Vittorio Foa, voce critica
e alta della sinistra italiana
Politico, giornalista e scrittore
ROMA Nato il 18 settembre 1910 a Torino da una famiglia di origine ebraica, Vittorio Foa nel 1931 si laurea in Giurisprudenza e nel 1933 entra nel movimento di Giustizia e Libertà. Inizia così un periodo di attiva cospirazione e di forte impegno politico contro il regime fascista. Il 15 maggio 1935, all’età di 25 anni, viene arrestato su segnalazione di un confidente dell’Ovra (la polizia segreta fascista) e denunciato al Tribunale Speciale che lo condanna a 15 anni di reclusione, che sconterà nel carcere di Civitavecchia, assieme ad Ernesto Rossi, Enrico Bauer e Massimo Mila. Esce dal carcere il 23 agosto 1943, all’età di 33 anni. Il governo Mussolini era caduto il 25 luglio, ma solo dopo gli scioperi di Milano e Torino e le pressioni dei partiti antifascisti, il maresciallo Badoglio si decide a liberare Foa e i suoi compagni.
Dal settembre del 1943, raggiunta la libertà, partecipa attivamente alla Resistenza come dirigente del neonato Partito d’Azione. Il 2 giugno 1946 viene eletto deputato all’Assemblea Costituente e diventa membro della «Commissione dei 70». Gli art. 39 e 40 della Costituzione, che riguardano la libertà e organizzazione sindacale e il diritto di sciopero, in aperta antitesi con i valori fascisti, sono anche opera sua. Nel 1948 entra nella Cgil con incarichi di direzione dell’ufficio economico. Nel 1953 viene eletto deputato nelle liste del Partito Socialista: sarà confermato a tale carica altre due volte (1958 e 1963). Nel 1955 diventa segretario nazionale della Fiom e nel 1957 entra nella segreteria nazionale della Cgil: sarà un dirigente sindacale di lungo corso e molto ascoltato, sia nelle vesti di «massimalista» che di «riformista».
Nel 1964 partecipa alla prima scissione «da sinistra» del Psi e diventa uno dei principali animatori, con Lelio Basso, del partito che da quella scissione nasce, il Pspiup, che abbandona alla fine degli anni Sessanta per buttarsi nella fondazione di una nuova formazione politica questa volta a sinistra del Pci, il Pdup, ma parteciperà poi anche alla nascita della Nuova sinistra unita. Ambiti diversi e lontani tra loro e una capacità «libertaria» di cambiare punto di vista fuori dalle logiche di partito, stante che l’antifascismo e il socialismo saranno sempre, per Foa, un modo di pensare, agire, vivere. Un itinerario, dunque, che appare ondivago e apparentemente incoerente, ma permette a Foa di essere in prima fila nel cuore della storia recente: dalle lotte operaie del boom economico al 1968, dai movimenti della nuova sinistra post-sessantottina alla condivisione della «svolta» del Pci e alla vicinanza con Pds e Ds prima e con l’Ulivo poi, Foa si schiera sempre con ciò che ha le sembianze dell’innovazione. La curiosità, in lui, diventa metodologia politica e perfino esistenziale. Ma alla fine degli anni Settanta decide di lasciare gli incarichi sindacali e politici per tornare agli studi e alla libertà della ricerca: insegna Storia Contemporanea nelle Università di Modena e di Torino, studiando la storia e le lotte movimento operaio in numerosi volumi. Sono gli «anni del silenzio».
Alla fine degli anni Ottanta Foa torna a partecipare attivamente alle discussioni in atto nella sinistra italiana che sfociano nella «svolta» di Achille Occhetto del 1989 che segna la fine del Pci e la nascita del Pds. Il Pci si divide e Foa, che comunista non è mai stato (anzi: era sempre stato in polemica con il Pci), viene eletto senatore nelle fila del Pci-Pds (1987-1992). Da allora si ritira a vivere a Formia (Latina), con la sua compagna Sesa Tatò, che ha condiviso con lui tutta una vita. Una delle sue ultime immagini pubbliche sono quelle del palco di piazza San Giovanni a Roma il 14 settembre 2002, alla manifestazione dei «girotondi». L’ultranovantenne Foa, con una frase a effetto («Non vi vedo, ma vi sento. Voi mi date speranza») afferma la necessità di «esserci» ancora, nonostante i problemi alla vista. Anche all’ultimo congresso di Pesaro dei Ds (2002) e alla convention di nascita della lista unitaria (2004) i videomessaggi di saluto di Foa commuovono e fanno pensare, oltre a suscitare entusiasmo, non solo in quanto testimone di un secolo e decano della politica ma perché forte di una curiosità laica e intellettuale che gli ha sempre permesso di mettersi in ascolto e cercare di capire il nuovo, non contrapponendovi né la propria formazione politica d’altri tempi né un’ideologia inflessibile.
