L’ultimo oltraggio del barbaro Alarico: è lite sul museo
«Saccheggiò Roma». «No, è storia». Cosenza divisa
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 03.07.2013)
«Raccolta, pertanto, una schiera di prigionieri in catene, scavano in mezzo all’alveo il luogo della sepoltura, tumulano Alarico nel centro della fossa con molte ricchezze, riportano il fiume nel suo alveo e, affinché il luogo non sia riconosciuto da alcuno, uccidono tutti gli scavatori». Così il De origine actibusque Getarum di Jordanes, scritto verso la metà del V secolo d.C., descrive la sepoltura nel letto del «Busento presso la città di Cosenza» del condottiero dei Visigoti che nel 410 aveva saccheggiato Roma. Uno degli eventi più traumatici del mondo antico.
Qualche tempo dopo, Paolo Diacono confermava: «I Goti, deviando il fiume Busento dal suo alveo con il lavoro dei prigionieri, seppelliscono Alarico con molte ricchezze nel mezzo dell’alveo e restituendo il fiume al proprio corso, uccidono i prigionieri che avevano partecipato, affinché nessuno potesse rilevare il luogo». Che senso ha che i nipoti di quei poveretti massacrati ricordino in pompa magna il massacratore?
La polemica, che va avanti da tempo, è stata riaccesa giorni fa da un annuncio del sindaco di Cosenza Mario Occhiuto: recuperati 7 milioni di euro, il vecchio e brutto hotel Jolly sta per essere abbattuto. Dopo di che, risanata l’area, sarà costruito un museo in onore di quel barbaro nato nel delta del Danubio che dopo avere comandato per conto di Roma le truppe mercenarie in Pannonia, si rivoltò contro l’impero e finì per marciare sulla città eterna e devastarla per poi calare con le sue truppe verso la Sicilia. Fermato solo dalla morte causata, pare, dalla malaria.
Come ha visto riapparire «il fantasma di Alarico», che «sembrava fosse tornato a riposare per sempre» dopo le improvvide celebrazioni del 2010 in occasione del 16º centenario, lo storico Antonio Battista Sangineto, alla testa di altri concittadini perplessi, è saltato su indignato: «Perché festeggiare un invasore, saccheggiatore, violentatore, assassino, ma, soprattutto, perché celebrare, intitolando loro una piazza, persino quei Visigoti che trucidarono, 1600 anni or sono, centinaia di nostri progenitori?».
Che Alarico sia un mito per altri, per carità, è comprensibile. Si pensi alla poesia di August von Platen tradotta da Giosuè Carducci: «Cupi a notte canti suonano / Da Cosenza su ’l Busento, / Cupo il fiume gli rimormora / Dal suo gorgo sonnolento. // Su e giù pe ’l fiume passano / E ripassano ombre lente: / Alarico i Goti piangono / Il gran morto di lor gente».
Ma la fama mondiale di cui gode il barbaro Alarico, «in particolar modo fra quei suoi discendenti tedeschi che hanno ripreso a disprezzarci», accusa Sangineto, «non può costituire la spinta propulsiva, il riferimento culturale e identitario di un progetto museale che attragga turismo culturale». Non sarebbe il caso, piuttosto, di «risvegliare nell’anima dei calabresi la capacità di riconoscere la bellezza e l’armonia dei monumenti, delle città e dei paesaggi»?
Un’obiezione sacrosanta. Che già aveva spinto lo storico a scrivere Alarico e la piccola borghesia, un saggio contro l’appropriazione incolta di quel personaggio storico defunto per caso in Calabria: «Cosa spinge, oggi, un gruppo di cosentini a costituire un’associazione intitolata Circolo Alarico, un centro di analisi cliniche, un ristorante, una società di distribuzione dei farmaci e una pizzeria dedicati al condottiero goto, manco fossero tutti romantici prussiani, nostalgici di un rimpianto splendore barbarico?».
