di Emiliano Morrone
Da circa una settimana Biagio Simonetta e io siamo oggetto di commenti sprezzanti su Facebook. Nostri giovani concittadini di San Giovanni in Fiore (Cosenza) ci scrivono sbrigativamente che facciamo schifo e, addirittura, che abbiamo una mentalità mafiosa.
Per alcuni meridionali, narrare significa smerdare. Simonetta e io siamo giornalisti e autori di pubblicazioni antimafia. Insieme, anche con Francesco Saverio Alessio, abbiamo partecipato a numerose iniziative di associazioni e movimenti. In università, piazze e municipi, abbiamo raccontato la pressione della ‘ndrangheta in Calabria e gli effetti devastanti della cultura e pratica mafiosa. Insieme, pure con Alessio, ci siamo ritrovati a Casal di Principe (Ce), invitati da “Libera” di don Luigi Ciotti e, per esempio, a Verona; lì chiamati dai ragazzi di “Legalità e Giustizia”, gruppo dell’ateneo scaligero. Insieme, sempre con Alessio, cerchiamo con la parola di aggregare la società civile. Da Sud a Nord, nel nostro piccolo. Senza ritenerci eroi, lontani dal professionismo dell’antimafia.
Con Alessio ho scritto un libro, “La società sparente”, su come in Calabria la politica fabbrica il consenso. Il saggio, questo è solo il genere letterario del testo, spiega perché nella regione prosegue un gravissimo spopolamento: le possibilità di lavoro sono molto scarse e spesso subordinate al “sistema Saladino”, basato su assunzioni precarie in cambio di voti. Un sistema datato, rodato e “regolare” che - secondo la tesi di fondo del volume, sottolineata da Roberto Saviano in un articolo su “L’Espresso” - sta producendo lo svuotamento della Calabria. Lo gestiscono la politica, la ‘ndrangheta e un’ampia zona grigia di professionisti e imprenditori. Qui, nella nostra terra, si sono bruciati i fondi europei; la sanità, “cosa” della ‘ndrangheta, è allo sfascio e i rifiuti sono, in un tempo, l’affare e l’enigma del post-moderno.
Soprattutto a Sud si può comprare la dignità di persone e coscienze: il potere sfrutta il bisogno diffuso e la paura delle masse. Del 2007, “La società sparente” ha un capitolo sui consiglieri regionali indagati - solo in ragione cronologica - dopo l’omicidio del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno, avvenuto a Locri il 16 ottobre 2005. Quello fu un periodo terribile per le istituzioni, potendosi presumere un loro generale inquinamento. Fra l’altro, all’epoca vennero arrestati i consiglieri regionali Dionisio Gallo (Udc), Pasquale Tripodi (Udeur), Franco La Rupa (Udeur) e Domenico Crea (Margherita). Il loro collega Enzo Sculco (Margherita) fu poi condannato per concussione, nell’ambito di un’inchiesta condotta dal pm antimafia Pierpaolo Bruni. Purtroppo, ad oggi la situazione non è mutata: mi riferisco anzitutto agli arresti dei consiglieri regionali Santi Zappalà e Franco Morelli, del Pdl, considerati dall’accusa amici della ‘ndrangheta.
Biagio Simonetta ha scritto un romanzo carico di rabbia, amore e verità. Si chiama “Faide” e non fa i nomi del potere antistatale. Al contrario di “Demoni e sangue” di Francesco Saverio Alessio, potente saggio di un intellettuale che, più avanti negli anni, denuncia con ferocia il malaffare al Sud; lirico nella memoria della bellezza perduta, aggredita e distrutta da uomini senz’anima. Il valore del romanzo di Simonetta - che con l’espediente del verosimile trasmette al lettore tutta la disumanità della ‘ndrangheta - sta proprio nel racconto nudo e crudo dell’azione criminale, spogliato di riferimenti anagrafici che, di solito, producono fazioni e negazioni.
Oggi, ragazzi della stessa generazione di Biagio e mia, divulgano odio e rancore nei nostri confronti, addebitandogli di costruire finzioni, “fotoromanzi”. Lo fanno su un social network che si assume libero, ignorando...
Purtroppo i social networks hanno creato dei mostri, e cose del genere, come molte altre, sono semplicemente conseguenza di un appiattimento culturale ed un esaltazione del proprio io. La cattiveria, come quella che è emersa nei vostri confronti è figlia di una digitalizzazione di pensiero, su facebook la gente scrive per come parla, parla per come pensa, pensa per quel che è. Affiancandovi la mia solidarietà per quanto riguarda gli attacchi personali e allontanandomi dalle accuse che avete ricevuto, vorrei dire, se posso, che in quel leggo in questa pagina c’è un po troppo di auto celebrazione di voi stessi (Saviano è diverso molto in questo), e questa secondo me è tra quelle cose che attira, più di ogni altra, l’odio e l’antipatia da parte della gente, e poiché ritengo "la causa" una causa nobile non mi pare giusto che per motivo di un antipatia provocata, naturalmente, dal vostro auto-referenziarsi possa "LA CAUSA" essere anch’essa sminuita. Invito tutti, voi scrittori in primis, a scendere con i piedi per terra evitando celebrazioni e referenze di merito su se stessi e discuterne. Pregerei che questo mio intervento non venga confuso con un attacco. Come detto prima mi dissocio, ed avete tutta la mia solidarietà, però inviterei voi scrittori ad una riflessione profonda per evitare queste note autoreferenziali che fanno nascere antipatie dannose soprattutto alla vostra causa, alla nostra causa, alla causa della nostra terra.
