EUROPA. POLITICA ESTERA. Non vi è alcuna grande strategia, vi sono molti piccoli passi ...

L’Africa e l’Europa sono inseparabilmente legate fra loro: il Mali lo dimostra. Un’analisi di Andrea Böhm (Die Zeit - trad. di José F. Padova)

Eurafrica. Il concetto non è nuovo. Lo ha coniato nel 1972 Léopold Senghor, il primo Capo di Stato del Senegal, in un discorso a Strasburgo - a quel tempo come una (non disinteressata) visione di un’unione postcoloniale.
domenica 10 febbraio 2013.
 
Frattanto se ne sono serviti autori sia africani sia europei, per descrivere 500 anni di storia, comune e per lunghi periodi brutale. In sé questo è già un progresso. Consapevolezza della storia, in Europa, ha valore di base per una politica di riconciliazione e con essa per una unione efficiente con Stati stabili. Nelle relazioni con l’Africa però per secoli si è ampliata alle nostre latitudini una perdita collettiva di memoria - più o meno secondo il detto: «Dove si è colonizzato non si sono fatte frittate senza rompere le uova. Non è bello, ma è stato tanto tempo fa» [...]

POLITICA ESTERA

Fra noi e loro vi è soltanto acqua

Il Mali lo dimostra: l’Africa e l’Europa sono inseparabilmente legate fra loro

di Andrea Böhm (Die Zeit, Hamburg, 2 febbraio 2013)

(traduzione dal tedesco di José F. Padova)

Chi in questi giorni legge dell’Africa sui giornali europei viene profondamente sconcertato. Nelle pagine di corrispondenza politica dominano titoli a caratteri cubitali sul terrorismo nel Sahara, sui fragili Stati del Sahel, su tuguri, contrabbando di droga e sovrappopolazione. Nella sezione economica dei medesimi giornali si scrive di Africa di fronte al grande balzo in avanti, di urbanizzazione dinamica, di boom delle materie prime, di un buon clima per gli investimenti e di tassi di crescita dei quali gli Stati dell’Unione Europea possono o sognare o approfittare.

Un modo di guardare schizofrenico, si potrebbe pensare. Un elemento tuttavia collega i punti di vista apparentemente contradditori: la visione di una nuova, reciproca dipendenza di entrambi i continenti. L’intervento militare francese in Mali ha drammaticamente accelerato questa percezione. Il caso del Mali segna la fine dell’illusione europea di poter tenere a distanza i Paesi a sud del Sahara mediante una combinazione di recinti confinari e di aiuti per lo sviluppo. Nell’età dell’«Eurafrica» questo non funziona più.

Questa non è una perorazione per una nuova era di interventi europei secondo il motto: Francia, Germania ed Europa adesso sono difese anche a Bamako. Nulla sarebbe più pericoloso e stupido che giustificare questa nuova epoca con la costrizione alla lotta comune contro il terrorismo. Al-Qaeda nel Maghreb e nel Sahel, insieme a gruppuscoli e jihadisti occasionali, rappresentano un pericolo enorme che travalica i confini. La loro espansione strategica in Mali e l’aggressione al campo gasiero algerino di In Amenas lo hanno dimostrato in modo drammatico.

Eppure il terrorismo islamico non è il problema fondamentale. Al-Qaeda (o chi intanto si incolla questa etichetta) persegue una strategia da opportunista. I gruppi terroristici islamici cercano e trovano sempre nuovi spazi di azione negli Stati fragili. Di questi ultimi attualmente ve ne sono diversi nell’Africa sub sahariana. Non tanto perché Paesi come il Mali sarebbero stati già prima zone di catastrofica ingovernabilità. Non lo erano in nessun modo. Essi si infilano molto più spesso in crisi di diversa gravità, nelle quali devono trattare nuovamente la loro comprensione di bene comune e di democrazia - e con ciò anche la utilizzabilità di quel modello di Stato che hanno lasciato loro in eredità le potenze coloniali e che non ha dato ai loro sempre più impazienti cittadini alcuna giustizia sociale. In condizioni simili un Paese offre una quantità di punti deboli. E proprio su questa realtà l’Eurafrica è messa ora alla prova.

