Giovedì scorso, il 18 dicembre a.D. 2008, Michele Santoro ha dedicato una puntata della sua Annozero alla vicenda delle inchieste sottratte a De Magistris, Poseidone e Why not. La terza sul magistrato più scomodo d’Italia, in un anno.
Come sapete, queste inchieste sono state trasformate in un mistero buffo e assieme tragico. Buffo per i vari rapporti d’amicizia e lavoro che risultano dai fatti: il procuratore capo di Catanzaro è amico e assistito dell’avvocato sotto inchiesta. Questi, poi, non è membro della sezione sportiva del club dei goliardi. Sta, invece, in commissione parlamentare Giustizia ed è il riferimento del partito di Berlusconi in Calabria. Mistero tragico, invece, per il decesso della giustizia, andata per eutanasia nel silenzio generale; muta pure la Chiesa di Roma, che in materia interviene sempre.
Lo stesso giorno, l’imprenditore Pino Masciari, che ha denunciato ’ndranghetisti e collusi, ha avuto l’udienza al Tar del Lazio circa la revoca della sua scorta; che gli torna a intermittenza, pare senza una logica.
Decine le delibere degli organismi di sicurezza che, rincorrendosi, stabiliscono condizioni e possibilità di movimento del testimone di giustizia, il cui rischio rimane molto elevato.
Come prevedibile, niente scorta per l’udienza al Tar, Masciari è stato protetto dai suoi amici: giovani venuti da Torino, Udine, Trento, Roma.
Le alte sfere della politica non possono capirlo, e forse non vogliono che vada in giro a parlare di legalità e giustizia. Masciari è più pericoloso adesso che in passato: ha séguito, credito, consenso e argomenti. Aggrega, organizza, interviene, parla, s’incazza. A noi sembra che qualcuno voglia farlo passare per matto. Lo stesso ci viene da pensare per Giuseppina Cordopatri, che è fissa in tribunale, e altri testimoni di giustizia.
Ai piani alti del «palazzo» la scorta c’è, per quanto non serva.
I santisti della ’ndrangheta, così si chiamano i capoccioni dell’organizzazione internazionale made in Calabria, non deciderebbero mai l’uccisione d’un gubernator romano o locale.
Intanto per convenienza, visto che la politica dispone per legge e ciò può tornare sempre utile all’«onorata società», perseguitata dai vari Gratteri e Bruni, giudici non ancora allontanati dalla Calabria.
In secondo luogo, c’è una ragione che si deduce da certi, pacifici rapporti fra "Cosa nuova" (la ’ndrangheta), e il potere politico.
Con l’italico garantismo, aspettiamo di vedere la pronuncia della Cassazione, prima di esprimerci in definitiva sui vari consiglieri della Calabria accusati d’aver ricevuto una mano dalla ’ndrangheta, magari in cambio d’un regalino o d’un piacere. In tempi di crisi e sofferenza, siano entrambi leciti.
Ricordiamo, quale esempio di pendenze sui rapporti fra mafie e politica, il caso del consigliere regionale calabrese Franco La Rupa, il caso del consigliere regionale calabrese Pasquale Tripodi, il caso del consigliere regionale calabrese Dioniso Gallo, già vicepresidente della commissione regionale Antimafia; difeso, nel processo "Puma", dal parlamentare Giancarlo Pittelli, già indagato da De Magistris e già amico e difensore dell’ex capo della Procura di Catanzaro, Mariano Lombardi.
In diverso modo, La Rupa, Tripodi e Gallo avrebbero incrociato personaggi non appartenenti all’oratorio, a Emergency o a Missione 2000, associazione di volontari in Africa fondata da don Battista Cimino, sacerdote diocesano scampato a diversi attentati.
Ripetiamo, a evitare equivoci e sanzioni, nell’ordinamento italiano vige la presunzione di non colpevolezza sino all’ultimo grado di giudizio. Presunzione che non può impedirci una valutazione etica su quanto sta avvenendo in Calabria, dove i fondi europei sono spariti, la disoccupazione e l’emigrazione aumentano e la rassegnazione e il familismo hanno distrutto molte possibilità di aggregazione civile, di resistenza e reazione.
Torniamo a Santoro e ad Annozero. Il buon Michele, che conosce perfettamente il mezzo televisivo e sa gestirlo con impeccabile professionalità, ha invitato Giuseppe Cascini, segretario dell’Associazione nazionale magistrati, il deputato Niccolò Ghedini (Pdl), legale di Silvio Berlusconi, Massimo Giannini, vicedirettore di La Repubblica, Tonino Di Pietro e Carlo Vulpio, cronista del Corsera sollevato dall’incarico a Catanzaro. In collegamento video Vittorio Grevi, ordinario di Procedura penale nell’Università di Pavia.