Da questa versatilità e acutezza derivano le sue originali annotazioni su Internet, sulla modernità della scienza che può arrivare a modificare l’uomo, sul bisogno incessante di comunicare con gli altri per capire e cambiare se stessi. Foa ha pubblicato, tra l’altro, presso Einaudi, Il Cavallo e la Torre. Riflessioni di una vita (1991), Questo Novecento (1996), Lettere della giovinezza (1998), Il tempo del sapere. Domande e risposte sul lavoro che cambia (con A. Ranieri, 2000), Passaggi (2000), Il silenzio dei comunisti (2002). L’ultima sua opera è La memoria è lunga (Einaudi, 2003), libro di 80 pagine e video di 50 minuti. Nei suoi scritti recenti Foa si arrovella sull’interrogativo «Perché la destra ha vinto le elezioni?», ricorda in modo nitido e commosso gli amici Norberto Bobbio, Massimo Mila, Ernesto Rossi e molti altri, spiega perché l’unità in politica deve sempre concepirsi tra diversi e mai come appiattimento, ha lo sguardo costantemente rivolto al futuro e alla contaminazione con diversi punti di vista, oppone il rifiuto etico a una visione della politica ridotta a contrattazione privata, riflette sulla pericolosa irrilevanza del linguaggio che diventa disimpegno etico. In Un dialogo (Feltrinelli), libro-conversazione con lo storico Carlo Ginzburg (2003), s’interroga sui rapporti tra socialisti, militanti del Partito d’azione e Pci evidenziando un eccesso di silenzio benevolo nei confronti dei rapporti tra il partito di Togliatti e l’Unione sovietica. Silenzio che ha riguardato lui stesso, facendo prevalere le ragioni dell’unità sulla necessità della denuncia. Parole che indagano e fanno discutere, le sue, come dimostra questa rassegna tratta da alcuni dei suoi scritti più recenti e autobiografici.
* La Stampa, 20/10/2008 (15:44)
IL PARADIGMA ANTIFASCISTA (Intervista a cura di alisia Poggio, 2001)
Il testamento politico di Foa
La memoria e il futuro
La nuova introduzione a "Questo novecento" scritta prima della scomparsa
L’intellettuale "voce" della sinistra decise di fare l’ultima versione nel settembre 2008: qui ne anticipiamo un brano
Il racconto, da protagonista e testimone della politica italiana, dall’inizio del secolo fino agli anni Novanta
di Vittorio Foa (la Repubblica, 21.04.2009)
Con la memoria della Shoah abbiamo imparato a celebrare non soltanto chi cade in guerra ma chi è vittima innocente, il civile. Possiamo ricordarne i nomi e le età e celebrare in una memoria carica di insegnamento la morte di chi non immaginava di morire.
Con il 1945 abbiamo ricostruito il sistema dei partiti, per seguire l’esempio dei paesi vincitori e anche per riallacciarci al passato, dopo vent’anni di soppressione dei partiti. Ma successivamente i partiti hanno lasciato troppa insoddisfazione.
Mi sembra che esista un fenomeno dai tempi lunghi: una destra profonda che prende le forme più varie, a volte persino forme di sinistra. Le forme della destra profonda possono essere nazionaliste, militariste, razziste, fasciste, o puramente liberistiche. In tutti questi casi la chiusura nel proprio particolare, nella famiglia e il proiettare il rapporto con il mondo sulla propria particolarità diventano dominanti.
