In anteprima, da "Hiì lupu", prossimo libro di ’ndrangheta e oppressione che fa seguito a “La società sparente”

IL MIO UNICO GIORNO DI ASILO

La scoperta della solitudine, dell’etica e della ricerca.
mercoledì 21 gennaio 2009.
 
[..] 1962, i primi bar moderni. La macchina del caffè, i gelati, le caramelle ed i cioccolatini. Il biliardo, i tavoli per le carte, e poi il brandy, il whisky, la china calda; la birra. Comunque con il vino sotto o sopra banco. E pue a‘ cjazza 1) con gli amici cacciatori di mio padre.

Inceneritore di Brescia, fotografia di Francesco Saverio Alessio

Avevo quattro anni ed ero stato scacciato dall’asilo, gestito dalle suore nel bellissimo palazzo De Marco. A causa di un mio sentimento di diversità. In parte innato, in parte derivato dall’essere cresciuto al seguito di mia madre, a lungo insegnante rurale. All’aperto nei villaggi della Sila: il Germano, Cava e’ Melis, e poi, più vicino, Fantino e Acquafredda.

A San Giovanni in Fiore sempre giocato per strada, negli orti, alla jumâra 2), a Crotone dai nonni perennemente sprofondato nel mare. Acque piene di pesce, a caccia di granchi e bivalvi, che mangiavo crudi sugli scogli. Senza limone.

Ero cresciuto in modo troppo libero, naturale, decisamente selvatico. Per me fu uno shock quell’unico giorno d’asilo. Indossare il grembiulino. Non mi piaceva, mi sentivo imbalsamato; non ci volevo andare. Incontrare di colpo un gran numero di bambini. Piccoli, nessuno un po’ più grande, come gli alunni di mia madre, che aveva classi miste dalla prima alla quinta, ed erano tutti più grandi di me. Quei bambini erano piccoli, erano estranei, tutti con gli stessi grembiulini o lo stesso fiocco. Alieni! Come i loro genitori del resto, le suore, la grande scala, l’ambiente completamente diverso, sconosciuto e misterioso. Mamma mi lasciò velocemente, con un senso di indispensabilità: fu una brutta esperienza da affrontare, soprattutto la scoperta della solitudine.

Un piccolo lupo chiuso in gabbia in uno zoo. Avevo reagito prima isolandomi. Poi, pressato dalle richieste di suore e bambini, aggredendo sia le suore che i bambini. Infine rifiutai il cibo, dopo avere detto, educatamente, tre volte “No, grazie!”, con uno scatto versai sulla tavola la scodella di verde minestra, nauseabonda!, e fui punito.

Mi rinchiusero in uno stretto ma altissimo deposito, al buio. Filtrava un debole spiraglio di luce; dal sopra e dal sotto della porta. Le loro voci in lontananza, quelle della strada più vicine.

Dopo un po’ di tempo, abituatomi alla penombra e superata la paura, ero quasi grato alle suore di avermi isolato. Rimanere per i fatti miei, così riflettere sulla nuova dimensione della vita cui ero costretto: l’isolamento e la solitudine.

Pensai a come fuggire, difficile. Lo sgabuzzino aveva un catenaccio dall’esterno oltre alla serratura. Mi venne fame. Scartabellai nella penombra, e silenziosamente, annusando e tastando, nelle scatole sugli scaffali, ne individuai una piena di ostie. Con la scoperta della solitudine, che diede vita ad un progetto - la fuga - del bisogno da risolvere da solo - la fame - mi scontrai improvvisamente con la consistenza pratica dell’etica.

Fu la prima volta credo che mi si pose un grave problema etico e morale contrapposto ad un impulso animale, la fame, mai vissuto in modo così impellente. Anche se a casa mia non erano particolarmente cattolici a quattro anni ero ben educato anche al cattolicesimo, ed ero in grado di comprendere che cibarsi delle ostie era quanto meno blasfemo. D’altro canto il comportamento delle monache mi sembrava diabolico, chiudermi a chiave in uno stanzino spettrale soltanto perché volevo stare da solo, crudeli.

L’irrisolvibilità della fuga, l’impotenza, la paura, mi spingevano ad un forte desiderio di riscatto.

