Ansa» 2008-06-04 06:25
USA: OBAMA CONQUISTA LA CANDIDATURA DEMOCRATICA
(di Marco Bardazzi)
WASHINGTON - Le elezioni del 4 novembre per scegliere il 44mo presidente degli Stati Uniti saranno una sfida tra un candidato nero di 46 anni, figlio di un immigrato del Kenya e di una madre bianca del Kansas, e un eroe di guerra di 71 anni. Il senatore Barack Obama ha chiuso la partita contro Hillary Clinton per la nomination dei democratici e sfiderà il repubblicano John McCain per la successione a George W.Bush. "E’ un giorno nuovo e migliore in America", ha annunciato Obama, il primo afro-americano a raggiungere un traguardo del genere nella storia, nel discorso notturno della vittoria in cui ha preso in prestito uno slogan che riecheggia John F.Kennedy, ma anche Ronald Reagan. Da New York, la Clinton gli ha fatto i complimenti senza però annunciare formalmente il ritiro. Ma il suo staff ha fatto sapere che la senatrice cerca un incontro privato al più presto con Obama e crescono le voci di un suo possibile ruolo di vice nel ’ticket’ presidenziale. Dopo cinque mesi di un’intensa battaglia cominciata con il voto del 3 gennaio in Iowa, Obama è emerso vincitore nel giorno delle ultime primarie in programma nel calendario dei democratici. Chiusi i seggi in South Dakota e Montana, ultimi a pronunciarsi dopo una serie di voti in 54 stati e territori americani, Obama ha annunciato ufficialmente di essere "il candidato dei democratici a presidente degli Stati Uniti". La Clinton ha chiuso in bellezza, vincendo un po’ a sorpresa in South Dakota, mentre il Montana è andato al senatore nero. Obama ha festeggiato la vittoria a St.Paul, in Minnesota, nella stessa arena dove dall’1 al 4 settembre i repubblicani terranno la convention che incoronerà McCain. Un gesto di sfida arrivato poche ore dopo che lo stesso McCain, da New Orleans - la città della disfatta dell’amministrazione Bush per l’uragano Katrina - ha lanciato la carica contro l’avversario di novembre. "Il vero cambiamento sono io", ha proclamato il senatore repubblicano, ironizzando più volte sulla parola-chiave della campagna elettorale di Obama e attaccando quello che ha defito ripetutamente "un giovane" avversario, dipingendolo come inesperto e su posizioni sbagliate sui temi nazionali e soprattutto internazionali. A partire dal dialogo con i ’cattivi’ del mondo come l’iraniano Mahmud Ahmadinejad. In un assaggio della battaglia a cui l’America e il mondo assisteranno nei prossimi mesi, Obama ha risposto punto per punto: "Ci sono molte parole - ha affermato - per descrivere il tentativo di John McCain di cancellare il suo abbraccio delle politiche di George Bush e di farsi passare per bipartisan e nuovo. Ma ’cambiamento’ non è una di quelle parole". Obama ha ribadito le proprie priorità, a partire dall’Iraq: "Dobbiamo essere così cauti nell’uscire dall’Iraq come siamo stati incauti nell’entrarci, ma di sicuro dobbiamo cominciare ad andarcene". Per il senatore e candidato presidente, "é l’ora di rifocalizzare i nostri sforzi contro la leadership di Al Qaida e in Afghanistan, e mobilitare il mondo contro le minacce comuni del XXI secolo: terrorismo e armi nucleari, clima e povertà, genocidio e malattie". Nella notte del trionfo di Obama, delle sfide di McCain e del fischio d’inizio della corsa verso l’Election Day, è rimasto da sciogliere il nodo di Hillary Clinton. L’ex First Lady, messo da parte il sogno di diventare la prima donna presidente degli Usa, si è detta pronta "a lavorare per l’unità del partito" e per la vittoria a novembre. I prossimi giorni diranno se Obama accetterà di fare di lei la ’running mate’ - un’ipotesi che negli ultimi mesi è sembrata inconcepibile alla maggioranza dei commentatori - o se alla Clinton spetterà un ruolo diverso, e minore, all’interno del partito democratico. (marco.bardazzi@ansa.it).