Nel giornalismo serio, si prevede che si confrontino più voci, che s’ascoltino diverse campane, che ci siano, in breve, pari opportunità. Degli squilibri sarebbero riprovevoli e inficerebbero l’imparzialità che si conviene alla stampa sana e democratica.
Parte la puntata di Annozero, e, dopo uno scontro fra Di Pietro e Ghedini sulle «guarentigie» costituzionali dei parlamentari, s’arriva al decreto di perquisizione della Procura di Salerno nei confronti della Procura di Catanzaro.
Immediatamente, si capisce, direbbe Pirandello, «il giuoco delle parti». Ghedini e Cascini rilevano a turno la mole cartacea del decreto e una mancanza di argomenti decisivi per l’individuzione di responsabilità e rapporti emersi nell’indagine di Salerno. Indagine che, come sapete, mira a stabilire, archiviata la posizione di De Magistris sul suo operato a Catanzaro, se in quel Palazzo di Giustizia ci siano state azioni di magistrati contrarie alla ricostruzione della verità.
Ghedini è l’avvocato di Berlusconi, vale ribadirlo, per dovere di cronaca.
Il discorso finisce sulla corposità del decreto di Salerno. Ghedini ce l’ha con le "troppe" pagine - 1.700, 1.500 o 1.400, a seconda che si consideri l’intero blocco o se ne levino delle parti introduttive - dell’atto salernitano.
Il roccioso Di Pietro replica al parlamentare del Pdl, che prosegue il suo ragionamento sul volume cartaceo del decreto di Salerno.
Con simpatia, Di Pietro si ferma sul contenuto dell’inchiesta salernitana, che, si sottolinea, intende stabilire se qualcuno ha inteso bloccare le inchieste Poseidone e Why not, rispettivamente sui depuratori calabresi e su un presunto comitato d’affari, attivo, nell’ipotesi dell’accusa, per rubare miliardi dell’Unione europea destinati allo sviluppo della Calabria.
Mentre Cascini - che, per non dimenticare, rappresenta tanti magistrati italiani - fa lezione ai colleghi di Salerno, precisando quali sono gli elementi essenziali da inserire in un decreto di perquisizione.
Così, prosegue la favola della battaglia tra le due procure, e scompare progressivamente l’oggetto della questione.
Per fortuna, c’è Marco Travaglio, il quale, con chiarezza e precisione, ricorda che cosa c’è di mezzo: corruzione in atti giudiziari, corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, falsità ideologica e favoreggiamento personale.
Magistrati, imprenditori e politici sono toccati dall’inchiesta di Salerno, che ricostruisce una rete inimmaginabile di relazioni amicali o d’affari alla base di operazioni atte a impantanare Poseidone e Why not.
Leggendo le pagine di Salerno, viene voglia di rinunciare alla propria identità. Perché oggi essere italiani significa soggiacere a un potere oscuro che non si scova e che rovinerà chiunque vorrà individuarlo. Quali diritti, quale Costituzione, quale eguaglianza di fronte alla legge? E, soprattutto, chi fa e chi, in ultimo, interpreta la legge? Come? Con quale principio e fine?
Ovviamente, gli atti di Salerno non stabiliscono nulla di definitivo: la giustizia ha il suo iter, che va rispettato sino in fondo.
E se fosse vero lo scenario in quei documenti? La sola ipotesi avrebbe dovuto suggerire a Cascini un atteggiamento più prudente, a stima della gravità delle imputazioni, anche se non sono in sentenza.
Ma in Italia c’è un nuovo attacco alla magistratura, che deve necessariamente essere privata degli strumenti per assicurare i colpevoli alla giustizia. Vedremo come finirà con le intercettazioni e con l’insistenza della maggioranza su misure per i meri reati di mafia. La parola «mafia» serve a confondere l’opinione pubblica, e questo lo diciamo ormai in tutte le salse. La mafia è soltanto i Riina, i Provenzano, gli Schiavone e i Pelle, tanto per fare un esempio di misera convenzione?
L’Italia è per gli italiani un Paese di africani e romeni pericolosi, di città insicure o sozze, per cui il governo ha prontamente rimediato; televisivamente risolvendo, in realtà.
