diritto
di Massimo Solani (l’Unità, 11.09.2013)
Un «completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto». La vergogna del G8 di Genova del 2001 e delle torture ai manifestanti fermati sta scritta anche nero su bianco nelle motivazioni con cui la Cassazione il 14 giugno scorso ha confermato le sette condanne e le quattro assoluzioni nei confronti di poliziotti, carabinieri, agenti e medici penitenziari responsabili delle violenze perpetrate a carico dei fermati nella caserma Bolzaneto.
E sono proprio i racconti di quanti trascorsero i giorni successivi nel centro di detenzione, secondo i giudici della Cassazione, a delineare un «trattamento» dei detenuti «contrario alla legge» e «gravemente lesivo della dignità delle persone» perpetrato attraverso «vessazioni continue e diffuse in tutta la struttura». «Non risulta scrivono i giudici della V sezione penale della Cassazione che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso i bagni o gli uffici) con le modalità vessatorie e violenze riferite dai testi». Nella sentenza si ricorda, ad esempio il caso di una ragazza accompagnata in bagno, costretta a mantenere il «capo chino all’altezza delle ginocchia» con la «torsione delle braccia dietro la schiena», mentre, al suo passaggio «poliziotti ai lati» continuavano con «percosse e insulti». L’agente donna che accompagnava la detenuta non fece desistere i colleghi, ma invitò la ragazza a «stare attenta a non cadere quando un agente le aveva fatto lo sgambetto».
Secondo i magistrati della Cassazione chiunque si sia trovato a prestare servizio in quei giorni a Bolzaneto non poteva non essere perfettamente al corrente di quanto stava accadendo. Le violenze infatti «producevano fonti visive, sonore e olfattive del tutto inequivocabili per chi, operando in quel ristretto ambito spaziale e muovendosi al suo interno, in quegli stessi eventi si trovava immerso alla stregua di un testimone oculare».
Secondo i magistrati, infatti, era di fatto impossibile che «all’interno della struttura potessero sfuggire a chicchessia le risonanze vocali (cioè gli ordini, i pianti, le grida, i lamenti, i cori), le risonanze sonore (cioè i transiti, le cadute, i colpi), le percezioni olfattive (cioè la puzza dell’urina, l’odore del gas urticante spruzzato, l’odore del vomito, del sudore e del sangue) e le tracce lasciate sui volti, sugli abiti, negli sguardi, negli ansiti e nella voce delle vittime». La colpa degli imputati, poi, sta anche nell’«avere avuto consapevolezza di tutto ciò» e «nell’avere omesso di impedirlo».
È un vero e proprio «catalogo degli orrori» quello ricostruito dai giudici: «lesioni con gas urticante», «percosse con calci, pugni schiaffi e colpi di manganello», «minacce» di vario tipo: una «chiara visione» di quello che stava accadendo non poteva non emergere dall’«aspetto atterrito e sanguinante degli arrestati», dal «modo in cui venivano apostrofati e trattati dai loro seviziatori», dalle «urla di dolore delle vittime» e appunto, da «canti e suoni inneggianti al fascismo che provenivano ora dall’esterno della caserma, ora dal corridoio». Ai no-global fermati poi, ricostruiscono i magistrati della Cassazione, furono «negati cibo e acqua» mentre a «diversi detenuti» venne anche imposto di «orinarsi addosso per essere loro vietato l’accesso al bagno». Un «contesto di ingiustificate vessazioni», conclusono i magistrati, «non necessitate dai comportamenti» dei fermati e «riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no-global».
La verità e la vergogna
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 3 ottobre 2012)
Sulla notte genovese della Scuola Diaz la sentenza numero 3885 fa finalmente chiarezza. La condotta della polizia nell’irruzione, dice la sentenza, «fu un puro esercizio di violenza». E questo lo sapevamo. Lo disse subito questo giornale che non ha più cessato di ricordarlo. Da allora la vigilanza dell’informazione democratica ha permesso che la coscienza dell’enormità dell’accaduto si facesse strada a forza nello spazio della vita civile vincendo l’incredulità più o meno faziosa e i maldestri tentativi di minimizzare.
Quel giorno ci svegliammo all’improvviso, straniati, in un Paese irriconoscibile. La scuola Diaz è diventata il luogo simbolo di una alterazione intollerabile delle regole di convivenza tale da farci vergognare di essere italiani. Dura da quella notte il senso di una mutazione del sistema Italia. “Scuola Diaz” è diventato un promemoria capace di segnare meglio di ogni altro il punto di passaggio a un diverso ciclo storico della nostra repubblica.
Certo, anche nei decenni precedenti c’erano state manganellate e spari. Ma non quella macelleria senza limiti, non quei corpi e quelle teste sanguinanti, non quelle ossa rotte, non lamenti e preghiere di giovani inermi aggrediti con spaventosa violenza nel sonno e nella quiete di una notte genovese.
La vita italiana fece allora un balzo verso dimensioni ignote e spaventevoli, che si faticò a definire se non col solito rinvio al nostro peggiore passato, il fascismo. Per misurare quanto diverso fosse diventato il panorama del Paese bastava pensare a quel che era accaduto negli stretti spazi dell’antica città di mare nel luglio 1960 quando da lì era venuto il segno di un rifiuto senza appello al governo clericofascista di Tambroni e al tentativo di riportare indietro un Paese ormai cresciuto nella libertà.
Ma quella che si era annunciata col pestaggio della Diaz era una fase nuova e inaudita, dove lo scontro non era tra masse vigili, determinate, aggressive di manifestanti e le cariche di “alleggerimento” delle forze di polizia, ma tra uomini in divisa ebbri di violenza contro persone giovani, inermi, indifese come può esserlo chi giace nell’abbandono fiducioso del sonno.
Le parole della sentenza sono proprio queste: «Le violenze, generalizzate in tutti gli ambienti della scuola, si sono scatenate contro persone all’evidenza inermi, alcune dormienti, altre già in atteggiamento di sottomissione con le mani alzate e, spesso, con la loro posizione seduta in manifesta attesa di disposizioni». Su quelle persone, dormienti o sedute, supplici, sottomesse, fiduciose, si esercitò una violenza «non giustificata e punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione e alla sofferenza fisica e mentale delle vittime».