Il candidato meticcio
di Barbara Spinelli (La Stampa, 8/6/2008)
D’un tratto tutto quello che in Europa aveva l’aria d’essere la modernità si sfalda e ingrigisce e invecchia, messo a confronto con quello che accade nelle presidenziali americane: un po’ come succede al Centro Pompidou di Parigi che nei primi Anni 70 fu avanguardia assoluta, con i suoi furibondi colori e i suoi tubi d’acciaio, e presto divenne stranamente decrepito, troppo decifrabile. L’ascesa di Barack Obama e la sua vittoria sulla casa Clinton nelle primarie democratiche ha questo, di inatteso e scompaginante: fa invecchiare d’improvviso quello che sembrava ineluttabilmente vincente, smentisce credenze cui tanti si erano conformati, a destra e sinistra. L’idea che esista un’unica via liberista per aggiustare l’economia, che la globalizzazione possa esser governata con vecchi politici nazionali e vecchie identità monocolori, che l’intervento dello Stato nell’economia sia sempre sciagurato, che nei governanti non conti più l’etica, che l’uso politico della paura e della xenofobia siano redditizi: tutti questi convincimenti sono sbriciolati da un candidato americano e globale al tempo stesso, figlio di un africano keniota, cresciuto in Indonesia, rientrato nelle migliori università statunitensi. Il suo esser meticcio fa impressione nel piccolo universo bianco, ma tre quarti della terra gli somigliano.
Forse il candidato nero non vincerà contro McCain, ma il mero fatto di correre per la Casa Bianca scompagina i manuali del successo. Scompagina due certezze, in particolar modo. La certezza che gli Anni 60 e il ’68 siano un angolo morto della storia, da deplorare senza fine. E la certezza che l’impero Usa sia qualcosa di rigido, non esposto a mutazioni profonde. È invece un oggetto bizzarro, debole e però straordinariamente elastico. Una lunga pratica di arroganza l’ha sfibrato, sino a produrre l’anticorpo Obama. La sua duttilità è unica perché crea tali anticorpi, e restituisce fascino alla democrazia e alla convivenza etnico-razziale.
Son scombussolati in primo luogo gli stereotipi sul Sessantotto: in Europa è di grandissima moda denigrarlo, l’Italia lo sa e anche la Francia, dove Sarkozy ha costruito una carriera su simile denigrazione. In America la maldicenza è più antica: l’offensiva contro i liberal degli Anni 60 cominciò con Nixon e proseguì nel ’94 con la rivoluzione conservatrice di Newt Gingrich e la vittoria repubblicana alle legislative. Bush e i neo-conservatori sono figli di questa rivoluzione dell’acrimonia. Molti acrimoniosi hanno partecipato al ’68 ma poi si sono trasformati, adeguandosi al più moderno spirito dei tempi: spesso si son fatti stranamente beghini e falsamente virtuosi, come accade a chi si congeda da una gioventù scapestrata. Somigliano alla vereconda madama Pernelle, che nel Tartufo di Molière insulta ogni sorta di libertà. L’età «ha messo nella sua anima uno zelo ardente» che l’induce a denigrare la spregiudicatezza dei giovani, e a difendere il devoto ipocrita Tartufo. «Col velo pomposo di un’alta saggezza dissimula la miseria delle sue tramontate seduzioni», così è derisa dalla servetta Dorine. Parecchi neo-conservatori denunciano il ’68 allo stesso modo: un ardente zelo li porta a cancellare un’epoca intera, senza la quale Obama oggi non sarebbe dov’è.