Il giudice palermitano Antonino Ingroia rammenta spesso la trattativa degli anni Novanta. Come Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. Le stragi e i lutti di quell’epoca furono opera della mafia, punto e basta?
Leggete Colletti sporchi, di Ferruccio Pinotti e Luca Tescaroli. Ci sono, nel Belpaese, troppi capitoli aperti e casi irrisolti. Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi ebbero davvero un ruolo decisivo, in quegli anni di tritolo e morte dello Stato? Questa è solo una domanda, che speriamo sia ancora legittimo porre, in un Paese con una Costituzione.
E le indagini di De Magistris, lo chiediamo a Santoro, non hanno nell’inchiesta di Agostino Cordova a Palmi il precedente storico che illumina su probabili collegamenti tra poteri occulti e tipicità calabresi?
Che cosa è la Calabria? E’ solo il sangue sparso a Locri, a San Luca (Reggio Calabria), a Crotone, a Duisburg, o è terra di conquista e affari in cui l’assistenzialismo e le amicizie dei signori (massoni?) hanno ucciso lo sviluppo culturale ed economico, causando la nuova emigrazione dei giovani?
Roberto Saviano, vieni in soccorso di chi, come noi di "la Voce di Fiore", non dorme più la notte e ha perduto perfino la capacità di sognare. Dici, scrivi, te lo stiamo chiedendo da tempo.
Quale orizzonte, quale futuro per i ragazzi della Calabria, se i soldi pubblici mancano, la società sparisce, la denuncia è vinta e la voce è spezzata, forse più di quella del "rimosso" Vulpio?
Noi, piccoli e inascoltati, nel libro " La società sparente " (Neftasia, Pesaro, 2007), che non deve esistere, abbiamo scritto che il tragico - per gli effetti - abbandono della Calabria è l’unica possibilità per chi non vuole sottomettersi alla Ndrangheta, che sarebbe la consorteria di politica, occulto e ’ndrangheta.
Quanti collegati ci sono in Calabria, in grado di tramare e gestire politicamente masse supine?
Che cosa ci ha insegnato Why not, se non che il sistema è marcio, incancrenito, la collusione è capillare e la corruzione legittimata?
L’inchiesta di De Magistris è solo un teorema? Esiste sul serio la guerra fra procure o l’inchiesta di Catanzaro su Salerno è una forzatura supportata dalla stampa, che ha concorso a costruire l’immagine d’una magistratura prepotente e inaffidabile?
Non era forse competente Salerno su Catanzaro, e non viceversa?
Il trasferimento di De Magistris non si può considerare l’ennesimo abbandono della Calabria, sia pure imposto, da parte di una coscienza che ha provato a cambiare le cose secondo la legge?
Noi calabresi dovremmo restare indifferenti, dovremmo vivere la nostra quotidianità nella consapevolezza dell’impotenza?
Quanto è diversa la vicenda di Why not da quella di Mani pulite?
Possiamo pensare che, per comodità politica, è proibita una lettura oggettiva del caso calabrese, che non riguarda semplicemente le «armate» del crotonese, della locride, del reggino e i traffici miliardari fra ’ndrangheta e cartelli colombiani?
Che cosa è questa Calabria, in cui tutto avviene al di fuori di ogni legge e giustizia umana?
Quale uomo onesto vorrà collaborare, osservando ciò che sta avvenendo a Pino Masciari, al quale denunciare la Ndrangheta è costato l’allontanamento e l’insicurezza perpetui?
Ripetiamo per l’ennesima volta, la Ndrangheta è altro dalla ’ndrangheta. Nessun professor Masciandaro, stimato economista, potrà valutare il fatturato della Ndrangheta.
Conta qualcosa questo nostro grido di rabbia e dolore?
Giuseppe Chiaravalloti, ex presidente della Regione Calabria, può essere responsabile della nostra privacy, in quanto vicepresidente dell’autorità di garanzia, dopo le cose ipotizzate in ordine alle inchieste, perdute, di De Magistris?
Circa Why not, tra i destinatari della recente conclusione indagini figurano diversi politici "eccellenti": dal deputato Giovanni Dima, del Pdl, ex consigliere regionale calabrese di An, al presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero. Quindi, l’ex presidente, Giuseppe Chiaravalloti; il capogruppo del Pd alla Regione ed ex vicepresidente della Giunta, Nicola Adamo; l’ex consigliere regionale dell’Udc Dioniso Gallo; il consigliere regionale di Forza Italia Giuseppe Gentile; gli assessori regionali Luigi Incarnato dello Sdi e Mario Pirillo del Pd. Le persone indagate a vario titolo dalla Procura generale di Catanzaro costituivano - secondo l’accusa - «uno stabile sistema clientelare».