Eurafrica. Il concetto non è nuovo. Lo ha coniato nel 1972 Léopold Senghor [ndt.: poeta della negritudine], il primo Capo di Stato del Senegal, in un discorso a Strasburgo - a quel tempo come una (non disinteressata) visione di un’unione postcoloniale. Frattanto se ne sono serviti autori sia africani sia europei, per descrivere 500 anni di storia, comune e per lunghi periodi brutale.

In sé questo è già un progresso. Consapevolezza della storia, in Europa, ha valore di base per una politica di riconciliazione e con essa per una unione efficiente con Stati stabili. Nelle relazioni con l’Africa però per secoli si è ampliata alle nostre latitudini una perdita collettiva di memoria - più o meno secondo il detto: «Dove si è colonizzato non si sono fatte frittate senza rompere le uova. Non è bello, ma è stato tanto tempo fa».

Veramente non è stato tanto tempo fa. La maggior parte degli Stati nazionali africani hanno circa 50 anni. Essi hanno conseguito la loro indipendenza in confini cuciti insieme arbitrariamente dagli allora dominatori europei, in territori popolati da una molteplicità di gruppi etnici e appesantiti da un modello di Stato accentratore. Al loro interno si delineava già il conflitto che adesso ha precipitato un Paese come il Mali nella sua crisi esistenziale: il conflitto fra centro e periferia.

Quanto potere e risorse dà la capitale alle regioni, alle province e ai comuni? Come possono i componenti sociali produrre una cultura politica del benessere comune, se hanno vissuto lo Stato soltanto come sistema di favoritismo etnico? Come si può ancorare la democrazia nei Paesi poveri?

Proprio il Mali era davvero avanti su questa strada. All’inizio degli anni ’90, dopo la Primavera del Mali e la caduta della dittatura, il primo governo democraticamente eletto aveva incaricato una delle teste eminenti del Paese di introdurre una nuova struttura amministrativa, per distribuire più competenze e più mezzi verso il basso e verso l’esterno - anche nel Nord cronicamente sottosviluppato, dove i gruppi Tuareg ordivano rivolte. Ousmane Sy si chiama quell’uomo, in Mali lo chiamano il «Padre della decentralizzazione». Sy creò nuovi livelli amministrativi - regioni, circoli e comuni. Se gli si chiede perché ciononostante il suo Paese si trova in una condizione così miserevole, egli dice: «Non abbiamo portato a termine le riforme». Prima o poi il flusso dei mezzi è ristagnato, esaurendosi quasi completamente sotto l’ultimo presidente Amadou Amani Touré. Bamako divenne nuovamente idrocefala e quintessenza della corruzione. «Soprattutto al Nord», dice Sy, «che era sempre pressoché ingovernabile, e così si è formato un vuoto statale». E un territorio di contrabbandieri di droghe e sigarette, di islamisti militanti e di terroristi.

Il fallito progetto di federalismo ha preparato il terreno per il terrore islamico in Mali. Quanto più uno Stato rende difficile ai suoi cittadini identificarsi in esso, tanto più grande diviene lo spazio per l’estremismo religioso.

L’Europa non è stata di molto aiuto, con tutte le sue dichiarazioni retoriche, nella lotta alla corruzione e al malgoverno. In Mali era già sufficiente la facciata di votazioni regolari per conservare il continuo flusso di aiuti [europei] per lo sviluppo e con questo lo status quo. In altri Paesi la situazione appare simile. L’Etiopia, assistita da una crescita economica, ma autoritaria, è ancora la figlia prediletta degli aiuti per lo sviluppo, europei e soprattutto tedeschi. Lo stesso vale per l’Uganda, il cui presidente Yoweri Museveni da riformatore e modernizzatore si è mutato in autocrate. Si può continuare l’elenco.

In entrambi questi Paesi si può osservare bene quanto pericolosa sia una premessa occidentale alla «lotta contro il terrorismo»: essa invita formalmente le elite dominanti dei Paesi africani ai processi di riforma politica interna, ma soprattutto a congelare la lotta alla corruzione. L’Uganda è destinataria di ampi aiuti da parte dell’Occidente, ma realmente in una posizione di dipendenza. Museveni, il cui esercito su incarico delle Unioni africana ed europea combatte gli islamisti in Somalia, criticato sulla sua politica minaccia di ritirare prontamente i suoi soldati - e già si fa silenzio.