Obama non è un sessantottino, in più modi lo fa capire. Se ha vinto alle primarie contro Hillary Clinton è perché ha sormontato quella che vien chiamata l’iconografia del ’68: le battaglie di liberazione dei neri o delle donne viste come fini in sé, da ottenere solo per la propria classe o razza o genere. Schiava del ’68 si è rivelata Hillary, e non le è stato d’aiuto. Ma Obama è pur sempre il prodotto di un movimento favorevole alla varietà e all’incrocio col diverso, anche se di esso non è preda. In Europa possiamo continuare a credere che l’avvenire appartenga a chi liquida gli Anni 60: le battaglie di emancipazione, giustizia, uguaglianza; le canzoni di Moustaki sul métèque. In America quest’iconoclastia è già finita, sia che Obama vinca sia che perda.
La seconda idea scompaginata concerne l’impero americano e il suo degradarsi. Anche qui Obama è specchio del male e anticorpo che il male ha saputo secernere: è un annunziatore estremamente realistico della crisi, anche se non sempre è disposto a guardarla davvero traendone tutte le conseguenze. Dice che la guerra al terrorismo si è sfracellata in Iraq, sbrecciando in maniera enorme e durevole l’immagine mondiale dell’America e la sua capacità di influenzare gli eventi, soprattutto nel mondo arabo e musulmano. Con le sue mani, Washington ha fabbricato il Golem che è Ahmadinejad e l’ambizione iraniana all’egemonia nella regione più conflittuale del pianeta. Alcuni, come Niall Ferguson, parlano già di breve impero americano: ben più breve dell’antica Roma che i neo-conservatori sognavano d’emulare.
Non è chiaro se Obama sappia fino in fondo l’infermità che annunzia. Sia lui che McCain la descrivono con severità, sperano di riparare, correggere. Ma in America le presidenziali hanno spesso questo tono: i candidati lamentano il declino di una nazione che continuano a vedere come eletta, impareggiabile. Anche oggi rischia di esser così, Stephen Sestanovich lo spiega bene in un articolo su Slate online del 2 giugno. Ambedue i candidati, scrive, coltivano la speranza che non sia vero quel che dicono: che non sia vero che l’America è più che mai debole, inascoltata. Quando McCain propone una nuova comunità occidentale, quando vuol escludere la Russia dal Gruppo degli Otto, non sa la differenza fra il dire e il poter fare: non sa le diffidenze europee, non sa che la Russia sarà difficile metterla alla porta con un ukase americano.
Obama è assai più realista, specie sul disastro iracheno, ma l’illusione assedia anche lui. Non basta parlare con Ahmadinejad per indurlo alla ragione, per il semplice fatto che il suo regime ha sin d’ora una razionalità, diversa dall’occidentale. L’Iran di Ahmadinejad è un po’ come la Prussia di Federico il Grande, nella seconda metà del ’700: tutte le potenze nell’Europa continentale si coalizzarono per abbatterlo, ma attraverso la guerra e l’isolamento la Prussia, da parvenu che era, divenne nazione cruciale. La convinzione dei politici americani è che se solo usi razionalmente la tua testa, diventi subito filo-americano e filo-occidentale: altrimenti devi esser pazzo. È la presunzione imperiale che genera queste chimere, e che spiega alcuni cedimenti di Obama all’unilateralismo conservatore.
I nipoti del ’68 hanno superato le scarsezze e perentorietà dei nonni ma hanno un bisogno esistenziale di legittimità, e questo frequentemente li intimidisce. Pensano che per esser accettati devono mostrarsi più centristi, cioè di destra (sono «mercanti di razze» e «prigionieri della politica dell’identità», secondo Shelby Steele, scrittore nero e conservatore) e il loro incubo è Israele, che in America è tra i massimi dispensatori di certificati di legittimazione. Anche questo cambierà, e non necessariamente in meglio per gli ebrei della diaspora e neppure per Israele. Ma per ora, l’imprimatur dei gruppi di pressione ebraici (dell’Aipac in primis - American Israel Public Affairs Committee - più conservatore del governo israeliano) è essenziale. È all’Aipac che Obama ha fatto una promessa ritenuta eccessiva dallo stesso Dipartimento di Stato, il 4 giugno: la difesa di Gerusalemme «capitale indivisa d’Israele».