La sentenza va oltre questa denunzia: ci dice come e perché, e per colpa di chi, avvenne il massacro che lasciò 87 feriti anche molto gravi e insanguinò le pareti e i pavimenti di quella scuola.
Leggiamola attentamente, perché una volta di più abbiamo l’occasione per imparare qualcosa sui comportamenti della polizia e sulle regole che governano corpi speciali sempre esposti per loro natura a subire l’attrazione dell’arbitrio e dell’illegalità. Sapevamo già che gli agenti erano apparsi al prefetto La Barbera in preda a un certo nervosismo, tanto da fargli pensare che si preparavano cose gravi perché, come lui disse, “ognuno conosce gli animali suoi”. Attenzione però: animali quegli uomini lo erano diventati non per la forza di un istinto naturale ma per effetto di un ordine: c’era stata l’esortazione del comandante Giovanni De Gennaro a “riscattare l’immagine della Polizia”.
Dunque quei poliziotti erano stati caricati deliberatamente di un’aggressività obbligata, nutrita di senso del dovere, potenziata dall’idea dell’impunità di un corpo non soggetto alla legge, libero di superare il confine dell’illegalità perché c’era chi gli garantiva il privilegio dell’impunità. E fu proprio chi aveva la funzione del comando a creare verbali menzogneri “funzionali a sostenere così gravi accuse”, tali da giustificare arresti di massa e a indurre i pubblici ministeri a chiedere la convalida di quegli arresti.
Questo è il punto nuovo e importante che la sentenza chiarisce. Qui si sposta finalmente l’attenzione verso l’alto, verso i vertici finora lasciati in ombra e sfuggiti col silenzio o con la copertura omertosa alle loro responsabilità. E si entra nella dinamica dei corpi scelti e delle logiche dell’obbedienza che possono trasformare gli individui più banalmente normali in macellai di carne umana.
Sappiamo di quali imprese furono capaci nel Terzo Reich quei buoni borghesi di Amburgo che un ordine dall’alto e una divisa fecero diventare assassini professionali, capaci di straordinaria efficienza nell’eliminare intere comunità di ebrei. E basterebbero gli esperimenti di laboratorio sui meccanismi dell’obbedienza per spiegare quali effetti possa avere un ordine impartito da un comandante di polizia a un corpo militarizzato. Sulle loro spalle gravava il compito di “riscattare l’immagine” di tutta e intera la polizia italiana.
C’era stata la giornata precedente, la devastazione, i saccheggi, una gestione dell’ordine pubblico talmente disastrosa e insipiente da far pensare addirittura a una pianificazione deliberata del disordine. Fu per rimediare e cancellare errori e mancanze vergognose che De Gennaro spedì centinaia di uomini in assetto militare a compiere qualcosa di ben più vergognoso: qualcosa che, invece di riscattare l’immagine della polizia l’ha resa ancora più sporca, tanto da porre con urgenza a chi di dovere il compito di provvedere alle sanzioni opportune e necessarie.
Anche perché stavolta c’è qualcosa di più importante dell’immagine di un corpo dello Stato: quel che fu compiuto allora - nota la sentenza della Cassazione - “ha gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero”. Forse, grazie anche ai magistrati della Cassazione, si può finalmente cominciare a uscire dalla notte genovese della democrazia.
Confermate le condanne per il massacro alla Diaz, azzerati i vertici della polizia Per i dirigenti della Polizia scatta l’interdizione, lo ha promesso il ministro Cancellieri dopo la conferma in Cassazione delle condanne per le violenze durante il G8 di Genova. Prescritti i reati di lesione per gli agenti
di Claudia Fusani (l’Unità, 06.07.2012)
ROMA La notte in cui in Italia fu sospesa la democrazia adesso ha dei colpevoli. Undici anni dopo giustizia è fatta. In nome del popolo italiano e di quei 93 ragazzi e ragazze ridotti in fin di vita. Il sangue della scuola Diaz adesso può essere lavato dai termosifoni e dalle pareti della scuola che nei giorni del G8 di Genova ospitava il quartier generale del Genoa social forum. Non può essere lavato dalla memoria, perchè le mattanze con l’alibi della divisa non possono mai essere ammesse in un paese civile. Ma, almeno, dalla lista dei conti in sospeso. Adesso si può tutti guardare avanti, le vittime, i magistrati, anche i condannati che non pagheranno con il carcere ma con l’interdizione dai pubblici uffici (per 5 anni) oltre ai risarcimenti. A suo modo, anche questa, una rivoluzione: tra i condannati in via definitiva per falso aggravato ( arresto arbitrario e calunnia sono già prescritti), ci sono infatti i vertici della polizia, il capo del DCA (divisione centrale anticrimine) Francesco Gratteri e Gilberto Caldarozzi, uno dei suoi collaboratori più stretti.
Si tratta degli uomini, ottimi investigatori, che tre settimane fa hanno consegnato alla giustizia l’attentatore di Brindisi, solo l’ultimo dei successi di una squadra di investigatori che ha segnato la storia dell’antimafia e dell’anticrimine ma che quella notte del 21 luglio 2001 a Genova ha sbagliato tutto, non l’ha mai ammesso e l’errore più grave non ha mai chiesto scusa. Condannato in via definitiva anche Gianni Luperi, capo sezione analisi dell’Aisi (ex Sisde), Filippo Ferri (oggi capo della squadra mobile di Firenze), Fabio Ciccimarra (numero 1 della Mobile a L’Aquila). Sono i “pezzi grossi” tra i 27 imputati che annoverano anche la manovalanza e i quadri intermedi dei reparti mobili che quella notte decisero e fecero l’irruzione nella scuola alla ricerca di pericolosi black bloc armati di molotov e spranghe e invece si trovarono davanti solo ragazzi e ragazze che stavano dormendo nei loro sacchi a pelo esausti dopo tre giornate d’inferno. Eppure, nonostante l’evidenza dell’errore, quegli agenti non si fermarono.
