Ratio

L’Europa nel manifesto di Ventotene: le vere illusioni - di Barbara Spinelli - a cura di pfls

venerdì 26 maggio 2006.
 

QUANDO il nuovo Presidente della Repubblica evocherà la nascita del progetto di unificazione europea, oggi nell’isola di Ventotene, saranno in tanti a domandarsi: chissà come nacque quell’idea, e come divenne pensiero dominante d’un continente, e com’è infine entrata nella vita di ciascuno di noi sotto forma non solo di promessa o rimorso per le cose incompiute, ma di tante leggi che prevalgono ormai sulle leggi nazionali. Chissà come mai ci si ostina a dare, a simile idea, il nome sublime ma traballante di sogno. Giorgio Napolitano farà rivivere quella che allora, in piena guerra tra europei, sembrava una fantasia nata nelle menti di tre confinati antifascisti - Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni. Tale apparve in effetti quello che essi avevano pensato: la nascita di un’Europa dove non ci sarebbero state più guerre, e dove avrebbe messo radice una convinzione fondamentale riguardante gli Stati nazione. Questi ultimi avevano scavato la propria tomba, trasformando le sovranità statali assolute in arma di annientamento reciproco e infine di auto-annientamento. Come in una tragedia greca, dal dolore e dalla colpa doveva scaturire un apprendimento che avrebbe condotto l’Europa a una vita nuova. Questa era la catarsi proposta come farmaco nel Manifesto di Ventotene.

A guardarlo da vicino si trattava d’un sogno ben singolare. Era più simile alla visione profetica di chi cerca le radici inconfessate del presente, e su tale disvelamento abbozza la realtà probabile del domani. L’animava un principio fortissimo di realtà - che sempre impone alle aspirazioni politiche e individuali il rispetto delle condizioni date dall’esistente - e dunque un profondo senso pratico, fondato sull’esperienza e la memoria di innumerevoli guerre europee. Se continuò a esser definito come sogno o utopia, è perché gli Stati vollero che questa fosse la vulgata, necessaria alla salvaguardia delle sovranità nazionali assolute. Non fu così per i fondatori della Comunità: Adenauer, Monnet, Schuman, De Gasperi avevano chiara in mente la sequela tragica della storia d’Europa, e consideravano l’Unione praticamente indispensabile, non solo utopisticamente desiderabile. Ma i custodi del nazionalismo non hanno smesso lungo i decenni di agguerrirsi con comodi sotterfugi. Sin dall’inizio, la loro principale arma è consistita nel definire l’avventura europea un’illusione, declinata al passato come altre utopie.

Varrebbe la pensa rileggere gli articoli che scrissero James Hamilton e John Jay fra l’autunno 1787 e la primavera 1788, nella raccolta intitolata Il Federalista e sotto il comune pseudonimo di Publius, quando si trattò di far ratificare la Costituzione americana adottata dalla Convenzione di Filadelfia il 17 settembre 1787. Nel sesto saggio, Hamilton spiega dove si annidano le vere illusioni, le vere «speculazioni utopistiche». A coltivarle non erano i federalisti ma chi li avversava, preferendo l’inviolabile sovranità dei tredici Stati americani o, al massimo, parziali confederazioni. Hamilton è severo: sono questi ultimi che immaginano sia possibile una «pace perpetua tra Stati anche qualora essai siano smembrati e divisi l’uno dall’altro». È loro l’ottimismo imprevidente di chi ritiene lo spirito repubblicano sostanzialmente pacifico («Le repubbliche non si sono dimostrate meno proclivi alla guerra delle monarchie»). Rileggere Publius aiuta a penetrare l’imbroglio di un’utopia che usa avvolgersi - ieri come oggi - nel manto della rispettabilità pragmatica: «È tempo di svegliarsi dall’ingannevole sogno di un’età d’oro - scrive Hamilton - e di adottare quale massima pratica per l’orientamento della nostra condotta politica il fatto che noi, come tutti gli altri abitanti del globo, siamo ancora ben lontani dal felice regno della perfetta saggezza e della perfetta virtù».

Anche per l’Europa di oggi è così. Certo hanno ragione coloro che vedono nei fondamenti postbellici qualcosa di nobile ma non più trascinante: proprio perché l’Unione in parte già esiste, non è facile immaginare nuove guerre tra europei. Non per questo l’Europa diventa oscuro oggetto di desideri utopistici, retorica vecchia su un mondo che non c’è. Il mondo delle minacce da cui nacque l’idea europea esiste ancora, solo che minacce e sfide son mutate: si chiamano economia mondializzata, terrorismo, scarsità e uso politico dell’energia. Oggi come ieri i singoli Stati non possono fronteggiarle da soli, e i loro dirigenti in cuor loro lo sanno anche quando sono riluttanti a delegare sovranità. Se son capaci di guardare dentro la propria storia sanno che non è neppure autentica sovranità, la loro: è un’ombra quella che stringono. È l’illusione così come la descrive Nicola Abbagnano nel Dizionario di Filosofia: è «un’apparenza erronea che non cessa quando viene riconosciuta come tale (...) è come vedere spezzato un bastone immerso nell’acqua». Delegando poteri decisionali all’Europa, gli Stati possono riacquistare una sovranità oggi perduta.

