Due vicende, un’unica matrice. La ‘ndrangheta. Da un lato l’attività segreta e spietata dei clan che uccidono e poi sciolgono nell’acido una donna di mafia che ha deciso di parlare, di collaborare con la giustizia. Dall’altro la ‘ndrangheta che lancia messaggi, che mette bombe e fa trovare lanciarazzi. E vuole colpire magistrati e giornalisti. Storie già sentite, trenta o vent’anni fa in Sicilia, quando il potere di Riina si trasformò in mattanza. Il salto di qualità. Che tutti pensano che sia storia di oggi per le famiglie calabresi, evoluzione recente, e invece è cosa che si sta verificando da tempo. Ma nel silenzio distratto e a volte perfino colpevole e complice di stampa e politica. La ‘ndrangheta nel silenzio è diventata l’organizzazione mafiosa più potente e spietata, militarmente fortissima e ricca e presente in mezzo mondo. A partire da quel Nord italiano (o padano?) dove la mafia non esisterebbe. Questo è.
Non nascondiamoci dietro a un dito a proclami demagogici su una presunta “tenuta dello Stato”. La ‘ndrangheta è un potere concreto e visibile e ossessivo per chi vive in Calabria (e non solo) mentre lo Stato, trasformatosi da potere reale e presenza fisica in spot mediatico, è diventato sempre più un potere aleatorio anche per gli stessi servitori dello Stato che lì, nonostante tutto, continuano a operare. Anzi, e questo è un sospetto che diventa sempre più diffuso fra chi si occupa di cose “di mafie”, sono sempre di più gli indizi di una partnership su interessi comuni fra pezzi deviati dello Stato (e non sto parlando delle evidenti convivenze e coincidenze della politica calabrese). La parola “servizi” e “apparati” compare con sempre più frequenza nelle cronache di ‘ndrangheta.
Partiamo da un fatto di cronaca, terribile. È stata sciolta nell’acido Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia scomparsa un anno fa. La scorsa notte, su richiesta della Dda di Milano, i carabinieri hanno eseguito sei ordinanze di custodia cautelare nei confronti di persone ritenute coinvolte nella scomparsa e nell’omicidio della donna che si era ribellata alla ‘ndrangheta. Tra i destinatari delle richieste di arresto anche l’ex convivente della donna, Carlo Cosco, di 50 anni. La Garofalo, secondo gli inquirenti fu prima uccisa con un colpo di pistola e poi sciolta nell’acido. A Milano, dove la mafia, dicono, non esiste.
La donna è stata uccisa per due ragioni. La prima, diretta, per punirla di aver iniziato a parlare. La seconda è un avviso a chi aveva orecchie per ascoltare di non parlare, di non spezzare il patto d’onore (se questo è onore) che tiene assieme le famiglie della ‘ndrangheta. Perché, se è vero che dai clan calabresi solo raramente sono usciti dei collaboratori di giustizia, è altrettanto vero che ultimamente il fenomeno del “pentitismo” ha cominciato a fare breccia anche nelle ‘ndrine. E chi parla muore. Ma nonostante l’implicito avviso di questa ed altri scomparse qualcuno cede e ha iniziato a rilasciare dichiarazioni. Come Antonino Lo Giudice che molto sta svelando sui retroscena degli ultimi avvenimenti in particolare a Reggio Calabria con l’escalation di minacce, attentati e intimidazioni nei confronti di magistrati e giornalisti.
E sarà sentito nuovamente già in settimana Lo Giudice. Dopo l’interrogatorio fiume, protrattosi per due giorni interi, al quale si è sottoposto Lo Giudice aprendo il suo percorso di collaborazione, e condotto dal procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, e dall’aggiunto, Michele Prestipino. Due magistrati che sono stati i primi a sentire il boss pentito nell’ambito dell’inchiesta sulle intimidazioni della ‘ndrangheta ai magistrati della Procura generale e della Procura della Repubblica di Reggio Calabria di cui proprio Lo Giudice si è attribuito la responsabilità. Sulle intimidazioni ai magistrati reggini il procuratore Pignatone e l’aggiunto Prestipino si sono limitati a raccogliere le prime dichiarazioni spontanee del pentito non essendo titolari della relativa inchiesta. Saranno invece magistrati della Dda di Catanzaro ad approfondire l’argomento, cercando di individuare i motivi per i quali Lo Giudice avrebbe organizzato gli attentati. Anche perché la confessione di Lo Giudice contrasta con quanto era emerso in precedenza dall’inchiesta della Dda di Catanzaro secondo cui ad organizzare gli attentati era stata la cosca Serraino.