Chi viene dal ’68 sente di dover continuamente scusarsi, anche se i difetti del ’68 li ha superati tutti. Obama rischia di sperdersi nel trasformismo, a forza di scusarsi. Rischia di ripetere l’esperienza Hillary: troppo sicura all’inizio, troppo underdog alla fine, quando per scelta s’è trasformata in emblema di chi per mestiere o destino è un perdente.
L’addio di Hillary alla candidatura
Hillary: «E ora Yes we can»
«Grazie a chi mi ha sostenuto».
«Ora lottate per Obama: in lui ho visto incarnato il sogno americano»
WASHINGTON - L’addio alla candidatura democratica alla Casa Bianca di Hillary Clinton ha avuto il suo atto finale a Washington, dove la ex-First Lady ha ringraziato la folla dei suoi sostenitori.
«Non è questa la festa che avevo in programma, ma mi piace la compagnia» ha esordito Hillary Clinton.
«Sono grata a tutti voi, che avete guidato per chilometri, che avete gridato, parlato, raccolto fondi, discusso con i vostri amici, che avete investito tanto nella nostra impresa». «Sono grata ai giovani, come la tredicenne dell’Ohio che ha messo via i soldi per due anni per fare la volontaria nella campagna».
«Il mio impegno per chi mi ha sostenuto è comunque inarrestabile». «Mi avete commosso per l’impegno per il nostro Paese». «Donne e uomini, giovani e anziani, ricchi, poveri, afromericani, latini, asiatici e bianchi, etero e omosessuali. Io starò dalla vostra parte in ogni momento. Abbiamo lottato per una madre single che voleva fare il meglio per sua figlia e abbiamo lottato per una donna che non poteva permettersi l’assistenza medica sebbene avesse tre lavori. Abbiamo lottato per chi non può andare al college e non può permetteresi di mangiare e si stente invisibile davanti al Presidente.» «Io continuerò a lottare».
ORA TUTTI PER OBAMA : «YES WE CAN» - «Il modo per continuare la nostra lotta e raggiungere i nostri scopi ora è convogliare le nostre forze sull’elezione di Barak Obama. A lui miei complimenti, il mio endorsemente e il pieno sostegno. A voi chiedo di lavorare sodo per Barak come avete fatto per me. Sono stata con lui al Senato per quattro anni e con lui in questa campagna. Ho visto la sua forza e la sua determinazione. In lui ho visto incarnarsi il sogno americano» .«Ora io,lui e voi siamo uniti nella stessa lotta, perchè abbiamo una economia prospera e perchè tutti posano avere generi alimentari, pensione e un sistema sanitario accessibile a tutti». «Un giorno vivremo in un’America dove tutti avranno un’assicurazione sanitaria. Per questo dobbiamo lottare perchè Obama venga eletto. Sarà un’America più forte in cui tutti avranno più dignità. Per questo dobbiamo aiutare Barak Obama a essere eletto». «Per questo ora dico con lui Yes we can».
SUPERARE I PREGIUDIZI - «Obama può essere il primo presidente afroamericano. Io potevo essere la prima presidentre donna.. Anch’io mi sono candidata per superare i pregiudizi, nei confronti delle donne. Mi sono candidata come madre pensando a sua figlia». «Insieme abbiamo scritto una pagina di storia». E poi la chiusura: «God bless America».
* Corriere della Sera, 07 giugno 2008
Obama!
di Furio Colombo (l’Unità, 5 giugno 2008)
Scherzi della storia. Mentre il mondo diventa carogna, chiude i confini, dirotta il cibo per farne carburante, alza muri alti quattro metri per impedire che entrino negli Stati Uniti non i terroristi ma i campesinos disperati in cerca di un lavoro che c’è (perché lo fanno solo i campesinos disperati), proprio in quel momento - in questo momento - compare sulla scena americana un candidato nero.