Questa tattica, di trasformare la dipendenza economica in un vantaggio politico, la si conosce fin dai tempi della Guerra Fredda. I cleptocrati e i dittatori dell’Africa padroneggiano perfettamente l’arte di giocare l’una contro l’altra le superpotenze con i loro paraocchi ideologici e di cementare il proprio potere grazie agli aiuti umanitari e militari. A quel tempo dal punto di vista europeo si sarebbe potuto cinicamente affermare: «Non è bello, ma non è neanche il nostro problema». Oggi l’Europa non può più permettersi questo atteggiamento. Nel peggiore dei casi ciò contribuisce ad accumulare problemi tali che in momenti successivi fanno pensare di dover sganciare bombe.

Non vi è alcuna grande strategia, vi sono molti piccoli passi

Anche questa è una delle scomode convinzioni che l’Eurafrica porta con sé. Le elite africane non furono mai marionette, bensì sempre protagonisti indipendenti con interesse al potere. E oggi lo sono più che mai. Entrambe le immagini, descritte all’inizio, di un’Africa doppia sono veramente precise - quella del continente delle crisi e l’altra del continente dello sviluppo. E in tempi di crisi finanziaria, che anche nei Paesi europei spalancano la questione della legittimazione statale, i ruoli del datore e del prenditore non sono più incisi nella pietra.

Al vasto pubblico alcuni mesi fa è sfuggito il significato simbolico di una fervida richiesta del primo ministro portoghese all’Africa. Là egli ha pregato insistentemente l’Angola, potenza petrolifera, di effettuare investimenti nel suo Paese devastato dalla crisi. Banche angolane fanno ora acquisti presso banche e imprese statali portoghesi, mentre disoccupati portoghesi ottengono posti di lavoro in Angola. Quasi esattamente mezzo secolo dopo l’inizio di una guerra per l’indipendenza il rapporto fra l’ex colonia e l’ex potenza coloniale si è ora capovolto: l’Angola fa il boom, il Portogallo chiede l’elemosina.

Naturalmente l’Europa rimane pur sempre l’Unione di Stati economicamente e politicamente più potente rispetto al labile amalgama dell’Unione Africana. Ma quanto precede indica che i rapporti di forza si sono spostati e che adesso, mentre la mutevole interdipendenza dei due continenti diventa evidente, le possibilità di influsso dell’Europa si riducono.

L’alternativa? Un’unica, nuova dottrina di politica estera per i rapporti fra i continenti non vale ormai più. Molto più è di aiuto una mescolanza fra auto moderazione e consequenzialità politica.

Negli anni scorsi proprio la Germania ha costituito una rete politica in materia di prevenzione civile delle crisi. Soltanto che a Berlino la materia viene trattata come truppa di riserva di terza linea, non come schieramento principale. In questo Berlino avrebbe, particolarmente ora, una buona occasione di constatare con gli altri partner europei quali cattive abitudini di politica estera indeboliscono ulteriormente i Paesi [africani] traballanti. Prezzi di mercato mondiale per i prodotti agricoli, tenuti artificialmente bassi, che tengono i contadini del Mali nella povertà, non contribuiscono a stabilizzare un Paese comunque fragile.

Lo stesso vale per l’incessante boom delle materie prime (il Mali è il terzo esportatore del mondo di oro), che inasprisce la frattura fra povero e ricco e non dà segni di diminuire. Vi è anche una forma di dissesto dello Stato, se le corrotte elite africane (non più tanto numerose quanto un tempo, ma pur sempre troppe) parcheggiano indisturbate il loro bottino sottratto alle casse dello Stato sui conti nelle banche svizzere o lo possono investire in costosi immobili del VI. arrondissement a Parigi.

Nei confronti della politica africana della Francia François Hollande non è così ipocrita come lo erano il suo predecessore Nicolas Sarkozy o il suo compagno di partito socialista François Mitterrand. Ma le vecchie cattive usanze si mantengono a lungo - e fanno parte anche dell’ordine del giorno bilaterale fra Berlino e Parigi, se adesso la Francia (a ragione) richiede maggior sostegno tedesco in Mali.