E giù numeri, fatti, episodi, per ricordare come l’Europa, travolta la civiltà romana, fosse piombata nel buio (e qui qualche storico non sarà d’accordo) del medioevo. Al punto che perfino l’uso della scrittura, «diffusissimo in età romana», finì per perdersi tanto che «addirittura Carlo Magno, secondo il suo biografo Eginardo, teneva sotto il letto alcune tavolette per potersi esercitare a padroneggiare l’alfabeto, fra VIII e IX secolo d.C.»
Al di là del caso di Alarico, però, secondo lo storico, esisterebbe un problema di fondo: la «sindrome di Stoccolma collettiva» dovuta alla perdita della memoria storica. Marcata fisicamente anche dai disastri paesaggistici degli ultimi decenni: «L’abitudine alla bruttezza dei luoghi genera disarmonia, incuria e disordine, incapacità di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto».
Ed ecco, insieme con la rivendicazione dell’identità che «si traduce nelle sagre della polpetta o della patata, nei palii meta-medioevali o nelle fiere strapaesane» e mai nel rispetto e nel recupero dei propri tesori storici e culturali, l’esaltazione acritica di questo e quel personaggio del passato, dove l’uno vale l’altro. Come Dorghut Rais, noto ai calabresi come Dragut, che fu Viceré di Algeri e Signore di Tripoli e saccheggiò San Lucido e Paola. O il calabrese Giovanni Dionigi Galeni, nato a Isola Capo Rizzuto, che dopo essere stato rapito dai saraceni ed essersi convertito prendendo il nome di Ulug Alì Ucciali diventò generalissimo e governatore di Tripoli e Tunisi e partecipò, da nemico dell’Occidente, alla battaglia di Lepanto: due uomini che «parrebbero non avere alcuna relazione con Alarico se a Dragut non avessero intitolato un ristorante a San Lucido, il paese da lui devastato, e se a Uccialì non avessero eretto una statua nella piazza principale, a lui intitolata, di Isola Capo Rizzuto».
E torniamo al tema: «Perché Alarico e gli altri invasori hanno avuto tanta fortuna presso i discendenti di coloro che da essi sono stati invasi, tratti in catene, violentati, saccheggiati, derubati, orribilmente torturati, trucidati? Cosa spinge la psicologia collettiva di un popolo a identificarsi, pur se parzialmente, con i propri carnefici?». Se ne stupì, un secolo e mezzo fa, anche Alexandre Dumas. Meravigliato che l’unico albergo di Cosenza fosse stato chiamato «Al riposo di Alarico». Con il nome, annotò lo scrittore francese, «del depredatore del Pantheon e del distruttore di Roma».
L’unica spiegazione, nel caso del re dei visigoti, è forse nelle leggende intorno al favoloso tesoro che sarebbe stato con lui sepolto. Per secoli l’hanno cercato in tanti: archeologi, storici, cultori dei miti antichi, versioni varie di Indiana Jones e perfino Heinrich Himmler, di passaggio in Italia, volle spingersi fino a Cosenza (dove le cronache ricordano che salutò «romanamente» il fiume) per informarsi meglio sulle ricerche di una studiosa francese, Amélie Crevolin, convinta di aver individuato infine il luogo della misteriosa sepoltura. Una delusione. Così come restò deluso, nella primavera del 1965, il signor Adolfo Greco, di professione rabdomante. Che comunicò al mondo la sua scoperta: il tesoro l’aveva individuato lui. Col bastone biforcuto. Ma, ahimè, nessuno lo prese sul serio...
La tomba nel Busento
di August von Platen
(Traduzione di Giosuè Carducci)
Cupi a notte canti suonano
Da Cosenza su ’l Busento,
Cupo il fiume li rimormora
Dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pe ’l fiume passano
E ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono,
Il gran morto di lor gente.
Ahi sì presto e da la patria
Così lungi avrà il riposo,
Mentre ancor bionda per gli ómeri
Va la chioma al poderoso!