Ed è proprio questo contrasto fra le due versioni che lascia perplessi i magistrati, e anche tutti quelli che seguono la vicenda. Perché il contrasto inevitabilmente depotenzia entrambe gli scenari. E crea un’infinità di dubbi.
Anche in questo caso un parallelo con la Sicilia è inevitabile. Con la Sicilia ancora saldamente controllata dall’ala militare di Cosa nostra nei primi anni ’90. E su un caso specifico e drammatico come quello della strage di Via D’Amelio del 1992, dove un reao confesso, Scarrantino, venne a più di un decennio di distanza smentito da un altro reo confesso, Spatuzza. Perché parlò allora Scarrantino, facendosi carico di un peso di quel genere? E perché ha atteso così tanto per farsi avanti Spatuzza? Chi risponde a chi? Chi è in buona fede? E soprattutto a chi ha giovato aver accreditato una versione dei fatti che poi, alla fine, si sta rivelando inesatta?
Fa pensare questa storia di una donna d’onore uccisa e poi sciolta nell’acido. Come fa pensare questo neo collaboratore che inizia a parlare (e ad auto accusarsi) di fatti che sembravano dalle indagini avere origini e motivazioni totalmente diverse. In Sicilia si direbbe: “chi è il puparo?”.
C’è solo una certezza. Che la ‘ndrangheta ha fatto un salto di qualità che va ben oltre quello che stiamo materialmente osservando. E che non l’ha fatto ora. Lo ha fatto, con successo, da quando Cosa nostra si è “inabissata” e occupandone il posto di leadership nello scenario del potere criminale. E diventando interlocutore di quei pezzi di Stato e politica che con le mafie hanno sempre avuto a che fare.
Ma intanto emerge che il neo collaboratore ha parlato e parlerà anche dei rapporti tra la ‘ndrangheta e alcune componenti della politica. Anche su questo aspetto assolutamente non marginale, così come sulle attività e la geografia delle cosche reggine, secondo fonti giudiziarie Antonino Lo Giudice ha tanto da dire da dire e la sua collaborazione, malgrado le centinaia di pagine di verbale che hanno già riempito le sue deposizioni, è soltanto all’inizio. E da qui la necessità di guardare lo scenario che finora abbiamo conosciuto.
Cominciando a capire cosa sia la ‘ndrangheta di Reggio. A partire dalla famiglia De Stefano. Andando a rileggere la storia di questa ’ndrina, si scopre che si tratta di una delle più potenti e spregiudicate, anche in termini di rapporti, dell’organizzazione criminale calabrese. Rapporti con la massoneria deviata, intrecci a livello internazionale con i cartelli colombiani e posizione di vertice nel traffico internazionale degli stupefacenti. E poi, aspetto assolutamente da non sottovalutare, un profilo più moderno e meno legato ai vecchi schemi nella gestione “interna”, proprio grazie all’affacciarsi dei boss alle logge deviate. «L’inserimento nella massoneria che, per quanto inquinata, restava pur sempre un’organizzazione molto riservata ed esclusiva - si legge nella relazione Forgione della commissione parlamentare Antimafia - doveva essere limitato a esponenti di vertice della ’ndrangheta, e per fare questo si doveva creare una struttura elitaria, una nuova dirigenza, estranea alle tradizionali gerarchie dei “locali”, in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i legami culturali della vecchia onorata società». E i De Stefano diventano protagonisti di questa trasformazione. «Nuove regole sostituivano quelle tradizionali - prosegue la relazione -. Personaggi come Antonio Nirta o Giorgio De Stefano, che si muovevano con tranquilla disinvoltura tra apparati dello Stato, servizi segreti, gruppi eversivi». Chiaramente gruppi eversivi di stampo neofascista collegati anche “fattivamente”, tanto per fare un esempio, alla luna latitanza di Franco Freda che tanto deve alla famiglia calabrese.
Tutto concesso, per i De Stefano, «se serviva a depistare l’attività investigativa verso obiettivi minori». Inoltre il clan De Stefano è anche quello che mantiene rapporti di amicizia e collaborazione con famiglie di Cosa nostra e della camorra.
In Calabria ci sono da sempre innumerevoli interessi, cambiamenti, bocche da sfamare. Si cercano e si elargiscono favori. Soprattutto si cerca un equilibrio. E per trovarlo questo equilibrio è necessario far capire a chi conviene, e cosa si chiede e quanto. Ecco cosa emergeva a poche ore dall’attentato alla Procura generale di Reggio Calabria. «La ’ndrangheta sceglie e cerca di andare là dove c’è odore di possibile vittoria - spiega Angela Napoli, ex deputata del Pdl, area finiana, da sempre critica quando si parla di intrecci fa mafie e politica e oggi membro di spicco della commissione Antimafia -. È già emerso dalle numerose inchieste giudiziarie che la ’ndrangheta in Calabria è presente un po’ ovunque, dalla pubblica amministrazione alle istituzioni, là dove si decide, là dove si gestiscono appalti e affari. È quindi chiaro che siccome ci lasciamo alle spalle un’amministrazione regionale inefficiente, e si presuppone che lo scontento dei cittadini sposti il consenso elettorale verso il Pdl, la ’ndrangheta sta facendo di tutto per spostare le proprie pedine». Le conseguenze di questa affermazione sono gravissime. Significa che la ‘ndrangheta, con i suoi metodi, sarebbe impegnata direttamente nella campagna elettorale.