Nessuno è colpevole finché non lo stabilisce la Cassazione. Per certo, corre una bella differenza fra la nostra nazione e altre, del nord europeo. Lì basta nulla, per un discorso etico, a spingere un uomo delle istituzioni a dimettersi. Ma questi signori coinvolti in Why not si ripresenteranno agli elettori, magari, come accade spesso, con un nuovo abito ed un altro linguaggio.
Noi di "la Voce di Fiore" stiamo morendo, ma ce ne andiamo con dignità. Probabilmente perché sono anzitutto i nostri concittadini calabresi a non volerci. Chiuderemo a fine mese, come annunciato.
Siamo vinti, e lo scandiamo con dignità. Abbiamo perso. Ma abbiamo ancora una piccola speranza. Finché c’è parola, c’è vita. Anche se la parola non deve mai essere isolata. Altrimenti diventa follia.
22 dicembre 2008
I ragazzi della rete di "la Voce di Fiore"
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questo articolo lo trovi anche su:
Why not, l’altra verità su De Magistris e Saladino (di Emiliano Morrone)
di Emiliano Morrone (Iacchite - 20 Ottobre 2019)
Colpì milioni di persone il volto commosso di Rosanna Scopelliti davanti alle telecamere di Annozero. Restò nella memoria collettiva quello struggente primo piano della figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla ‘ndrangheta il 9 agosto ’91. Era il 22 ottobre 2007, la giovane parlò a un centinaio di studenti del liceo Galluppi di Catanzaro, toccati pure dai discorsi di Sonia, primogenita del giornalista Beppe Alfano ammazzato da Cosa nostra l’8 gennaio ’93, e di Salvatore, fratello di Paolo Borsellino, vittima della strage di via D’Amelio del 19 luglio ’92.
Nell’auditorium del Galluppi il fremito dei docenti cresceva all’ascolto dei tre relatori, giunti sul posto a difendere il sostituto procuratore di Catanzaro Luigi De Magistris, cui era stata tolta l’inchiesta Why not con indagati “eccellenti”: il primo ministro Romano Prodi, il Guardasigilli Clemente Mastella, il governatore della Calabria Agazio Loiero e il suo predecessore Giuseppe Chiaravalloti, altri politici di peso e figure di rilievo pubblico.
Fondate su tabulati telefonici e testimonianze amplificate, le ipotesi investigative erano inquietanti: potentissimi comitati d’affari a drenare fiumi di risorse destinate allo sviluppo della Calabria, la regione più povera d’Europa, e in cima alla “piramide” la cosiddetta «Loggia di San Marino». E poi trame fittissime, rinvii a lontane, irrisolte vicende parallele, voci di complotti e insabbiamenti e sullo sfondo il palazzo della “casta” come sede dell’immoralità, della corruzione, delle ruberie più fetide a danno dei cittadini. Infine, ma non in coda, c’era la mente, lo stratega, il personaggio chiave dell’inchiesta, individuato in Tonino Saladino, il numero uno della Compagnia delle Opere calabrese, l’uomo che dialogava con i ministri (ma senza anticamera e intermediari).
La Calabria aveva trovato la ribalta mediatica per l’omicidio Fortugno e la strage di Duisburg, e forse in giro sopravviveva, in quell’autunno del 2007, l’immagine della blindata di “don” Carmine Arena sventrata da tre razzi di bazooka nell’ottobre del 2004 a Isola Capo Rizzuto (Crotone).
Quindi c’erano tutti gli ingredienti - e i precedenti - per raccontare, diffondere, benedire e imporre ovunque l’impianto e la portata di Why not, su cui cadde il governo Prodi. Antonio Di Pietro intuì che De Magistris era un cavallo elettorale, Beppe Grillo ne riverberò le gesta assieme a Marco Travaglio e a suon di voti il pm, giovane, alto, moro, figo, entrò nel Parlamento europeo ottenendo la presidenza della Commissione per il controllo dei bilanci.
Fu la stagione delle certezze morali, forse più di Tangentopoli. Buoni e cattivi erano distinguibili e catalogabili all’istante. De Magistris veniva percepito come l’eroe, l’arcangelo della giustizia che avrebbe scacciato e schiacciato i demoni della politica, i diavoli del palazzo col sostegno del popolo in rivolta.