È dunque per senso di realtà che toccherà fare l’Europa e darle capacità di governo, proprio come negli Anni Quaranta e Cinquanta. È per spirito pratico che urge un’Unione pronta a operare anche quando non c’è accordo unanime, non bloccata dal diritto di veto. Ancora una volta è l’esperienza storica a imporre questa sequela, determinata dal sogno profetico ma fondata sulla razionalità. Illusorio è oggi lo Stato nazione, quando si finge non vulnerabile e addirittura s’ammanta di realpolitica e pragmatismo. La stessa retorica democratica è esercizio illusionistico che rischia di nascondere il reale. Naturalmente è essenziale che l’Europa sia accettata dai popoli. Ma senza governo efficiente non ha senso mettere in primo piano tale esigenza: senza governo l’Europa sarà magari più democratica ma del tutto priva di peso.

Anche questa è una lezione preziosa che viene dai federalisti americani del ‘700. I generosi slanci democratici possono «trasformarsi in passioni maligne e accidiose»; una troppo scrupolosa preoccupazione dei pericoli che corrono i diritti del popolo può tramutarsi in «pura falsità e in vaga lusinga per ottenere popolarità a scapito del pubblico bene», dice Publius nel Federalista. L’ambizione pericolosa è quella di chi «si nasconde sotto la speciosa maschera dello zelatore dei diritti del popolo», e non di chi, preferendo la strada più difficile, «si preoccupa della solidità e dell’efficienza del governo» (Hamilton, saggio n. 1). La democrazia in certe condizioni può divenire perfino inganno. I referendum sull’adesione della Turchia promessi in Francia e Austria sono in realtà un mezzo per accampare il diritto di veto di singoli Stati sulla futura politica estera europea. Più che rispettati, i popoli vengono in tal modo strumentalizzati.

Un sogno realistico dell’Unione è oggi la Costituzione, e non è casuale che anch’essa sia dichiarata morta, come accade alle utopie condannate dalla realtà. I due referendum in Francia e Olanda, nel maggio-giugno 2005, avrebbero affossato l’idea di un governo europeo adeguato, capace di completare i governi nazionali. Naturalmente converrà fare qualcosa, in attesa che la Francia si dia un nuovo capo di Stato nel 2007: qualcosa di pragmatico con i trattati esistenti, ha detto il presidente della Commissione Barroso proponendo - in vista del vertice europeo del 15 giugno - una comune politica di sicurezza interna e antiterrorismo. Ma non basterà, finché i poteri decisionali in Europa non saranno chiariti oltre che suddivisi, e solo una Costituzione può servire a questo scopo. Se possibile, una Costituzione approvata stavolta da tutti i popoli in simultanea.

Anche questo progetto non è illusorio, e chi ha già ratificato il Trattato costituzionale lo sa. Il Cancelliere Angela Merkel ha detto che non intende rassegnarsi: il popolo tedesco e tanti altri Paesi hanno votato per la Costituzione, dunque il progetto non può esser gettato via con disinvolta presunzione da alcune nazioni. Quindici Stati su 25 hanno ratificato (fra poco saranno 16, con la Finlandia) e questo significa che una maggioranza vuole la Costituzione. Anche la maggioranza dei cittadini - circa 250 milioni su 450 - la vuole. Far rivivere il sogno realistico vuol dire partire da qui, da quest’Europa che già si esprime maggioritariamente per un governo europeo funzionante, e per un continente che pesi nell’economia-mondo e nel farsi della politica internazionale. Bisogna tener conto dell’insoddisfazione di chi denuncia i difetti dell’Unione, ma anche della volontà possente di chi l’Unione vuol completarla e darle una Costituzione. Tornare indietro sarebbe non solo illusorio: sarebbe un tradimento e una rottura dei patti, perché tutti i governi si sono impegnati a portare il Trattato a ratifica entro due anni, quando l’hanno firmato il 29 ottobre 2004. È importante che l’Italia abbia di nuovo un gruppo dirigente che quest’avventura l’ha promossa e che vuole addirittura migliorarla (abolendo ad esempio il paragrafo del Trattato che impone l’unanimità per le revisioni costituzionali): Napolitano seguirà in questo la battaglia di Ciampi e altri s’aggiungeranno, a cominciare da Prodi che aveva proposto un Trattato costituzionale ancora più ardito - il progetto Penelope - come presidente della Commissione. A questo punto sì che sarà ottima cosa far rivivere i sogni realistici, e metter fine alle utopistiche illusioni nazionali: illusioni che non cessano anche quando son riconosciute come tali.

di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 21 maggio 2006)


Rispondere all'articolo

Forum