Il primo atto di questa campagna elettorale sarebbe emerso proprio nella Piana di Gioia Tauro con l’omicidio di Pasquale Maria Inzitari, di 18 anni, ucciso il 6 dicembre scorso a Taurianova. Secondo gli investigatori, l’arma utilizzata, una pistola calibro 9, e le modalità dell’agguato lascerebbero pochi dubbi sulla matrice mafiosa del delitto. Pasquale Maria è figlio di Pasquale Inzitari, 49 anni, ex esponente dell’Udc (vicesindaco prima e poi consigliere provinciale) arrestato nel maggio del 2008 e condannato nel settembre scorso per concorso esterno in associazione mafiosa a 7 anni di carcere. E non è il primo fatto di sangue che ha colpito questa famiglia. Pasquale Inzitari è anche cognato di Nino Princi, l’imprenditore fatto saltare in aria con la sua autovettura nel centro di Gioia Tauro, pochi giorni prima dell’arresto dello stesso Inzitari. Una vendetta verso l’ex politico? Un messaggio trasversale a tutta la classe politica? Su questo si sta ancora indagando. «Per capire cosa sta succedendo oggi è necessario partire da quel delitto», ci dice Angela Napoli. «I colletti bianchi non sono esenti, esterni, alle logiche degli aspetti militari della ’ndrangheta - spiega la Napoli -. Oggi i mafiosi si laureano, penetrano la borghesia perbenista, accedono direttamente anche a settori della massoneria deviata, sono inseriti in tutte le professioni. E attraverso questo apparente perbenismo determinano cambiamenti e indirizzi. Inquinano tutti questi ambiti».
Ancora più spietato è Luigi De Magistris, per anni pm a Catanzaro e grande conoscitore di questi ambienti “ibridi”, del mondo dei colletti bianchi calabresi. «La ‘ndrangheta è profondamente istituzionalizzata - spiega l’attuale europarlamentare -. Perché ha avuto un tasso di pentiti minori, perché ha una cultura criminale profondamente radicata nel tessuto familiare e per questo è molto più difficile avere collaboratori di giustizia che parlano contro i propri parenti. Ma anche perché ha sempre portato avanti una strategia di penetrazione del tessuto politico e istituzionale. Per capire dobbiamo spiegare alcune delle caratteristiche strategiche della ‘ndrangheta. Prima di tutto un forte “ponte” con Roma. Prima ancora di diffondersi nel resto del Paese, nelle istituzioni finanziarie e imprenditoriali del nord, Roma è stato il vero centro di potere delle ‘ndrine. Non ne abbiamo “culturalmente” una chiara percezione qui da noi, mentre perfino il governo statunitense ha inserito la ‘ndrangheta, nella classifica delle organizzazioni criminali più pericolose del mondo ai primi posti, perfino prima di Cosa nostra. A Roma, quindi, ha una struttura fortissima. I calabresi sono presenti dappertutto, sia dal punto di vista delle famiglie criminali che non. Loro hanno una capacità, attraverso una serie di anelli, che sono i loro uomini che stanno all’interno del mondo dei colletti bianchi, di arrivare dappertutto. Figuriamoci, tanto per fare un esempio, ottenere la revisione o l’archiviazione di un processo. L’aggiustamento di un processo è molto più naturale e semplice per la ‘ndrangheta, i canali che portano all’aggiustamento di un processo sono molto meno traumatici e molto meno complicati rispetto a Cosa nostra, rispetto alla camorra. Organizzazioni, queste, costrette a cercare di volta in volta nuovi referenti politici».