Per questo era necessario credergli con fede imperitura, alimentarne il mito, proteggerlo da tutte le critiche e delegittimare i loro autori a livello personale. De Magistris appariva come l’inviato dalla provvidenza. Dietro di sé aveva i ragazzi calabresi, le famiglie, la tv, la rete, i nemici cattivi e ributtanti da un lato e dall’altro sostenitori di forte impatto: giornalisti, accademici, attivisti antimafia, artisti e vari nomi popolari.
Io stesso vengo da quella corrente, da quella cultura di manicheismo integralistico poi radicata sino al rifiuto inamovibile del perdono collettivo e della possibilità di recupero del reo, come se Cesare Beccaria non fosse mai esistito o avesse scritto vacui spot pubblicitari.
È una cultura aggressiva, autoreferenziale, di superficie, priva di obiettività, direzione, coerenza ed effettiva capacità di cambiamento. È una cultura repressiva: delle manette, delle sbarre, del carcere e della disumanità. È una cultura parassitaria che, traendo linfa dalla buona fede o credulità delle masse, ha determinato carriere politiche folgoranti, spesso a prescindere dal merito individuale.
Ed è una cultura che riduce la democrazia a simulacro, conferendole sostanza ambigua e dimensione utopica; una cultura strumentale all’utile di pochi e all’immobilismo generale, in virtù della quale sono nati leader monocratici senza storia, identità e visione, con il solo scopo di rimescolare rapporti di forza e “attori” in gioco. Tonino Saladino
È la stessa cultura, insomma, che ha permesso l’ascesa dei nuovi “santi” e, per esempio, la demonizzazione senza riparo di Saladino, che dopo anni infernali la giustizia ha ritenuto lindo ma che a cadenza periodica viene ancora tirato in ballo, nell’oceano incontrollabile di Internet, come mostro a sette teste, amico degli amici ed eminenza grigia, creatura tentacolare.
Devo chiedere pubblicamente scusa a Saladino: per essermi lasciato trascinare dal delirio collettivo, dalla cattiveria meccanica che a lungo ha informato analisi e comportamenti di tanti giovani, tra cui il sottoscritto, vinti dall’istinto rabbioso di distruggere più che ispirati dalla necessità razionale di costruire.
Why not è finita nel nulla. Saladino, assistito da avvocati di spessore che hanno rinunciato al compenso, ha dovuto sostenere spese vive per 200mila euro al fine di provare la propria innocenza, infine certificata dalla magistratura.
Saladino, che ho potuto vedere da vicino, è un uomo semplice, un “povero cristiano” con il torto di essere intelligente e colto, di non avere fame di ricchezza né brama di potere. È un seguace di don Giussani, uno che pratica la carità in una terra meravigliosa ma inaridita da egoismi, invidie, veleni e disgregazione sociale, prima che dalla ‘ndrangheta. È un guaio, e nessuno a Saladino restituirà la gioia, la serenità e la salute dell’animo perdute negli anni dei processi, degli insulti e dei racconti sbrigativi patiti.
Tuttavia, da gioachimita penso che ci sia una giustizia “divina” anche in questa terra, in questa vita, che passa dall’affermazione della verità, anche se troppe volte tardiva e logorante.
Alla Calabria non servono eroi, ma menti libere, aperte, oneste, audaci. Vere.
COSTITUZIONE, CORTE COSTITUZIONALE, E CONTI PUBBLICI ("FISCAL COMPACT"): DEUS CARITAS EST ... *
Sul dogma dell’infallibilità della magistratura
Al di là della solita sfida giustizialismo contro garantismo
Rieccoci, spunta il complotto universale ogni volta che si parla di Why not e De Magistris in termini articolati, obiettivi e con lo sguardo al rapporto inquieto tra politica e magistrati, anche non più in servizio.
di Emiliano Morrone ("il coraggio della verità" - 10.11.2019)
Lo confermano reazioni scomposte a un mio articolo apparso di recente su Iacchitè, piene di congetture - non nuove - sul mio conto, spinte sino al sospetto di interessi personali dietro le mie scuse a Tonino Saladino, arrivate a 12 anni dal suo coinvolgimento in Why not, capitolo che la giustizia ha chiuso con una pronuncia della Cassazione che rimanda al verdetto del primo grado, per cui «il fatto non sussiste». Di fronte a questa formula possono sussistere ancora dubbi e “correttivi epistemologici”? È lecita la dietrologia permanente sulla non colpevolezza - Leonardo Sciascia avrebbe detto «in senso proprio tecnico» - di Agazio Loiero e degli altri ex accusati? Ed è corretto sostenere a oltranza il dogma dell’infallibilità dei magistrati, senza distinzione alcuna sull’operato dei singoli e senza un sussulto interiore se fra di loro c’è per giunta chi ha cenato con propri indagati?