Del Busento ecco si schierano
Su le sponde i Goti a pruova,
E dal corso usato il piegano
Dischiudendo una via nuova.
Dove l’onde pria muggivano
Cavan, cavano la terra;
E profondo il corpo calano,
A cavallo, armato in guerra.
Lui di terra anche ricoprono
E gli arnesi d’òr lucenti:
De l’eroe crescan su l’umida
Fossa l’erbe de i torrenti!
Poi, ridotto a i noti tramiti,
Il Busento lasciò l’onde
Per l’antico letto valide
Spumeggiar tra le due sponde.
Cantò allora un coro d’uomini:
— Dormi, o re, ne la tua gloria!
Man romana mai non vìoli
La tua tomba e la memoria!
Cantò, e lungo il canto udivasi
Per le schiere gote errare:
Recal tu, Busento rapido,
Recal tu da mare a mare.
Cosenza
“Quel tesoro è una farsa”
II sogno di Alarico spezzato dal ministero
Da Roma no agli scavi voluti dal sindaco, che protesta: “Vogliono affossare il mio progetto”
di Alessia Candito (la Repubblica, 16.11.16)
Niente caccia al tesoro finanziata con soldi pubblici. Il ministero dei Beni culturali è stato chiaro. Il tesoro di Alarico è una leggenda e la soprintendenza di Cosenza non deve spendere uomini e mezzi per dare la caccia ai fantasmi. Una delusione per il sindaco Mario Occhiuto, che al fantomatico bottino di ori e argenti sepolto forse insieme al re dei Goti nel 408-410 a.c, nei pressi dei fiumi Crati e Busento, ha sempre creduto. Ma soprattutto ha sempre sperato di riuscire a trovarlo, per trasformarlo in un brand che desse lustro alla città. Un sogno, divenuto progetto amministrativo, che lo tiene impegnato da tempo e in cui ha coinvolto anche il soprintendente dei beni culturali di Cosenza, Mario Pagano, che - entusiasta - qualche mese fa ha firmato una convenzione che coinvolge il suo ente in una nuova campagna di scavi.
Peccato che per storici e storiografi il tesoro sia poco più di una leggenda e non esista traccia attendibile della sepoltura del re dei Goti in Calabria. L’unico a parlarne - ricordano - è Jordanes, che a 150 anni dalla morte di Alarico riprende quanto scritto al riguardo da Cassiodoro. Un po’ poco - sostiene la comunità scientifica - per dare il via a una fantasiosa campagna di scavi, mentre il centro storico langue in attesa di interventi. Dello stesso parere sembra essere il direttore generale del ministero dei Beni culturali, Caterina Bon Valsassina. Con una lettera durissima, la dg ha intimato l’immediato stop a qualsiasi forma di collaborazione, invitando il soprintendente Pagano a dedicarsi a ben altre attività, come una relazione sulla «situazione dei beni architettonici, storico- artistici e paesaggistici del territorio di competenza».
Una bocciatura senza appello, che al sindaco non è andata giù. Lui al tesoro crede davvero e lo vuole trovare. Al progetto, lavora quanto meno dal 2012, quando in accordo con il consorzio Cultura e innovazione, presieduto dall’ex ministro dei trasporti Alessandro Bianchi, ipotizzava di allestire sezioni dedicate ad Alarico e al suo tesoro all’interno del Museo dei Bretti. Senza reperti però, perché mai ne sono stati trovati. Negli anni a seguire, per volontà del sindaco sono arrivate iniziative, dibattiti, monete di cioccolata sul fantomatico tesoro, un’imbarazzante brochure dell’amministrazione che ricorda la passione che per Alarico aveva il capo e ideologo delle SS Heinrich Himmler, il progetto di un museo da 7 milioni di euro e infine una prima campagna di scavi: iniziata e finita nel giro di due giorni perché le ricerche sono partite senza nessuna autorizzazione. Semplici intoppi per Occhiuto, che ha dovuto aspettare un anno ancora. Al sovrintendente Pagano invece l’idea della caccia al tesoro è piaciuta, tanto da firmare una convenzione che non solo autorizza scavi e ricerche, ma assicura persino uomini, mezzi e collaborazione. O almeno si riprometteva di farlo prima che dal ministero arrivasse questo secco stop. Ma neanche questo ha fatto rassegnare il sindaco. Per lui è tutto un complotto. Per questo si è rivolto a Franceschini.