Riflettete, con affetto.
Caro Gaetano,
ti ringrazio molto per il tuo commento. L’autoreferenzialità a cui fai riferimento è, credimi, solo una nostra precisazione. Giusto per inquadrare il contesto. Posso assicurarti che, nella realtà, c’è sempre stato il tentativo, da parte di noi tutti, di costruire insieme. Il punto è che spesso, a Sud, non c’è solo l’antipatia procurata da un modo di porsi, ma anche la negazione dello stato delle cose. Ed è contro questa mentalità che, uniti, dobbiamo lottare. Abbiamo la parola e l’esempio. Tutti.
emiliano
La ’ndrangheta crotonese domina la Sila
di Arcangelo Badolati *
I tentacoli della ’ndrangheta sulla montagna. La feroce criminalità crotonese ha da anni allargato i propri interessi lungo il massiccio silano.
La città più importante - San Giovanni in Fiore - è stata per un periodo il rifugio prediletto e sicuro di Guirino Iona, irriducibile e sanguinario boss di Belvedere Spinello. E nei boschi di faggi che da Aprigliano risalgono fino al luogo in cui visse l’abate Gioacchino, vennero arrestati, nella notte tra il 3 e il 4 novembre del 2008, i due più temuti esponenti del "locale" mafioso di Cirò: Cataldo Marincola e Silvio Farao.
Vivevano nascosti in una casa colonica e avevano scelto l’impenetrabile bosco per sfuggire ai carabinieri. Avevano trovato rifugio un casolare nascosto tra la vegetazione. Raggiungibile solo attraverso una stradina sterrata che si arrampica tra la fitta vegetazione.
L’altopiano silano negli ultimi anni è stato pure utilizzato dalle cosche crotonesi per nascondere i corpi delle vittime della lupara bianca e per dare alle fiamme le salme dei "picciotti" condannati a morte dai tribunali della ’ndrangheta di Petilia Policastro, Cotronei, Belvedere Spinello, Cutro, papnice, Mesoraca e Cirò. È quanto emerge ormai con chiarezza dalle indagini condotte dalla pm antimafia Salvatore Curcio della Dda di Catanzaro.
La Distrettuale del capoluogo di regione indaga, infatti, su tre casi di omicidio. Il primo ha visto soccombere un macellaio di San Giovanni in Fiore, Antonio Silletta, 36 anni, trovato carbonizzato tra gli abeti austeri nel gennaio 2007. La scoperta del cadavere fece morire di crepacuore, poche ore dopo, la madre della vittima. Il secondo riguarda un fotografo napoletano, residente a Petilia Policastro: si chiamava Paolo Conte, aveva 44 anni, e venne trovato incenerito, il 29 agosto del 2006, all’interno della sua auto, nella boscaglia che lambisce il lago Ampollino. Considerate le condizioni del cadavere fu persino difficile capire come fosse stato assassinato. Solo dopo accuratissimi esami necroscopici, si scoprì che era stato ucciso con un colpo di pistola sparato alla nuca. Esattamente come Silletta. Il terzo caso afferisce all’uccisione di Gaetano Covelli, pure lui di Petilia Policastro, trovato carbonizzato, all’interno della sua auto, nell’agosto del 2004, in territorio di San Giovanni in Fiore. Pure lui venne assassinato con un colpo di pistola calibro nove, sparato alla nuca. Ignoti gli autori dei tre crimini, oscuro il movente. È d’altronde difficile per chiunque districarsi nella selva d’interessi, faide, traffici, alleanze, che fanno da sfondo ai tanti omicidi compiuti a cavallo del massiccio silano negli ultimi anni. La lotta tra lo Stato e l’antistato, tra i boschi, si combatte facendo i conti con i volti imperscrutabili degli allevatori, i silenzi dei pastori, le continue transumanze del bestiame e i rumori di potenti fuoristrada assurti a simbolo d’una ostentata ricchezza.
A San Giovanni in Fiore, è anche svanito nel nulla il tre settembre del 2005 Giuseppe Loria, giovane operaio del luogo. Pure lui ucciso. Magistrati e investigatori non escludono, inoltre, che sotto i maestosi alberi secolari del massiccio montuoso siano stati nascosti anche i resti di Annibale Alterino e Damiano Mezzorotolo, due cognati di Cariati, di cui non si hanno notizie da quasi cinque anni. Sostenere, dunque - come si è esercitato a fare qualche politico "buonista" in vena d’improbabili sortite - che la mafia calabrese non eserciti la propria influenza nella zona sangiovannese è davvero fuoriluogo.
Chi può dimenticare, per esempio, la fine che venne fatta fare all’allevatore Francesco Talarico e al nipote sedicenne Gianfranco Madia, trucidati nel 2000, a colpi di lupara, a due passi da San Giovanni? Oppure l’agguato teso, nel 2001 tra Camigliatello e San Giovanni, all’imprenditore Tommaso Greco? Le "lupare" in montagna non sparano da sole...
Arcangelo Badolati, La Gazzetta del Sud (11.1.2012), pag. 32