Fondamentalmente ero un bambino spaventato e seriamente affamato. Raggiunsi un compromesso, improvvisamente pragmatista. Elaborai una mediazione fra il codice morale trasmessomi ed il doloroso bisogno di cibo e di conforto: mi inginocchiai e dissi a Gesù che mi faceva male lo stomaco e che ne avrei mangiate solo il necessario, e di perdonarmi per essermi trovato in quella situazione, che volevo soltanto tornare a casa, a mangiare i biscotti fatti al forno da mia madre; era una semplice piccola ragionevole preghiera. Non ne mangiai molte, credo una decina, giusto per tappare quello strano buco allo stomaco, che la paura e il pranzo saltato per la prima volta nella vita, mi avevano procurato. Un bambino di quattro anni, solo, al buio.

Quando le suore mi scoprirono, con orrore si resero conto che mi ero cibato delle ostie, un eretico cannibale! Peccato mortale. L’espressione della loro rabbia fu così terrorizzante da farmi scappare immediatamente, divincolandomi e sgusciando attraverso di loro. Mi nascosi infilandomi sotto un antico e pesante mobile angolare dai piedi alti, da dove graffiai come un gatto chiunque si avvicinasse. Per fortuna rinunciarono a stanarmi da li sotto con un gancio o una scopa. Mi sarei fatto uccidere ma non sarei uscito da quella tana.

Tutto finì quando arrivò mia madre di corsa. Nel frattempo qualcuno, mandato dalle suore disperate, era andato a chiamare qualcuno a casa. Pochissimi i telefoni all’epoca.

Schizzai fuori dal mio nascondiglio e mi aggrappai al suo collo, fortissimo. Mi immersi nel suo odore e le ripetei più volte con urgenza e amore all’orecchio: “Jâmuninne Mâ! Jâmuninne Mâ!” 3) Ero terrorizzato. Mi portò via immediatamente.

Ero sopravvissuto alla mia prima vera battaglia solitaria con la vita indirizzandola strategicamente verso la risoluzione del mio scopo: non frequentare l’asilo. La mattina dopo toccò a mio padre tenermi con se; mia madre aveva il turno di mattina e lui di pomeriggio. Si erano messi d’accordo con il direttore didattico per ottenere due turni contrapposti spiegando di avere un figlio che non voleva saperne di frequentare l’asilo, che aveva problemi di inserimento, e che era meglio per il momento seguire nell’educazione direttamente, in famiglia e con i nonni. Così passando per disadattato mi risparmiai l’asilo. Non lo volevo proprio frequentare.

Vissi un’infanzia fantastica, tutti i giorni all’aperto, felice. La pacchia durò soltanto un anno. Saltato l’asilo fui costretto a fare la primina, quella di Ippolito, Battista, Giannetto, dove risultai bravo, specialmente in disegno ed italiano, oltre che normalmente socievole: mi ero civilizzato nel frattempo.

Francesco Saverio Alessio

P. S.: La pazienza, grande sfida; è la chiave per aprire una porta apparentemente inviolabile. Uscir fuori da una situazione senza via d’uscita. Carissimo Maestro Max!

note:

1)Dal dialetto Florense: E pue a‘ cjazza: E poi la piazza.

2)D. F.: Jumâra: Fiume; jire alla jumâra, andare al fiume; si intende che da ragazzi si andava a nuotare nelle freddissime acque dei torrenti montani che lambiscono la città, l’ Arvo ed il Neto. Io iniziai ad andare a sette anni ma ai tempi dell’asilo avevo fatto tre volte il bagno al fiume con mio padre, in montagna, mi sentivo già grande. Era una prova di coraggio e temprava il corpo. A’ jumâra era anche una specie di rito d’iniziazione sessuale, omosessuale, poiché si faceva il bagno nudi, e si andava in gruppi di bambini e ragazzi dai quattro anni di età ai sedici, diciotto e anche più. Poteva succedere di tutto. Centinaia di guerrieri, oltre alle capre, perlustravano il fiume tutta l’estate e lungo il fiume non cresceva niente, né alberi, né cespugli; tutto impiegato in fuochi, ed altri usi come archi, frecce, capanne. Le rocce di granito, nude, si arroventavano ai raggi del sole della Sila e fornivano conforto quando si usciva dall’acqua sempre freddissima. Era bellissimo rivestirsi e sentire il calore degli indumenti riscaldati dalle pietre sulla pelle, entrare ed espandersi nel corpo. Prima di affrontare la salita per tornare in paese.

3)D. F.: Jâmuninne Mâ! Jâmuninne Mâ!: Andiamocene Mamma! Andiamocene Mamma!

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