Nessuno esulta alle sette di sera nell’aula magna della Cassazione quando il presidente della V sezione Giuliana Ferrua legge il dispositivo dopo nove ore di camera di consiglio segnate dal caldo e dal nervosismo. Assenti, come sempre in questi anni, gli imputati. Delusione tra i banchi dei legali. Ma non c’è voglia di esultare neppure tra i pochi protagonisti di quella notte. Ci vuole tempo per comprendere il verdetto. E forse lo si capisce di più e prima guardando le facce degli avvocati dei poliziotti. Lorenzo Guadagnucci è un giornalista di QN, quella notte era nel suo sacco a pelo al primo piano della scuola e ne uscì in barella con altri 92. È il protagonista del film «Diaz» (interpretato da Elio Germano) nonchè l’autore di due libri-testimonianza, Noi della Diaz (2002, ed Altra economia) e L’eclisse della democrazia (Feltrinelli, insieme con Vittorio Agnoletto). Temeva, come molti, il peggio: assoluzioni parziali, soluzioni piolatesche, qualche rinvio in Appello, altre dilazioni che avrebbero significato la pietra tombale su un processo già sbranato dalla prescrizione. «Ringrazio la Cassazione dice per aver scritto parole di giustizia nonostante le condizioni di estrema pressione. La Corte è l’unica istituzione che ha saputo e voluto cogliere quest’ultima chance dopo undici anni in cui tutte le altre istituzioni, Governo, Parlamento, Polizia di stato, hanno sempre deciso di stare dalla parte sbagliata accettando la copertura e nascondendo l’evidenza che quella notte c’è stata una spaventosa lesione dei diritti umani».
Una sentenza inattesa quella della V sezione. Molti, quasi tutti, erano convinti che la Suprema Corte non avrebbe mai avuto il coraggio di confermare la sentenza di Appello che nel maggio 2010 aveva condannato tutti gli imputati ribaltando il verdetto di primo grado (novembre 2008) che aveva assolto quasi tutti, tranne gli agenti che avevano materialmente alzato i manganelli. Come se non ci fossero stati ordini superiori a farli alzare, quei manganelli. Ordini superiori che invece hanno deciso a tavolino di fare quel blitz a freddo, nei modi e nei tempi della mattanza. I giudici dell’Appello avevano sentenziato che per quei fatti dovevano essere ritenuta colpevole tutta la scala gerarchica, i capi e gli esecutori, chi ha dato gli ordini e chi li ha eseguiti. E, sempre l’Appello, aveva anche deciso che non potevano scattare le attenuanti (che avrebbero già fatto scattare la prescrizione) perchè «dai servitori dello Stato si deve pretendere un comportamento integerrimo sempre, anche durante il processo». Invece in questi anni ci sono state omissioni, reticenze, 20 imputati su 28 non hanno voluto testimoniare in aula.
È questo alla fine che ha pesato di più: l’atteggiamento di sufficienza, non aver mai preso coscienza e consapevolezza di quello che era successo. Quando ricopri certi ruoli, quando sei responsabile della sicurezza di un Paese, l’assunzione di responsabilità è un obbligo morale prima ancora che giudiziario. «La catena di comando è stata condannata e questo è un grande risultato. La Diaz però pagina nera per la democrazia italiana e il Parlamento non ha mai voluto una Commissione per individuare le responsabilità politiche» dice l’avvocato Francesco Romeo. Una sentenza severa. Dura. A suo modo beffarda: gli otto capisquadra del VII Nucleo Speciale della Squadra Mobile di Roma, i primi e gli unici ad essere condannati in primo grado per lesioni, si sono salvati grazie alla prescrizione che non fa scattare la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.
Ora scatta l’obbligo del ricambio dei vertici della polizia. «Attueremo il dettato della Cassazione» dice il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri per cui la sentenza «chiude una vicenda dolorosa che ha segnato tante vite in queste undici anni». Ma, aggiunge Vittorio Agnoletto all’epoca portavoce del Genoa Social Forum, «se sono stati condannati il numero 2, 3 e 4 della polizia dell’epoca, come è possibile che non ci siano conseguenze per l’allora n ̊1 Gianni De Gennaro che oggi è addirittura sottosegretario del governo?». De Gennaro non è mai stato imputato per questo processo. Aveva delegato La Barbera (scomparso nel 2002). Lui, Il Capo, seguiva e concordava ogni passo da Roma.
Amnesty International
Importante, ma nessuno ha ancora chiesto scusa
l’Unità, 06.07.2012
«Una sentenza importante, ma resta l’amaro in bocca perché nessuno ha chiesto scusa». Così Amnesty International sulla sentenza della Corte di Cassazione su quanto avvenuto a Genova nel luglio 2001. «Finalmente e definitivamente dice Amnesty , anche se molto tardi, riconosce che agenti e funzionari dello Stato si resero colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani di persone che avrebbero dovuto proteggere».
Tuttavia, Amnesty ricorda che i fallimenti e le omissioni dello Stato nel rendere pienamente giustizia alle vittime delle violenze del G8 di Genova sono di tale entità che queste condanne lasciano comunque l’amaro in bocca: arrivano tardi, con pene che non riflettono la gravità dei crimini accertati e che in buona parte non verranno eseguite a causa della prescrizione e a seguito di attività investigative difficili ed ostacolate da agenti e dirigenti di polizia che avrebbero dovuto sentire il dovere di contribuire all’accertamento di fatti tanto gravi. Soprattutto, queste condanne coinvolgono un numero molto piccolo di coloro che parteciparono alle violenze ed alle attività criminali volte a nascondere i reati compiuti.
di Oreste Pivetta (l’Unità, 06.0720.12)
La sentenza riguarda quanto avvenne nella notte alla scuola Diaz: quattrocento agenti a caccia di no global, giovani, ragazzi e ragazze, anche qualche signore e qualche signora di mezza età, tutti coricati nei loro sacchi a pelo sul pavimento della palestra della scuola Diaz. Accanto ad ognuno di loro la borsa, con gli indumenti di ricambio, lo spazzolino da denti, i biscotti, i barattoli di marmellata, qualche libro, qualche giornale. Questa la scena del delitto: una «scena» che secondo i «vertici» di polizia e carabinieri meritava l’assalto, lo sfondamento dei cancelli (aperti) con i gipponi, le botte, le manganellate, il sangue... Nel cuore della notte. Davanti al mondo intero. La coraggiosa sentenza, che certifica falsificazioni, bugie, i soliti tentativi di insabbiare, dice molto. Non tutto però. Undici anni dopo ancora non sappiamo perché. Ricordo le parole, il giorno dopo, di un appuntato della pubblica sicurezza, non più giovane, uno che, agente in strada, aveva seguito tanti cortei, tante manifestazioni, dal nostro Sessantotto in poi: «Qui hanno perso tutti la testa». Ricordo quanto ancora testimoniò, Michelangelo Fournier, all’epoca dei fatti vicequestore aggiunto del primo reparto mobile di Roma: «Sembrava una macelleria messicana».