Le lotte politiche fra i partiti socialisti, comunisti e democristiani si susseguirono per anni, fin verso la fine del secolo, quella di cui stiamo ancora adesso vivendo gli esiti, che ha visto la fine dei partiti. Il partito socialista che aveva sperato di ereditare dai comunisti la loro base elettorale, è scomparso insieme con essi. L’Italia è l’unico paese in cui questo sia successo.
Il socialismo è in declino in tutti i paesi europei e non esiste negli Stati Uniti. Cosa vuol dire, che il socialismo non ci sarà più? Questa è la mia previsione, almeno per i prossimi anni. Negli anni Sessanta, una parte dei sindacati lasciò la dipendenza dalle confederazioni e scelse la linea dell’unità sindacale: lavorare insieme estendeva le possibilità di ricerca e inoltre portava a comprendere che il conflitto non nasce dalla miseria ma soprattutto dagli sviluppi comparativi. La linea dell’unità sindacale fu troppo presto abbandonata. Adesso abbiamo un’occasione: liberiamoci finalmente delle ideologie anche nel campo del lavoro. Ho ricevuto la visita di una delegazione della Cisl di Padova e Lorenza Leonardi mi ha chiesto, a quanto ho capito, se ero d’accordo che nella linea dell’unità sindacale, svincolato il sindacato dai partiti, non ci fosse più solo il contratto, ma anche tutto il resto, cioè la nuova povertà. Evidentemente sono d’accordo.
Alla fine del secolo ventesimo, i partiti politici che dal 1945 avevano sorretto la politica italiana sono scomparsi sotto un’accusa che era giusta, anche se non era sincera, cioè per il fatto che dipendevano da premesse ideologiche. La più profonda anomalia della situazione italiana è, a mio giudizio, quella della permanenza dei sindacati, ognuno dei quali riferito a una realtà che non esiste più: quella dei partiti con le loro ideologie. Possiamo sperare di unificare il lavoro superando le ideologie ormai vuote di significato dei vecchi partiti?
Possiamo sognare un’unità sindacale nella quale tutti i lavoratori possano confrontare le loro idee, le loro speranze, le loro sofferenze? Non so perché, ma mi sembra che l’unità sindacale alla quale io penso non unificherebbe soltanto la tecnica sindacale, ma andrebbe oltre. Nessun contratto sindacale risolve i problemi della felicità, neanche accenna a risolverli. Eppure la ricerca delle nuove povertà vuol dire la ricerca da parte del nuovo sindacato sul modo di vivere, sul modo di migliorare sul serio la nostra vita collettiva. Pensare alla fine del secolo ci costringe a sentirci più responsabili di quello che eravamo anche in passato, tutto va ripensato insieme con gli altri, bisogna pensare al futuro senza pensare soltanto a noi stessi. Dobbiamo sentirci diversi dal passato, se non riusciamo a fare questo finiremo per essere ancora poveri oltre che nei fatti anche nelle idee rispetto agli altri. Ecco perché, nel campo del lavoro e delle infinite ingiustizie che la sua realtà ci rivela, io credo all’unità dei lavoratori, alla forza che può derivare dal sentirsi uniti.
Nella seconda parte del secolo attraverso varie vicende ha prevalso la funzione centrista della politica. Voglio ricordare la figura emblematica di Togliatti, sinceramente doppia, come campione di difesa della democrazia italiana e come capo dell’Internazionale comunista. E poi quella di De Gasperi. Oggi non si parla più di politica, nessuno parla del futuro, tutto è una ricerca a sfruttare il presente. A volte ci sembra che la stessa politica sia fuori di ogni pratica possibilità, che non si possa più lavorare insieme per sé e per gli altri, per sé e per tutti.
Si potrebbe invece pensare, per quel che riguarda il futuro, in relazione all’eventuale mutamento della direzione politica americana a una diversa distribuzione delle risorse a livello mondiale e quindi a un diverso livello dei prezzi: l’apertura di una fase di interventismo sui prezzi potrebbe cambiare il quadro.