Ah, ma attenti. Non solo di discutibile etnia diversa, ma anche figlio di immigrato da Paese sospetto (il Kenya), nato da un matrimonio misto che i più condannano, e identificato da un nome che può bloccare la folla in attesa in qualunque cancello di immigrazione (se quei cancelli, nei Paesi che si vantano di essere civili, fossero ancora aperti). Si chiama Barack Obama.
Chi gli vuole male e intende denigrarlo pronuncia intero tutto il suo nome - Barack Hussein Obama - Perché si percepisca tutta la sua estraneità e diversità. Chi non può sopportare il nuovo evento ha fatto circolare la voce che forse il candidato - Dio ce ne scampi - non è neppure cristiano. Poi si è scoperto che era cristiano, ma legato a una Chiesa e a un pastore così aspramente militanti, così (si direbbe in Italia) di sinistra radicale, da fare impressione e scandalo per le brave persone miti, middle class e bianche d’America, nelle pianure della Bibbia, nelle città degli operai, nei sobborghi borghesi, di cui di solito si dice “benpensanti”. Ma le brave persone miti, middle class e bianche d’America hanno continuato a votare per lui, immigrato, meticcio, e appartenente a una Chiesa sbagliata.
Scherzi della storia. Ore prima della proclamazione di un simile candidato, un aspro editoriale del New York Times descriveva in questo modo l’America ai giorni di George W. Bush. «Un giorno non riconosceremo noi stessi per ciò che stiamo facendo oggi: una nazione di immigrati tiene in schiavitù un’altra nazione di immigrati (il riferimento è ai clandestini, ndr), sfrutta il loro lavoro, ignora la loro sofferenza, ci condanna a restare fuori legge, li arresta e li espelle quando finge di scoprirli, con incursioni improvvise nelle case e nelle fabbriche, sparge terrore indiscriminato trattando lavoratori da criminali, mentre altri criminali-lavoratori prendono il loro posto illegale e fruttuoso, fino al rastrellamento, alla prigione, alla espulsione successiva. Un’America che attribuisce come unica identità di esseri umani che lavorano la condizione di clandestini; macchia di vergogna la nostra identità, la nostra storia». Scherzi della storia. In quell’America si sono fatti avanti, dal lato umano e liberale di un’America che non è morta con Martin Luther King e con Robert Kennedy, un candidato donna, con lo slancio straordinario e infaticabile di Hillary Clinton (la stessa Hillary Clinton che aveva scritto l’unica legge che avrebbe garantito completa assistenza sanitaria anche ai più poveri).
E un candidato nero che ha avuto il coraggio di dire: «Io sono questa America. Mentre la mia nonna bianca mi teneva stretto, bambino nero estraneo in tutto alla sua vita, decisa a difendermi da ogni male, aveva paura se gente nera si avvicinava a noi, incuriosita da quel piccolo nero stretto a una donna bianca, che si ritraeva con diffidenza». Nelle elezioni primarie ha vinto Barack Obama. È il candidato del Partito Democratico per la presidenza degli Stati Uniti. Chi lo ha sentito parlare crede di sapere perché. Dice che la forza gentile di Martin Luther King e il senso di giustizia non negoziabile di Robert Kennedy sono tornati con il giovane senatore che viene dal Kenya a guidare gli americani.
Gli americani ascoltano e vedono, con lui, con quella sua capacità immediata e istintiva di evocare il sogno, un altro Paese. Vedono un’America che forse c’è stata, un’America, pensano in molti, che può essere il futuro senza rabbia, senza vendette, senza solitudine, senza paure, senza guerre, senza l’orrore degli esclusi, sfruttati e cacciati. Scherzi della storia. Gli sta davanti, come avversario, un uomo bianco immensamente per bene che non vuole avere niente a che fare con l’America repubblicana che lo precede. Cerca anche lui un Paese pulito e rispettato, legato di nuovo ad amici alleati invece che ad alleati servi, con cui tentare di realizzare insieme una politica umana, in un mondo decente che si allontana dalla morte.