Mi è capitato di assistere alla macelleria messicana, di raccogliere le voci delle vittime e quelle di chi, dalle case attorno, risvegliate nel cuore della notte, vi aveva assistito e la mattina dopo constatava di persona: la palestra ridotta a un tappeto di banali oggetti di ogni giorno; i caloriferi, alti termosifoni di ghisa, impiastrati di sangue; i gradini delle scale allo stesso modo sporchi di sangue, mentre qui e là ciocche di capelli erano l’evidenza di un corpo trascinato giù per le scale; le porte dei gabinetti, un ingenuo rifugio nel caos, sfondate; i computer di un’aula tecnica rovesciati a terra; fino alla staccionata che chiudeva il corridoio, perché dall’altra parte era aperto il cantiere di un’ala dell’edificio in ristrutturazione (non è un particolare da poco, perché due mattine più tardi, per la conferenza stampa dei carabinieri, erano stati esposti come corpi di reato, martelli da carpentiere, chiodi da carpentiere, qualche asse spezzata).
Tutto nella sequenza di quei giorni, dagli scontri ai primi cortei delle “tute bianche” alla morte di Carletto Giuliani in piazza Alimonda, dall’assalto alla Diaz all’ultimo attacco alla manifestazione popolare, alle violenze nella caserma di Bolzaneto, ai cori fascisti, tutto continua a stupire, scandalizzare, inorridire, perché dai tempi di Scelba, dei caroselli con le jeep, delle cariche a cavallo, dei morti in strada (l’altro luglio, quello del Sessanta), malgrado il terrorismo, malgrado le bombe e i depistaggi, malgrado le perdite di memoria di ministri e generali, qualcosa sembrava cambiato nel rapporto tra istituzioni, forze dell’ordine, cittadini, e nel segno della democrazia. Genova, piazza Alimonda, la Diaz, Bolzaneto furono un salto nel buio di un passato, un salto cercato, voluto, pensato, come una rivincita e una vendetta, rispetto al quale non teneva e non tiene una giustificazione che si richiama alle tensione di quei giorni, alla forza dei “neri” spacca vetrine. Come se invece si fosse cercata la “lezione”. Per questo un conto sono i poliziotti o i carabinieri violenti, un conto sono quanti hanno armato quei poliziotti e quei carabinieri, quanti li hanno “istruiti”, anche ingigantendo le paure e le minacce.
Molti, giudicando quelle vicende, si sono chiesti che cosa avesse ordinato Berlusconi; quali disposizioni avesse dato il ministro Scajola; che cosa ci facessero a Genova tra i tavoli dei comandi dei carabinieri o della polizia Fini e il suo parlamentare Filippo Ascierto. Loro potrebbero raccontare, dire, ricordare, aiutarci a dissolvere la nebbia, che le condanne non hanno dissolto, perché certo si possono indicare le responsabilità dirette della “catena di comando”, ma siamo lontani dal dare un nome e un cognome a chi architettò quell’esplosione di violenza sotto gli occhi del mondo e per quale ragione. Dopo undici anni, si potrebbe (e qualcuno lo farà) organizzare il bilancio dei condannati e degli assolti (la maggioranza), sommare gli anni di pena, contare le prescrizioni, elencare quanti non hanno visto neppure le porte di un tribunale. Si potrebbero confrontare le accuse (per lo più falso aggravato, calunnia, lesioni gravi). Si potrebbero citare quanti hanno fatto carriera. Qualcuno è andato in pensione. Molti abbiamo imparato a conoscerli: Gratteri, Luperi, Mortola, Canterini (ha lasciato per limiti d’età), eccetera eccetera. Si potrebbe... Resta inevasa quella domanda: perché? Cioè, di chi fu la responsabilità politica. Resta, dopo undici anni, una pagina oscura, scritta con impressionante e imperscrutabile (per noi) determinazione.
Quella “macelleria” che cambiò la polizia Diaz, le parole choc del questore Fournier
di Silvia D’Onghia e Malcom Pagani (il Fatto, 01.03.2012)
"Sembrava una macelleria messicana” disse in tribunale Michelangelo Fournier ai giudici genovesi. Il vicecapo del VII nucleo del reparto mobile di Roma in servizio effettivo alla Diaz. L’enigma vivente di una lunga notte iniziata il 22 luglio 2001 e non ancora terminata. Né santo né eroe, ma l’unico individuo in divisa che entrò in relazione con le vittime di un assalto brutale, si tolse il casco, allontanò spintonando aguzzini con la pettorina: “Basta, basta” e temendo che la tedesca Melanie Jonasch fosse morta: “Io sono rimasto terrorizzato, basito quando ho trovato la ragazza con la testa aperta” interruppe il massacro. Una figura complessa che, fotografata nelle sue contraddizioni e senza beatificazioni, il regista Daniele Vicari traspone nel film Diaz con fedele aderenza alla dialettica esposta da Fournier in un’aula giudiziaria.