Torniamo dunque all’Italia, torniamo alle vicende di questo fine secolo che ha visto, a mio giudizio, la maggior parte delle persone ripiegarsi su se stesse: è possibile ricondurle ad un agire che abbia significato universale, a non pensare solo a se stessi e neppure solo agli altri, ma a pensare a se stessi insieme agli altri? Io credo profondamente nella possibilità per la mente umana di scegliere delle vie positive e non soltanto la via dell’egoismo. Possiamo aiutare questo sviluppo dell’umanità? C’è chi dice che potremmo utilizzare altri parametri, per esempio quello dei diritti umani, che è indipendente dalle nazioni, dalle religioni e dai partiti. È una prospettiva seducente, da approfondire.
Vorrei fare delle osservazioni sul paradosso eleatico. Tutti sono convinti che Achille vince la corsa con la tartaruga, ma tutti sanno che nessuno è in condizione di dimostrare la vittoria di Achille. Vi sono delle ragioni numeriche, relative al calcolo dell’infinito, che nessuno è riuscito a risolvere. Ma vi può essere anche una ragione più profonda: Achille è la guerra e la guerra produce altra guerra. In ogni caso Achille, ovunque si presenta, uccide, annienta e vince. Tuttavia non c’è totalitarismo che possa coprire ogni evento storico: Achille può uccidere da tutte le parti, ma la tartaruga è sempre lì, raccolta nei suoi piccoli e lenti passi, a riflettere sulle vicende del mondo e a sognare che alla guerra assoluta si possa rispondere con la pace.
Quando io sono nato, l’Europa era sul punto di scannarsi, divisa in nazionalismi contrapposti. Ed era al centro del mondo. La guerra ha significato anche l’inizio dell’abbandono della sua posizione centrale, con l’entrata dell’America in Europa. Oggi, non ci sono più frontiere e stiamo avviandoci verso l’unità. Ma l’Europa non è più centrale. Forse è un bene. Siccome credo profondamente nella libertà, non credo solo nella libertà di ciascuno di dire quello che pensa, ma credo anche nel fatto che le idee di ciascuno possano e debbano cambiare.
Ansa» 2008-10-20 17:16
Napolitano, posto d’onore nella storia d’Italia
"Partecipo con profonda commozione personale al generale cordoglio per la scomparsa di Vittorio Foa. Egli è stato senza alcun dubbio una delle figure di maggiore integrità e spessore intellettuale e morale della politica e del sindacalismo italiano del Novecento". Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel messaggio di cordoglio inviato alla famiglia di Foa. "La sua dedizione alla causa della libertà - prosegue il Capo dello Stato - cui pagò da giovanissimo un duro prezzo nelle carceri fasciste, la sua partecipazione alla Resistenza, il suo appassionato e illuminato impegno nell’Assemblea Costituente e nel Parlamento repubblicano, la sua piena identificazione - da combattivo dirigente della CGIL e da studioso - con il mondo del lavoro, gli hanno garantito un posto d’onore nella storia dell’Italia repubblicana. Egli ha dato prove esemplari del suo disinteresse e del suo rigore e ha vissuto i suoi ultimi anni con riserbo e sobrietà, rompendo in rare occasioni il silenzio per trasmettere messaggi sempre lucidissimi di fede nei valori democratici e costituzionali. Anche per il lungo rapporto di fraterna amicizia e di vivissima stima che a lui mi ha legato - conclude Napolitano - mi associo con affetto al dolore dei famigliari e di quanti gli sono stati più vicini".
Quel sorriso
di Concita De Gregorio *
Sembrava che ridesse sempre, anche quando parlava serio. Anche in questa foto qui sopra dove forse ride davvero, chissà, non è proprio un sorriso in effetti: è quel suo modo di stare al mondo con i pugni chiusi, la fronte alta, la coscienza limpida e nelle parole un dubbio, sempre. Alla fine di ogni frase una domanda, perpetua ricerca. Mai un lamento. Di tutti gli altissimi insegnamenti che Vittorio Foa, morto alla fine di un secolo irripetibile, ci lascia in dote questo che sembra un dettaglio mi pare stasera il più grande. Quel sorriso, diverso e lo stesso in tutte le foto e i ricordi. Ciò che in una vita come la sua un sorriso perpetuo significa: andare avanti, pensare agli altri, provare ancora, non chiudersi, non arrendersi, anche il dolore è un dono che porta sempre altrove, è un compagno e un amico. C’è dell’altro, dopo. Venite e vedrete.