Troppa speranza? Per un giorno, non è peccato. Oggi, mentre scrivo, è il giorno in cui Robert Kennedy è stato ucciso, esattamente 40 anni fa. È un giorno perfetto per sognare.
Il candidato democratico deve gestire i rapporti con l’ex First Lady che ancora non ha sciolto la riserva
Il leader repubblicano: "Aperture ingenue ad Ahmadinejad". La proposta: "Dibattiti pubblici"
Usa, inizia la sfida Obama-McCain
Barack "tratta" con Hillary Clinton
WASHINGTON - Nonostante una nomination storica e la prospettiva di essere il primo presidente di colore degli Stati Uniti, il tempo delle feste per Barack Obama dura lo spazio di una notte. Il candidato democratico, infatti, deve fronteggiare l’affondo sulla politica estera di John McCain e cercare gestire i rapporti con Hillary Clinton che ancora non ha sciolto la riserva sul suo futuro. Nel frattempo, incassa i complimenti di George W. Bush e del segretario di Stato Condoleezza Rice per la nomination alle elezioni di novembre.
Le mosse di McCain. Il candidato repubblicano ha proposto a Obama una serie di 10 dibattiti in 10 settimane, a partire dal 12 giugno, con la formula dell’assemblea dove il pubblico fa liberamente domande. Un colloquio con la gente che vada oltre le barriere dei tre dibattiti formali, moderati da giornalisti, in programma in autunno. L’idea di McCain è di andare in giro per l’America a dibattere con l’avversario: "Possiamo anche viaggiare sullo stesso aereo - scherza - così facciamo anche un po’ di risparmio energetico". Obama non si tira indietro e rilancia: "Facciamo dibattiti alla Lincoln-Douglas". Un riferimento ai sette storici dibattiti sul tema della schiavitù che il repubblicano Abraham Lincoln e il democratico Stephen Douglas ebbero nel 1858. Una controproposta che ha sorpreso gli addetti ai lavori negli Usa. Alla fine di aprile, Hillary Clinton aveva sfidato l’avversario a confrontarsi proprio in dibattiti ’alla Lincoln’ e Obama aveva rifiutato.
Obama e Israele. Lo scontro tra i due candidati alla presidenza americana tocca anche la politica estera. Con Obama impegnato a non fare sconti all’Iran e a dimostrarsi amico di Israele. "Non scenderò mai a compromessi quando si tratta della sicurezza di Israele" dice il candidato democratico alla lobby filo-israeliana Aipac. Parole nette che arrivano dopo dopo gli interrogativi suscitati dalle sue aperture al dialogo con il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. "La sicurezza di Israele è sacrosanta e non negoziabile", aggiunge tra gli applausi della platea. "Gerusalemme resterà la capitale di Israele - prosegue - e deve restare non divisa". ("E’ un nemico degli arabi", reagisce immediatamente Hamas da Gaza, e anche il presidente dell’Anp Abu Mazen ha respinto le affermazioni su Gerusalemme) Quanto all’Iran, Obama assicura: "Farò tutto quello che è in mio potere per impedirgli di ottenere un’arma nucleare, e sottolineo tutto".
Ma McCain non si ferma e attacca il senatore dell’Illinois per le sue "ingenue e pericolose" aperture sul dialogo con Ahmadinejad e per il voto in Congresso contro le legge che dichiara organizzazione terrorista la Guardia Rivoluzionaria iraniana.