Resta ancora un punto centrale, sul quale l’Europa può acquisire diretta influenza e che gli stessi dirigenti del Mali discutono malvolentieri: il radicalismo religioso non è stato portato in Mali soltanto da Al-Qaeda. La maggioranza della popolazione rifiuta un Islam di conio wahabita, che tuttavia è visibile da tempo nel Paese grazie alle sovvenzioni da parte dell’Arabia Saudita. Anche questo appartiene all’attuale ventaglio di crisi africano: persistente predicazione religiosa dal Medio Oriente negli Stati africani con alta quota di popolazione musulmana.

Naturalmente questo pot-pourri di omissioni e di opzioni politiche non apporta alcuna grande strategia, ma potrebbe essere di aiuto per la prevenzione di crisi future. Anche in Mali, la cui popolazione per il momento può tirare il fiato, perché gli islamisti sono respinti. Nello stesso tempo deve anche prepararsi al pericolo di attacchi terroristici.

Ousmane Sy, il «padre della decentralizzazione incompiuta», d’altra parte ha formato fino a poco tempo fa molti giovani, il cui compito in tutto il Paese è discutere con i cittadini su quali prestazioni, quali comportamenti possono aspettarsi, ma devono anche esigere dallo Stato. Il progetto si chiama Certification des citoyens, la “pagella” dei cittadino sullo Stato. Ora esso deve attendere. Sy è ritornato nella confusione della politica del Mali e dirige ora l’ufficio del presidente transitorio Diancounde Traoré. È l’uomo che il 10 gennaio ha richiesto ufficialmente all’ex potenza coloniale francese l’aiuto militare. Il certificato dei cittadini sullo Stato dovrà aspettare.

Faro nel deserto

La cattura di ostaggi nell’impianto gasiero algerino di In Amenas aveva un obiettivo. I terroristi volevano ottenere il ritiro dei soldati francesi dal Mali. Non ci sono riusciti. Quindi hanno già annunciato nuovi attacchi: «Confermiamo che tutti i fratelli musulmani non devono [andare a lavorare] nelle aziende e negli impianti stranieri... noi mettiamo in guardia tutti gli Stati che partecipano alla crociata contro la regione di Azawad (nel Nord-Mali, ancora in mano agli islamisti)».

Rinnegati

Questa dichiarazione proviene dalla «Brigata Al-Mulathamin» - un nome quasi del tutto sconosciuto, ma che identifica un gruppo di militanti jihadisti che si rapportano alla criminalità organizzata e sono da prendere sul serio. In effetti si tratta di una sorta di raggruppamento di rinnegati, fuoriusciti dall’organizzazione terroristica Al-Qaeda. Il loro capo, Mokhtar Belmokhtar, a 19 anni si era aggregato ad Al-Qaeda. Più tardi ha collaborato a fondare la filiale di Al-Qaeda in Nordafrica. L’anno scorso venne buttato fuori pubblicamente, probabilmente perché non voleva abbandonare il traffico di droghe.

Base Gao

Il rapporto di Belmokhtar con i suoi ex compagni di lotta non è del tutto chiaro. È verosimile che Belmokhtar operi per proprio conto, ciò che non esclude alleanze temporanee con altre organizzazioni terroristiche nella regione. Le truppe di Belmokhtar sono esigue, in parte avvezze alla lotta, e sono un bacino di raccolta per combattenti di diversi Paesi. Secondo fonti algerine soltanto uno dei sequestratori era algerino. Questo è davvero inverosimile - ma non lo è il fatto che fossero coinvolti anche egiziani, maliani, mauritani e due canadesi. La base della brigata, il cui nome significa «gli incappucciati», si presume si trovi a Gao, in Mali. Si dubita che il gruppo possa veramente mandare a effetto attacchi [terroristici] in Francia. Presumibilmente gli mancherebbero le risorse. Ma lo si può credere capace di azioni contro impianti dell’Occidente siti in Nordafrica. L’intervento francese in Mali rende più verosimili le aggressioni: occorre tenerne conto fin dall’inizio.


SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:

TUNISIA, EGITTO, LIBIA: IL GRANDE CAMBIAMENTO E LA CECITA’ DELL’OCCIDENTE. Una riflessione di Kurt Volker e una di Pino Arlacchi


Rispondere all'articolo

Forum