FOURNIER, l’unico poliziotto in grado non promosso sul campo per la mattanza di via Cesare Battisti, parlò di “macelleria messicana” in due distinte occasioni. Deposizioni sofferte, in bilico tra verità e senso della comunità da preservare: “Sono nato in una famiglia di poliziotti, non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei miei colleghi”. L’ultima volta, nel giugno 2007, ammise di non aver avuto la forza di dire tutto ciò che sapeva “per spirito di appartenenza”. Michelangelo Fournier, l’uomo d’ordine con il cuore a destra che divideva le ricreazioni scolastiche con l’ex parlamentare verde Paolo Cento. Il “pentito” come semplicisticamente dissero in molti. Il dirigente detestato da un pezzo consistente di movimento secondo il quale non si decise a confessare sulla spinta dell’indignazione, ma solo perché riconosciuto da alcune vittime dell’assalto alla Diaz. Fournier, il funzionario avversato dai quadri che videro nella sua opposizione a Canterini, un’eversione inaccettabile per tempi, modi e forma. Nella pellicola prodotta da Fandango si vede Claudio Santamaria (che lo interpreta) con la maglietta della Folgore, mentre all’alba delle dieci di sera (circa un’ora prima dell’assalto alla Diaz) tenta di consumare in compagnia di un paio di colleghi un pasto nel ristorante improvvisato per le Forze dell’ordine in zona Fiera. Viene avvicinato da Vincenzo Canterini. I due sono diversissimi per carattere e inclinazione. Entrambi stravolti. Svegli da ore. Davanti ai Pm Zucca e Cardona, il racconto di Fournier è una lama: “Il comandante Canterini poi venne da me e disse: ‘C’è la necessità di raggruppare immediatamente gli uomini, è stata individuata una struttura presso la quale sembra abbiano trovato ricovero buona parte degli Anarco Insurrezionalisti’”. Le stesse frasi del film. Una menzogna. Troppi “sembra”. Un’unica conseguenza. Oltre 90 feriti. Due tentati omicidi. Fratture multiple. I reparti di Canterini e Fournier, seguendo strade diverse, arrivano alla scuola Diaz. Il secondo giunge quando le operazioni di sfondamento del cancello sono in corsa, ma è tra i primi a entrare. Sale le scale, forse sferra qualche colpo (c’è concitazione, molti testimoni glielo imputano e Vicari, in ogni caso, non opta per il manicheismo e lo mostra) poi arriva al primo piano. Lì si ferma. “Ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra (...) ”. Fournier vede la Jonasch, chiede aiuto: “C’erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze”. Così nella realtà ricordata da Fournier. Così nella finzione sinistramente reale riproposta da Vicari. Fournier domanda scusa all’amica della Jonasch, Jennette Dreyer.
UNA REAZIONE incongrua, spiegabile solo con un cambio di prospettiva definitivo, che è quello che sembra aver colpito, forse anche oltre le sue volontà, il Fournier del dopo G8. Non lo stesso uomo che sapeva dirigere l’ordine pubblico allo stadio con il dialogo e la fermezza. Ma un altro da sé. Nella terra di mezzo tra l’essere poliziotto o cittadino. Non più innocente comunque, dopo aver visto e partecipato agli interni della Diaz. Vicari lo inquadra mentre esce dalla scuola e si avvicina a Canterini. Il comandante gli ordina di sistemare i “prigionieri” sui blindati. Fournier si ribella. L’altro ribadisce l’ordine. I due si perdono di vista. Fournier va brevemente a Bolzaneto. Poi va altrove. Cerca di allontanarsi da una storia che comunque lo inseguirà per tutta l’esistenza. Quando il pm gli chiede dei Tonfa, i manganelli che hanno mandato in ospedale decine di ragazzi, Fournier sembra il marziano di Flaiano. Afferma che “il Tonfa è una cosa più seria, una cosa più complicata” e davanti alle domande del pubblico ministero si spiega meglio: “È uno sfollagente che non può essere utilizzato con la leggerezza con la quale si utilizza quello ordinario... può produrre grossi danni... i colpi in testa possono essere mortali con una buona percentuale di possibilità... è una follia perché si può ammazzare”. Nel film Diaz questo passaggio non c’è, perché le immagini descrivono quella pazzia meglio di qualsiasi istruttoria.
Sangue di Stato
“Non li teniamo più i ragazzi”. E allora gli agenti che dovrebbero difendere i cittadini si trasformano in aguzzini: il film “Diaz” in sala dal 13 aprile ripropone brutalmente i fatti di 10 anni fa - teste spaccate, calci in faccia, la “macelleria messicana” - e sveglia dall’incubo dell’“è successo davvero?”. Sì, è successo
di Malcom Pagani (il Fatto, 29.02.2012)
Il cancello della scuola Diaz di Genova sembra di cartapesta. Il blindato lo piega e lascia strada all’orda. Trecento uomini al servizio dello Stato. Trasformati in bestie in una notte di luglio del 2001. I volti coperti da un fazzoletto rosso. I caschi senza numerazione. Il G8 è finito, ma c’è ancora qualche anonimo conto da regolare. Il bilancio è in passivo. Bisogna rimediare. I loro capi avvertono i superiori: “Non li teniamo più i ragazzi”. E complici, abbandonano i manovali al dialetto: “Mò s’annamo a divertì” e al lavoro sporco. Ai tempi supplementari in cui si infanga la divisa e impuniti, ci si spoglia della pietà.
Anche se dalla “macelleria messicana” (come alla fine, soltanto nel 2007, uno dei protagonisti del blitz, il Vice-questore aggiunto Michelangelo Fournier si decise ad ammettere in aula) sono passati 10 anni e certe ferite non si rimarginano “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale” secondo Amnesty arriva al cinema e lo fa con la straordinaria forza dell’inedito. Abusi, pestaggi, violenze, urla e sadiche violazioni da dittatura sudamericana diventate ora con Diaz, già premiato dal pubblico di Berlino, un film eccezionale. Gli agenti che hanno giurato fedeltà alla Repubblica dovrebbero liberare un edificio dal “blocco nero” che ha devastato la città, ma sono nervosi ed eccitati. Incontrano un giornalista sulla porta. Sventola il tesserino. Lo accerchiano in venti. Lo lasciano a terra. “Sei un block-bloc”. Bastonate e calci in faccia. Poi risalgono le linee. Abbattono chiunque. Senza chiedere permesso. “Non li teniamo più i ragazzi”. Spaccano gambe, denti e teste di pensionati e ventenni capitati lì per caso. Caschi blu contro cittadini inermi avvolti nel sacco a pelo. Tedeschi, spagnoli e finlandesi chiedono aiuto.