I rapporti con Hillary Clinton. Prima di tutto Obama deve risolvere la questione Hillary. Con la Clinton, che punta alla vicepresidenza, Obama ha detto che ci sarà un incontro "nelle prossime settimane", spostando così in avanti la difficile scelta se accettare o meno la senatrice come compagna d’avventura. Il senatore ha affidato un incarico esplorativo a una commissione di tre ’saggi’, di cui fa parte anche Caroline Kennedy, figlia di Jfk. Per adesso l’ex First Lady prende tempo e non si ritira dalla gara. Almeno non immediatamente. Dando l’impressione di negoziare il suo futuro, puntando a ottenere il massimo prima di abbandonare la corsa per la Casa Bianca.
* la Repubblica, 4 giugno 2008
Obama verso la nomination ma la Clinton non si ritira
Barack Obama annuncia: sarò il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti. Dopo il voto in South Dakota e Montana (nel primo ha vinto la Clinton, nel secondo il senatore afro-americano), Obama ha raggiunto la soglia dei 2118 delegati democratici che gli garantiranno la nomination al congresso democratico.
Figlio di un immigrato del Kenya e di una madre bianca del Kansas, il 46enne senatore è il primo afro-americano a correre per diventare presidente. Il suo sfidante sarà il senatore repubblicano John McCain. Da New York, la Clinton gli ha fatto i complimenti, con un riconoscimento implicito della sconfitta, senza però annunciare formalmente il ritiro. Ma il suo staff ha fatto sapere che la senatrice cerca un incontro privato al più presto con Obama e crescono le voci di un suo possibile ruolo di vice nel ’ticket’ presidenziale.
«Stanotte è la fine di uno storico viaggio e l’inizio di un altro. Stanotte posso dire, dopo 54 dure battaglie, che sarò il candidato democratico per la presidenza degli Stati Uniti» ha detto a St.Paul, nel Minnesota. Obama ha celebrato la sua vittoria in un luogo altamente simbolico: lo stesso palazzo dello sport dove a settembre si svolgerà la convention repubblicana che proclamerà ufficialmente la candidatura del senatore John McCain. Obama ha attaccato il repubblicano per la sua politica troppo simile a quella di George W. Bush. «Non si può parlare di mutamento quando McCain ha votato per George Bush al Senato il 95 per cento delle volte - ha detto Obama - Non è mutamento quando offre altri quattro anni di politiche economiche di Bush. Non è mutamento quando promette di continuare la politica in Iraq che chiede tutti ai nostri coraggiosi soldati e niente ai politici iracheni». Obama ha reso omaggio a Hillary. «È una leader che ha ispirato milioni di americani con la sua forza e il suo coraggio - ha detto Obama - Io sono oggi un candidato migliore perché ho avuto l’onore di competere con Hillary Rodham Clinton».
Obama ha parlato ad una folla di oltre 30 mila persone, 17 mila nello stadio e 15 mila fuori, con il suo tono ispirato e carismatico strappando frequenti applausi e cori del caratteristico «Yes, we can» diventato da tempo il grido di battaglia dei suoi sostenitori. «America, questo è il nostro momento, questo è il nostro tempo - ha detto alla folla - È il momento di voltare la spalle alla politica del passato e di offrire una nuova direzione al paese che amiamo. Il viaggio sarà difficile. La strada sarà lunga. Ma se restiamo uniti, ce la possiamo fare».
Al neo candidato, sono già arrivate le congratulazioni del presidente Bushe del segretario di Stato Condoleeza Rice: Bush ha ricordato il «lungo percorso» che Obama ha fatto «per arrivare a questo punto: il suo risultato storico - aggiungono dalla Casa Bianca - riflette il fatto che anche il nostro paese ha percorso molta strada». Anche per la Rice la candidatura di un afroamericano alla guida degli Usa è segno di uno sviluppo «straordinario».