È convinto - si legge in una nota ufficiale - che «si stia tentando di inquinare in modo surrettizio una progettualità tanto ambiziosa, sulla base di interesse politico di infimo livello, nonché sulla base di ottusità divulgate da una minoritaria parte di un mondo accademico». Dal ministro, Occhiuto vuole un via libera alla sua “caccia al tesoro”, del resto - ricorda - già sdoganata dal sottosegretario ai Beni culturali Dorina Bianchi. Contagiata dalla passione per Alarico, Bianchi ha pubblicamente auspicato che «la ricerca della tomba del re dei Goti di Alarico diventi un progetto sperimentale e innovativo per l’analisi capillare del territorio ». La medesima ricerca che negli stessi giorni il suo ministero bocciava. A Franceschini l’ardua sentenza.
Eppure soffia dal fiume lo spirito di Alarico
Alle porte di Cosenza aleggia ancora la leggenda del re dei Visigoti e del tesoro sepolto con lui nel letto del Busento. Ricercato anche dai nazisti
di Mimmo Gangemi (La Stampa, 26.10.2015)
Il Busento sgorga dagli intestini del monte Scudiero, nelle serre cosentine. Scende irrequieto, frusciando un lamento metallico che rimbalza sui costoni scoscesi da cui è compresso. Si tormenta di schiuma sui massi in fondo alle strette gole erose con il paziente lavorio di millenni. Sembra aver fretta di raggiungere il mare, la grande acqua a cui ogni fiume aspira, il rifugio dove trovare quiete, scivolando dentro a esserne parte. Presto il piano ne placa gli ardori. Diventa una striscia che scorre lenta, placida e serpeggiante nell’alveo prima disseminato di rocce e ora una lingua di terra cosparsa di ghiaia, verdeggiante di erbe radenti il suolo, di steli di ginestre con i fiori gialli di primavera, di robinie, e di canneti, con le pannocchie piumose in cima, che talvolta si ergono compatti nelle piccole dune imprigionate a diventare isolotti, per l’acqua che si sparte in due direzioni e si ricompone poco giù.
Ha fretta e voglia di mescolarsi al mare, il Busento. Non riesce però a raggiungerlo. Muore alle porte di Cosenza vecchia, dentro il Crati ancora giovane ma già vigoroso, che spancia la terra pochi chilometri più su, dai fianchi del Timpone Bruno, Sila Grande. Degradandosi a piccolo affluente che ne accresce appena la portata. Nel confondersi con il Crati, ne subisce la prepotenza, si contorce in lievi increspature nemmeno capaci della protesta di un’onda e prosegue sconfitto e irriconoscibile dentro l’altro che punta a Nord, devia a Est e si fa infine accogliere dallo Ionio, nella Piana di Sibari, senza che questo possa ormai distinguere le acque limpide e fresche già nelle viscere del monte Scudiero.
25 tonnellate d’oro
Mai si guadagna dignità di fiume, il Busento. Nelle estati seccagne quasi scompare, d’inverno si allarga e ulula solo quando lo rinvigoriscono le forti piogge. È però decorato di storia e di leggende. Perché nel suo letto fu sepolto nel 410 Alarico, il re guerriero dei Visigoti, proprio in prossimità della confluenza nel Crati. Il 24 agosto dello stesso anno Alarico s’era macchiato del sacco di Roma - il secondo, ché il primo fu opera di Brenno e dei suoi Galli, nel 390 - consumando un tradimento, e ingratitudine, per essersi lasciato scivolare addosso la salvezza che gli concesse l’imperatore Teodosio, l’ultimo a regnare sull’impero unificato, quando era circondato dall’esercito del generale Stilicone.