Nella storia degli ultimi anni della Calabria c’è una sorta di peccato originale, di momento simbolico di emersione di uno scenario: l’omicidio nel 2005 di Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale. Cosa è successo dopo? Come è stato metabolizzato questo omicidio eccellente? «L’omicidio Fortugno è stato certamente un omicidio eccellente - prosegue De Magitris - e sul quale è mia opinione che sia necessario capire bene gli scenari politici e di collusione tra politica e criminalità che sicuramente caratterizzano quel tipo di fatto. L’aspetto più significativo di tutta questa storia è che l’omicidio Fortugno non ha segnato una discontinuità politica. Da questo punto di vista, non è stato un omicidio eccellente. Non è stato, tanto per fare un esempio, un omicidio come quello di Salvo Lima nel 1992 in Sicilia che ha mutato gli equilibri, addirittura ha provocato un terremoto per gli ambienti e le alleanze politico-mafiose. È stato un omicidio eccellente dal punto di vista del personaggio. Bisognerebbe capire perché è avvenuto quel tipo di omicidio senza fermarci alla superficie, capire fino in fondo. E soprattutto la morte del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria non ha alzato il livello di contrasto al crimine organizzato soprattutto in quelle sue forme più subdole, cioè i rapporti fra mafia e politica, mafia ed economia».
Un meccanismo, quello descritto da De Magistris, dal quali fu lui stesso stritolato con la liquidazione delle inchieste Why Not, Poseidone e Toghe Lucane. Quando inizi ad affrontare certi temi, puntando in particolare l’attenzione sulla questione dei finanziamenti pubblici, «ti ritrovi a subire di tutto. Il loro livello di penetrazione nelle istituzioni è tale che mettono in atto operazioni di ordinaria amministrazione per fermarti. Non hanno bisogno di fare operazioni belliche o operazioni in qualche modo traumatiche, ma mettono insieme un meccanismo tutto interno al crimine organizzato calabrese, al crimine dei colletti bianchi, per produrre un’azione di contrasto che è micidiale».
Un meccanismo che anche l’ex direttore di Calabria Ora, Paride Leporace, conosce bene. «Stavamo lavorando sul livello della collusione e alle risposte che erano state date fino a quel momento su Fortugno - spiega Leporace -. Non ci siamo mai fermati alla criminalità, al livello militare. Facemmo immediatamente una battaglia sulle collusioni. In quel momento sentivo la fiducia degli editori perché da imprenditori molto scaltri, per essere buoni, sentivano che quella era la linea che serviva a far crescere il giornale. Ma non essendo uno stupido sapevo che prima o poi qualcosa sarebbe successo». Una tempesta che lo ha portato alle inevitabili dimissioni. Ed ecco che arrivano i primi scontri, mai evidenti, sempre sotto traccia, e il clima che diventa insostenibile. È il tempo di “Why not”, delle inchieste di De Magistris, del disvelamento dell’intreccio fra affari e politica in Calabria. E Leporace è potenzialmente un pericolo, la sua indipendenza è la sua principale colpa. «Durante un famoso convegno fui letteralmente aggredito da molti colleghi. Capii che il clima era mutato e che mi stavano facendo terra bruciata attorno». Quindi le dimissioni, e il trasferimento a Potenza e la direzione del Quotidiano della Basilicata. Quasi una fuga, o meglio, un esilio. «Sentivo che non potevo più lavorare in Calabria. Ormai ci torno solo per qualche iniziativa pubblica. È assurdo. Io non sono mai stato uno che si è andato a sedere ai tavoli del potere, ho sempre e solo cercato le notizie. Rischiando di fare la figura del cretino, non mi sarei mai aspettato una tempesta del genere». Sullo sfondo della vicenda personale e professionale di Leporace non c’è solo l’ombra delle inchieste di De Magistris, dell’insieme di connivenze e di gruppi di potere. C’è anche il peso del caso Fortugno e delle terribili commistioni che sono emerse, non ancora del tutto, su questo omicidio. «Il presequel è questo - spiega Leporace - e nasce molto indietro nel tempo. Due famiglie, due filoni che si contrastano fin dai tempi della Democrazia cristiana, fino agli equilibri di oggi con i Filogamo approdati a Forza Italia e i Laganà alla Margherita, e poi la figura di questo brav’uomo che è Fortugno che si trova in mezzo a questa cosa. E alla fine ne diventa la vittima nei modi che conosciamo. Diciamolo alla Pasolini, io non ho le prove ma qualcuno secondo me ha promesso nella campagna elettorale precedente cose che poi non sono state rispettate. Per me rimane sempre emblematico che Cossiga a giugno disse che ci sarebbero stati omicidi eccellenti in Calabria. È qui la chiave della vicenda. Le minacce a Loriero, Loriero che va da Cossiga, e Cossiga che fa la Sibilla, e poi, puntualmente, accade ciò che aveva predetto». La criminalità organizzata, il braccio militare, che uccide il politico nel seggio delle primarie dell’Unione. Eccoci ancora una volta tornare al peccato originale, all’omicidio Fortugno. E forse è stato quello il punto di partenza di questo salto di qualità al quale stiamo assistendo oggi.
Andrea Succi