Radiografia di un potere
Fuggono per le scale e cercano scampo nei cessi o nelle aule. Inseguiti, trovano l’inferno. “Non li teniamo più i ragazzi”. In dieci contro uno, brandendo il Tonfa (il famigerato manganello in dotazione alla Ps durante il G8) per il solo gusto di ascoltare il cupo suono della rivincita e dell’abuso di potere tardivo. Senza una logica, animati da una frustrazione che odia, morde: “Questo è l’ultimo G8 che fai, bastardo” e offre ai vampiri in divisa sangue che nessuno potrà lavare. Diaz è un atto d’accusa di oltre due ore per cui non le giustificazioni non bastano. Un’immersione senza apnea in cui gli occhi si costringono a guardare per mancanze d’alternative. Altri già hanno girato la testa. Continueranno. Accade quando i fatti superano l’immaginazione. Capita quando anche i racconti di chi ha subìto disegnano uno scenario troppo duro da sopportare.
È successo davvero? Sì, è successo. Non nell’Argentina di Videla. Ma nelle vie borghesi di una città portuale, mentre i governanti dormivano nella zona rossa e qualche chilometro più in là, verso la collina, nella prigione di Bolzaneto andava in onda il secondo tempo di un horror di cui il regista Daniele Vicari offre un sunto sfortunatamente indimenticabile. Dando forma agli incubi. Accompagnandoli senza compiacimenti verso una riproposizione brutale, ma oggettiva dei fatti. Interpolando documento, memoria e finzione. Sacrificando la materia alla realtà e l’indignazione allo stralcio da processo. Mai niente di simile prima d’ora nel panorama nazionale. Mai uno schiaffo così preciso al potere. Come era normale all’epoca di Rosi, Petri e Pontecorvo e come credevamo i produttori di casa nostra avessero definitivamente rinunciato a fare.
Dopo aver ricevuto rifiuti, consigli a recedere, silenzi e alzate di spalle (Rai, Medusa, i colleghi) Domenico Procacci di Fandango ha scelto di finanziare Diaz - in uscita il 13 aprile - in prima persona (partecipazioni romene e francesi per Mandragora e La Pacte). Sette milioni di cui 400.000 euro del Mibac. Pochi soldi, ma ben spesi questa volta anche se è prevedibile che il Parlamento (dopo aver affossato la commissione d’inchiesta sul G8) fingerà di indignarsi e le polemiche che hanno sfiorato in stagioni diverse La Prima Linea di De Maria o Acab di Sollima, sembreranno rugiada di fronte alla tempesta. Il capo della Polizia Antonio Manganelli si è rifiutato di visionare la sceneggiatura. Vicari è pronto. Ha scelto di non mettere i veri nomi di poliziotti e manifestanti: “Perché carnefici e vittime sono comunque riconoscibili e in ogni caso, mai come in questa occasione, a contare sono i fatti e non le parole”. Non gli interessano “le ideologie” - in Diaz non ci sono tesi né bandiere stancamente trascinate - “ma le dinamiche che precedono un’azione”.
Così senza artifici, troviamo psicologie, responsabilità e identità. Vincenzo Canterini, il comandante del settimo reparto di Roma che alla Diaz si distinse. “Liberiamo un manufatto occupato da pericolosi anarcoinsurrezionalisti”. Il “celerino” di destra, Fournier appunto: “Io con questi macellai non ci lavoro più” dice un bravo Claudio Santamaria, capace di indignarsi e di urlare “basta” ma non fino in fondo: “Lascia stare, facciamo colazione” sussurra a un collega sulla porta di Bolzaneto. Arnaldo La Barbera (Mattia Sbragia), arrivato per esautorare la polizia locale e i funzionari che chinano il capo senza apparenti reazioni: “Predispongo, predispongo”.
Anatomia di un massacro
E poi i gregari, i capifiliera, le comparse. Funzionali a un falso di Stato, a una bugia costruite con dolo. Le finte coltellate ottenute da un agente all’ingresso della scuola, con tanto di intervista commossa. O il carico di molotov surrettiziamente portato dentro la Diaz per poi orchestrare una conferenza brezneviana senza domande, risposte o dubbi. Vicari li ha covati e con la sceneggiatrice Laura Paolucci ha lavorato 2 anni. Un viaggio tra le carte e le diffidenze. Un percorso onesto. Lasciando sedimentare le emozioni in modo analitico. Escludendo alla radice la narrazione di tutto ciò (o quasi) che a Genova era avvenuto prima della Diaz (echi della morte di Giuliani appena accennati) ma non dimenticando la prima buona regola di ogni film riuscito. Circoscrivere il campo d’azione. Togliere anziché aggiungere. Rispettare la verità con la certezza dei dati. Al di là di un complesso lavoro di regìa e di equilibrio in cui il personale trasmuta in universale, Vicari non ha aggiunto né inventato nulla. Ha assemblato tasselli, convinto che nella Storia, per dirla con Marc Bloch. “Le cause non si postulino, ma si cerchino”. Trasportando le testimonianze dal tribunale allo schermo e le preghiere delle vittime dall’oblìo all’eternità. Escluso Fournier, l’unico senza medaglie per gli “eroismi” genovesi tutti, ma proprio tutti gli altri poliziotti con le stellette coinvolti nel massacro sono stati promossi. Condannati per pestaggi o per “falso” come Francesco Gratteri allora capo dello Sco e passati ad altri importanti incarichi. Forse la Ps non è e non sarà più quella della Diaz, ma il film di Vicari è qui per questo. Per impedire che i fantasmi ritornino, le zone d’ombra ingialliscano e in una questura italiana, sotto il ritratto del presidente, si possa ancora ascoltare una nenia: “Un, due, tre, viva Pinochet” così simile al suono triste delle canzoni di Pietrangeli: “Eran 1.000 scalmanati / noi 200 baschi blu / son bastati due o tre morti / non si son sentiti più”.