Alarico imperversò su Roma per tre giorni e sottrasse tutti i tesori. Dopo, si diresse verso le Calabrie, con un bottino di 25 tonnellate d’oro e 150 d’argento. A Reggio allestì una flotta con l’intento di raggiungere le coste africane e conquistare le colonie romane. Le navi furono inghiottite dalla furia del mare quando già erano pronte per salpare. E Alarico decise di risalire di nuovo la penisola. Contrasse la malaria lungo il percorso tra gli acquitrini malsani emersi per l’incuria che cresceva assieme alla debolezza di Roma e morì in pochi giorni, nei pressi di Cosentia, l’attuale Cosenza, lì dove il Busento e il Crati si fondono in uno.
La tomba segreta
Raccontano le cronache che, avvertendo il tanfo della morte, abbia chiesto di essere sepolto nel letto del Busento, per avere addosso l’acqua degli anni giovani e felici, lungo le sponde del suo Danubio: centinaia di schiavi deviarono il corso del torrente, scavarono una buca profonda, vi alloggiarono l’immenso tesoro e il corpo del re, in groppa al suo cavallo e in assetto da battaglia, ricoprirono e restituirono il fiume al percorso naturale; gli schiavi furono poi uccisi, perché non divulgassero il segreto e non si corresse il rischio della profanazione.
La tomba di Alarico fu cercata per secoli - ci provarono anche i nazisti. E mai trovata. Forse perché la sua posizione non è quella giunta di voce in voce fino a noi e, a ragionarci su, nemmeno è granché credibile: a Cosentia, già città attiva, importante nel commercio per la felice posizione lungo la Via Capua-Rhegium, il luogo della sepoltura non sarebbe potuto passare inosservato, nonostante gli accorgimenti per tenerlo nascosto. È invece più attendibile un’altra località. Non nel letto dove giace il Busento, ma più su, tra Mendicino e Carolei, in un’altura a ridosso del Busento stesso, dove questo trascina acque fredde, è ancora un fanciullo, si annida e scende tumultuoso tra gole strette e profonde ed è incupito dalle ombre che i monti intorno gli gravano addosso.
Sulle sommità di un rilievo, non appena i ripidi costoni a ridosso del fiume si liberano della fitta selva di sterpaglie, grovigli di rovi e robinie e si arrendono alle nudità delle rocce di una tenue tinta rosa, si aprono due caverne naturali, a pochi metri una dall’altra. Varcato l’ingresso, s’impatta nel lavoro di scavo dei tombaroli: le rigature dei colpi di piccone, i segni dello scalpello, della pala e della mazza, i buchi scavati ovunque. Nella prima apertura c’è un piccolo e rustico altare, sagomato nella parete dal tenace impegno dell’uomo. Pure nella seconda si notano tracce delle ricerche effettuate - qui pare anche abbia consumato i suoi giorni un eremita.
Strani fenomeni
Su entrambe si mormorano racconti da non dormirci la notte: di torce che si spengono senza che aliti un soffio di vento, della furia metallica della spada di Alarico che sorge improvvisa e rimbomba nel traversare la caverna, del nitrito di un cavallo che colma assordante la volta e si consuma appena all’aria, un passo dentro c’è, un passo fuori no.
Sulla montagna di fronte, nella roccia è incisa una grande croce. È la natura che si diverte con gli uomini? O è una traccia voluta lì dal Cielo per proteggere la sacralità del luogo, per ammonire a non infrangere il riposo eterno del re guerriero? Il biondo e possente Alarico e la sua tomba introvabile hanno ispirato August von Platen-Allermunde per la poesia Gram im Busento, tradotta in italiano dal Carducci. «Dormi, o re, nella tua gloria! / Man romana mai non violi / la tua tomba e la memoria!».