Tra i commenti contro quella mia riflessione su Iacchitè ne ho letti di suggestivi; in uno vengo perfino accostato al governatore della Regione Calabria, Mario Oliverio, come suo vecchio amico per la comune provenienza da San Giovanni in Fiore. Collegarmi a Oliverio è come ritenere Sacchi e Trapattoni apparentati dallo schema a zona.
Tangentopoli fu in Italia uno spartiacque: segnò l’inizio della delegittimazione della classe politica nel suo complesso: tutta sporca, tutta marcia, tutta castale, con la conseguenza di trasformare il motto di Heidegger, «ormai solo un dio può salvarci», in «ormai solo un Monti, solo un Draghi può salvarci». La morte della politica risale al ’92, l’anno di Maastricht. Ora abbiamo i rubinetti chiusi, i parlamenti ratificanti e i bilanci vincolati assieme ai leader del momento, a obsolescenza programmata come tv, cellulari e lavatrici.
Allora galoppò la spettacolarizzazione mediatica di Tangentopoli, in nome dell’audience e dunque della pubblicità commerciale. Perciò si radicò e diffuse l’idea della magistratura come potere buono, sano, giusto, provvidenziale, l’unico affidabile cui letteralmente votarsi e abbandonarsi. Dominò il pensiero che davanti alle connivenze e complicità politiche generali le Procure esercitassero una funzione suppletiva, di intervento e di bonifica delle sale di comando. Poi questo pensiero si consolidò: nacque il partito dei magistrati capitanato da Antonio Di Pietro e concentrato sulle denunce, spesso fondate, di abusi, violazioni, trattative di potere per il potere. L’Italia dei Valori diventò il riferimento politico dei movimenti per la verità sulle stragi degli anni ’90, sugli omicidi di mafia, sui silenzi permanenti dello Stato. Di Pietro, con cui lavorai fianco a fianco, era impeccabile: onnipresente, carismatico, attento, bersagliato dal mainstream, dall’intero arco parlamentare e addirittura colpito in “casa” propria. Penso, per esempio, alla sua (op)posizione nei confronti del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, da molti definita come estrema. E penso alla scelta dell’ex magistrato di piazzarsi a sinistra della sinistra, prima che Idv, perduta la partita del rovesciamento di Berlusconi tramite il “pentito” Fini, si squagliasse a stretto giro dal discusso servizio di Report sulle proprietà dello stesso Di Pietro.
C’è un fatto contraddittorio ed emblematico, però, che tanti non sanno o non ricordano. Il disegno di legge per l’introduzione del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale - che, malgrado l’“avvertimento” contenuto nella (sempre dimenticata) sentenza numero 275/2016 della Consulta, ha subordinato i diritti fondamentali, tra cui quello alla salute, alla disumanità dei conti pubblici - fu intanto d’iniziativa dei deputati dell’Idv Cambursano, Donadi, Borghesi, Cimadoro, Di Giuseppe, Di Stanislao, Messina, Mura, Paladini, Palagiano, Palomba e Piffari. E va rammentato che all’epoca, a mia memoria, soltanto il giurista Giuseppe Guarino, più volte ministro, tuonò contro il Fiscal compact, che costituì la base di quell’operazione disastrosa, bollandolo come «illegale».
Ora, questi pochi ma significativi elementi non sono sufficienti a farci rivedere l’assunto dell’insindacabilità assoluta della magistratura, generato e alimentato da un intero sistema che ha confinato il dissenso critico, la ricerca della verità oggettiva e storica e il ruolo precipuo della politica, la quale - per richiamare il filosofo Salvatore Natoli - ha da fare con il progetto per il bene comune e non con il mero governo della contingenza?
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
ITALIA!!! TUTTI. MOLTI. POCHI: E NESSUNA COGNIZIONE DELL’UNO, DELL’UNITA’!!! L’Italia e le classi dirigenti senza senso nazionale. Uno dei problemi della storia italiana dell’ultimo secolo e mezzo è segnato da élites che non hanno saputo andare oltre gli interessi particolari.
Federico La Sala