La sentenza d’Appello per i reati commessi da poliziotti e medici nella caserma della celere
Il primo grado le condanne furono solo 15. Salvati dalla prescrizione, ma dovranno pagare
Violenze a Bolzaneto, 44 condanne
Reati prescritti, le vittime saranno risarcite
Lo Stato dovrà pagare più di 10 milioni di euro. Solo in 7 casi non viene applicata la prescrizione
Il Comitato "Verità e giustizia" chiede la sospensione dal servizio e una legge sulla tortura
di MASSIMO CALANDRI *
La lettura della sentenza d’appello per i fatti di Bolzaneto GENOVA - Nella caserma di Bolzaneto, durante il G8 dell’estate 2001, i no-global furono picchiati, umiliati, sottoposti a "trattamenti inumani e degradanti". Ci fu tortura, e gli imputati sono colpevoli. Generali della polizia penitenziaria, guardie carcerarie, ufficiali dell’Arma e militari, agenti e funzionari di polizia, persino quattro medici: questa sera la Corte d’appello del tribunale di Genova li ha condannati tutti e 44. A nove anni dai fatti la maggior parte dei reati è prescritta, ma i responsabili pagheranno comunque risarcendo le vittime delle violenze. E con loro metteranno mano al portafogli anche i ministeri di appartenenza (Giustizia, Interno, Difesa), che dovrebbero sborsare una cifra superiore ai dieci milioni di euro.
Sono state inflitte sette condanne a complessivi dieci anni di reclusione nei confronti di quattro guardie carcerarie responsabili di falso - reato non prescritto - , e di tre poliziotti che avevano rinunciato alla prescrizione. I sette imputati condannati sono: l’assistente capo della Polizia di stato Massimo Luigi Pigozzi (3 anni e 2 mesi), gli agenti di polizia penitenziaria Marcello Mulas e Michele Colucci Sabia (1 anno) e il medico Sonia Sciandra (2 anni e 2 mesi). Pene confermate a 1 anno per gli ispettori della Polizia di Stato Matilde Arecco, Mario Turco e Paolo Ubaldi.
"Sono stati accolti tutti i motivi del nostro appello e della procura generale", hanno commentato soddisfatti i pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. "Questa sentenza è due volte importante, perché fatti come quelli accaduti a Bolzaneto non dovranno ripetersi. Mai più". Alla fine della lettura della sentenza un imputato presente in aula ha inveito contro i giudici - "Avete voluto condannare tutti e basta, senza fare distinzioni" - ed è stato allontanato.
La sentenza di primo grado è stata completamente ribaltata. Allora, nel luglio del 2008, erano state pronunciate 15 condanne e ben 30 assoluzioni. Il reato di "tortura", non previsto dal nostro codice penale, era stato indirettamente riconosciuto con la condanna a 5 anni di reclusione di Biagio Antonio Gugliotta, sottufficiale della polizia penitenziaria. Dei "simbolici" 76 anni di prigione chiesti dalla procura ne era stato riconosciuto meno di un terzo.
I giudici si sono riuniti in camera di consiglio alle 9:40 di questa mattina. Per i 44 imputati autori delle violenze nella caserma di Bolzaneto avvenute nel luglio del 2001 a Genova durante il G8, la pubblica accusa aveva chiesto 36 prescrizioni e 8 condanne.
Immediata la presa di posizione del comitato "Verità e giustizia" che da anni segue le vicende del G8 di Genova. Il comitato ha chiesto la sospensione per tutti gli imputati: "Il messaggio dei giudici d’appello, con le 44 condanne per i maltrattamenti e le torture su decine di cittadini detenuti nella caserma-carcere di Bolzaneto nel luglio 2001, è chiarissimo e dev’essere colto immediatamente dalle istituzioni. Tutti i condannati nelle forze dell’ordine devono essere immediatamente sospesi dagli incarichi, in modo che non abbiano contatti diretti con i cittadini; gli Ordini professionali devono agire sui propri iscritti con la sospensione: non è più possibile restare nel terreno dell’ambiguità... Se buona parte delle pene è caduta in prescrizione è solo perché in Italia non ha una legge sulla tortura (reato che per la sua gravità non prevede prescrizione), nonostante l’Italia si sia impegnata oltre vent’anni fa ad approvarne una. Il Parlamento ora non ha più scuse: la sentenza di oggi dimostra che abbiamo assoluto bisogno di quella legge".
© la Repubblica, 05 marzo 2010
Come punire quelle torture
di Antonio Cassese (la Repubblica, 20.03.2008)
Quel che è avvenuto a Bolzaneto nel 2001 è la violazione simultanea e flagrante di tre importanti trattati internazionali che l’Italia aveva contribuito ad elaborare e si era solennemente impegnata a rispettare: la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, il Patto dell’Onu sui diritti civili e politici del 1966, e la Convenzione dell’Onu contro la tortura del 1984. A Bolzaneto sono stati inflitti trattamenti disumani e degradanti ma, in più casi, anche vere e proprie torture.
I trattamenti disumani e degradanti, vietati dalla Convenzione europea, sono quelli che causano sofferenze fisiche o mentali ingiustificate e umiliano e abbrutiscono una persona. Ad esempio, la Corte europea vietò all’Inghilterra di infliggere come pena la fustigazione di minorenni condannati; condannò la Turchia perché due ufficiali avevano commesso atti di violenza carnale nella zona nord di Cipro senza essere puniti; censurò la Lettonia per aver detenuto in un carcere carente di strutture adeguate un condannato paraplegico e non autosufficiente, causandogli ’sentimenti costanti di angoscia, inferiorità ed umiliazione’. Anche tenere ventidue ore al giorno più detenuti in celle anguste, senza servizi igienici, costituisce trattamento disumano e degradante - come fu rimproverato all’Inghilterra.