* l’Unità, Pubblicato il: 04.06.08, Modificato il: 04.06.08 alle ore 20.48
Ha raggiunto la maggioranza sicura dei super elettori democratici
Nel discorso da vincitore sprona i democratici a essere compatti contro McCain
Obama: "Sarò il candidato democratico"
Ma Hillary: "Non deciderò stanotte"
La Clinton: "Complimenti a Barack", ma prende tempo e non riconosce la sconfitta
"Sono pronta a unire il partito". Trattative per il "dream ticket" *
WASHINGTON - Il senatore Barack Obama sarà il primo nero nella storia a giocarsi la presidenza nell’Election Day di novembre. Per tutti i media americani (anche per la più prudente Cnn) alle 3.01 italiane ha raggiunto la matematica certezza di avere la maggioranza dei delegati democratici per essere nominato candidato a correre alla Casa Bianca. Poi, in seguito, arriva anche la vittoria in uno dei due ultimi Stati, il Montana.
E Barack celebra questa giornata nel Minnesota con un discorso discorso di vittoria. Con una partenza che non lascia adito a dubbi e scatena i sostenitori: "Sono il candidato democratico alla Casa Bianca". Seguita dall’appello al partito a "essere ora uniti contro McCain". Alla Clinton dedica grandi elogi e un’ampia parte del suo discorso ("Una leader che ha ispirato milioni di americani con la sua forza, il suo coraggio e il suo desiderio instancabile di migliorare la vita del popolo americano. Il nostro Paese e il nostro partito sono migliori grazie a lei"), ma non arriva una proposta formale di correre insieme alla Casa Bianca. E poi l’appello a tutti i cittadini degli Usa: "America, è il momento di voltare pagina"
Ma il nodo per i Democratici non è ancora sciolto. Hillary Clinton gli fa i complimenti con il suo discorso finale a New York, ma non gli riconosce la vittoria. Si dice pronta a unire il partito ma prende tempo sulle prossime mosse (compresa la possibile candidatura a vice presidente): "Questa è stata una lunga campagna, non deciderò stanotte". Ma intanto, dopo aver ringraziato tutti quelli che l’hanno sostenuta nella corsa alla nomination, si congratula con Obama e i suoi sostenitori per "aver condotto una straordinaria campagna elettorale". E soprattutto dice: "Ora sono impegnata a unire il partito per conquistare la Casa Bianca". Per lei - e lo dice ringraziando gli elettori - la soddisfazione morale di aver vinto le primarie in South Dakota. E intanto, con un ultimo colpo di scena, ha fatto filtrare la disponibilità a correre come vice di Obama. A partire dalla richiesta di un incontro faccia a faccia nelle prossime ore.
L’ex First Lady, che sognava di diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti, ha tenuto l’America con il fiato sospeso. Dal suo entourage sono uscite indicazioni contrastanti, segno del caos che accompagna l’epilogo di una candidatura che sembrava nel segno dell’inevitabilità. Prima il giallo di una dichiarazione con la quale l’ex avrebbe riconosciuto la sconfitta a seggi chiusi, sia pure attendendo ancora un giorno o due per un annuncio ufficiale di ritiro. Ma le indiscrezioni sono state smentite poi dai portavoce di Hillary. Ma con il passare delle ore sono invece filtrate voci di frenetici contatti telefonici dei Clinton per cominciare a discutere i termini della resa.
La chiave di questa giornata al cardiopalma sta in realtà nei numeri. Tutti sanno benissimo che molti dei duecento superdelegati ufficialmente indecisi sono pronti a schierarsi dalla parte di Obama. E Barack ha condotto un pressing dell’ultima ora per convincere almeno una parte a pronunciarsi subito. Un lavoro che, come si è visto, ha dato frutti: fin dalle prime ore del mattino sono piovute dichiarazioni di appoggio a Obama, spingendolo verso quota 2.118 delegati, il numero che indica la vittoria. Il numero tre dei democratici alla Camera, il deputato nero James Clyburn, ha aperto i giochi e mandato un segnale ai colleghi che, dopo cinque mesi, è ora di dichiarare partita chiusa. Nelle ore successive e fino all’epilogo serale, l’onda dei superdelegati è cresciuta e al gruppo si è unito anche un nome eccellente, quello dell’ex presidente Jimmy Carter.
* la Repubblica, 4 giugno 2008