Quando si ha invece tortura? Quando i maltrattamenti o le umiliazioni causano gravi sofferenze fisiche o mentali, ed inoltre la violenza è intenzionale: si compiono volontariamente contro una persona atti diretti non solo a ferirla nel corpo o nell’anima, ma anche ad offenderne gravemente la dignità umana; e ciò allo scopo di estorcere informazioni o confessioni, o anche di intimidire, discriminare o umiliare. "Datemi un pezzettino di pelle e ci ficcherò dentro l’inferno", è quel che un grande scrittore americano fa dire ad un aguzzino. La tortura è proprio ciò: l’inferno nel corpo o nell’anima. È tortura l’uso di elettrodi su parti delicate del corpo, il fatto di provocare un quasi-soffocamento (infilando un sacchetto di plastica sul capo), o quasi-annegamento (si tiene una persona a testa in giù, inondandole di acqua la bocca e il naso, così da darle la sensazione di annegamento), o picchiare con forza e a lungo sul capo di una persona con un elenco telefonico, fino a provocare capogiri o svenimenti. Queste e tante altre forme di violenza sono state concordemente considerate tortura da autorevoli giudici internazionali.
A Bolzaneto quasi tutti i 200 e passa arrestati vennero sottoposti a trattamenti disumani e degradanti, come risulta dagli atti dei pubblici ministeri, riassunti nell’incisivo reportage di D’Avanzo pubblicato su questo giornale. Ma in più di un caso si andò oltre e si trattò di vera e propria tortura. Ad esempio, nel caso di A.D. che - cito D’Avanzo - «arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella ’posizione della ballerina’ [in punta di piedi]. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole, lo minacciano di ’rompergli anche l’altro piede’. Poi gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano ’Comunista di merda’». Penso anche al caso di G.A., arrivato ferito a Bolzaneto: «Un poliziotto gli prende la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due ’fino all’osso’. G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G.A. ha molto dolore. Chiede ’qualcosa’ Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare». Questi fatti, se confermati dai giudici, costituiscono tortura. Così come si arriva alla soglia della tortura in altri casi apparentemente meno gravi, ma in cui l’effetto cumulativo di più comportamenti (insulti, pestaggi ripetuti, umiliazioni soprattutto nei confronti delle donne, spesso lasciate nude agli sghignazzamenti e agli scherni dei poliziotti), è tale da causare gravi sofferenze mentali (spesso anche fisiche).
Orbene, di fronte a questi fatti cosa si può fare in Italia? Visto che siamo legati da importanti trattati internazionali, se i giudici non infliggeranno adeguate punizioni e significativi risarcimenti, si potrà fare ricorso alla Corte Europea. Ma non basta. La Corte di Strasburgo potrà tutt’al più accertare la violazione della Convenzione europea da parte dell’Italia e condannare il nostro Governo a risarcire i danni morali e materiali. Più significativo sarebbe che i nostri giudici potessero condannare per tortura coloro che fossero ritenuti colpevoli di tali atti. Ma è impossibile: come è noto, anche se la Convenzione dell’Onu del 1984 ne impone l’emanazione, una legge che vieti specificamente la tortura manca ancora in Italia - benché ben 20 progetti di legge siano stati presentati in Parlamento dal 1996.
Come mai? In genere in Italia tardiamo ad attuare trattati internazionali, per insipienza, lentezze burocratiche, ottuse resistenze della pubblica amministrazione. Nel caso della tortura è lecito però sospettare che la mancanza di una legge sia dovuta anche ad una precisa volontà politica di certi partiti: la volontà di non consentire che i colpevoli dei fatti di Bolzaneto venissero puniti adeguatamente. È significativo che nella penultima legislatura (2001-2006), quando sembrava di essere in dirittura di arrivo, all’improvviso la Camera approvò a maggioranza, in plenaria, un emendamento della Lega che richiedeva per la tortura la sussistenza di "reiterate violenze o reiterate minacce" (non basterebbe torturare solo una volta, bisognerebbe torturare la stessa persona ieri, oggi e domani, per essere puniti!). Anche se successivamente si tornò al testo originario, la legislatura si chiuse senza alcuna legge, così come è avvenuto nel 2006-2008. Se i giudici confermeranno la ricostruzione dei fatti e le tesi dei pubblici ministeri, si avranno due conseguenze, già sottolineate da altri: taluni fatti non verranno chiamati per nome e cognome (tortura), ma con termini generici, inadatti a rifletterne la gravità, come «abuso di ufficio» e «violenza privata»; e i reati cadranno presto in prescrizione.
Per il futuro, non ci resta che sperare che il prossimo Parlamento sia meno inefficiente. E che le «autorità amministrative competenti» traggano le debite conseguenze da condanne di funzionari dello Stato che infangano il buon nome delle forze dell’ordine, la cui stragrande maggioranza rispetta e tutela i diritti umani. E non si tema di continuare a protestare: il giorno in cui smettiamo di indignarci per fatti come quelli di Bolzaneto, la democrazia è morta in Italia.
Nominato nel 2005 Cavaliere di Gran Croce da Ciampi
E’ morto a Firenze il giurista Antonio Cassese
Roma - (Adnkronos) - Nato ad Atripalda (Avellino) nel 1937, negli ultimi tempi aveva lottato contro una grave malattia. Le esequie si svolgeranno in forma strettamente privata
Roma, 22 ott. (Adnkronos) - E’ morto questa notte, nella sua casa di Firenze, Antonio Cassese, già presidente del Tribunale speciale per il Libano (Tsl). Nato ad Atripalda (Avellino) nel 1937, negli ultimi tempi aveva lottato contro una grave malattia. Le esequie si svolgeranno in forma strettamente privata.
Giurista, scrittore, docente di diritto internazionale, Antonio Cassese, fratello di Sabino, è stato titolare delle Cattedra internazionale Blaise Pascal presso la Sorbona, giudice (1993-2000) e presidente (1993-97) del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia.
Co-fondatore e condirettore della rivista ’European Journal of International Law’, e fondatore e direttore della rivista ’Journal of International Criminal Justice’, nel 2002 aveva ottenuto il Premio Internazionale dell’Academie Universelle des Cultures presieduta da Elie Wiesel.
Nominato nel 2005 Cavaliere di Gran Croce dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, aveva ottenuto nel marzo 2007 il W. Friedmann Award, Columbia University Law School. Per molti anni ha collaborato al ’Messaggero’, alla ’Stampa’ e a ’La Repubblica’.
* ADNKRONOS, 22 ottobre 2011