Questo il lascito, questo quel che ciascuno dovrebbe provare a portare con sé. I più giovani specialmente. Quelli che non hanno avuto e non avranno la possibilità di sperare in un riscatto definitivo e radicale perché non hanno avuto quel passato e quel presente, non hanno avuto quella storia. Lo ascoltavano in un silenzio solido, infatti, i ragazzi. Sentivano bene la densità pesante - il monito - di quel sorriso al posto del pianto.
Una sera d’autunno di molti anni fa (è un piccolo ricordo, ce ne sono mille più emblematici ma si sa come funziona la memoria: seleziona gerarchie segrete) Foa si presentò nella sala della Società psicanalitica italiana a parlare ad una platea di giovani studiosi e di studenti di un tema intitolato “Il mestiere di un uomo libero”. Che la libertà sia un mestiere, una fatica da conquistare ogni giorno sarebbe stato già da solo materia di riflessione silenziosa: bastava il titolo. Parlò a lungo, per regalo. Sempre con quel sorriso che esibiva i denti radi, con gli occhiali troppo grandi e un po’ storti, il bastone da un lato.
Raccontò dei suoi anni in prigione: trasformò il carcere in un privilegio. Ne disse con leggerezza, con pudore e con semplicità. Fu chiaro - dopo pochi minuti, fu chiaro a tutti - come patire la galera fosse stato un modo, il modo scelto dalla vita, per andare incontro al futuro e decifrare il presente. Un’esperienza fortunatissima, sembra pazzesco no?, eppure proprio così, una risorsa per capire le cose, sentirle, andarci in fondo e che peccato per quelli che devono faticare tanto per arrivarci comunque, anche senza prigione, che sforzo dovete fare voi che non avete avuto questa stessa sorte ma non preoccupatevi, adesso ve lo racconto. Faceva solo domande: sembravano tutte risposte.
Alla fine rimase a lungo fuori, sul marciapiede che corre accanto al parco, di notte. I giovani gli chiedevano della sua vita, lui replicava informandosi della loro. Di cosa vi importa, per cosa vi arrabbiate? chiedeva. Non restate in silenzio, fate del silenzio una ricerca. E difatti in quella lettera che poi Ronconi ha messo in scena, in quel libro intitolato “Il silenzio dei comunisti” domanda a Miriam Mafai e ad Afredo Reichlin: «Cara Miriam, caro Alfredo, erano milioni in tutto il mondo e anche in Italia gli uomini e le donne che si dicevano comunisti: militanti, iscritti, elettori, simpatizzanti. In Italia pochi anni fa piú di un terzo dei cittadini si dicevano tali. Ora stanno in grande parte in silenzio, il loro passato è cancellato nella memoria. Sento acutamente, quasi come un’ossessione, questo silenzio. Tendono a scomparire i testimoni di un’esperienza e insieme si oscura un pezzo della nostra storia. L’anticomunismo a vuoto non è forse paura? Perché si ha paura? di che cosa? Il silenzio non è necessariamente un male. Da esso nasce la parola: nella parola si chiudono i problemi mentre nel silenzio essi restano aperti». Quale idea è rimasta vuota? Quale speranza? Il disegno di una società giusta? «Oppure, cosa ancora piú grave, il distacco è da un’identità, individuale o collettiva?».
L’identità, di questo parlava ancora negli ultimi giorni quando temeva per Obama, il sogno americano, e quando insisteva che certo bisogna coltivare il nostro, in Italia, e crederci, e costruirlo perché altra strada non c’è : alternativa non è data. Un ragazzo, sembrava. Con tutta la vita davanti, tutti i nostri ieri nel sorriso pieno di dolore e di coraggio.
* l’Unità, Pubblicato il: 21.10.08, Modificato il: 21.10.08 alle ore 10.32
Epifani & Foa: il filo rosso del lavoro
di Bruno Ugolini *
Pubblichiamo un articolo uscito su l’Unità del 21 febbraio 2006
Non è un dialogo tra il segretario generale della Cgil, e un vecchio reduce, una specie di «padre storico» del movimento sindacale. È un dialogo tra il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, e un giovane «organizzatore sindacale» senza timori reverenziali. Questo giovane di 96 anni si chiama Vittorio Foa. Il botta e risposta tra i due è rappresentato nel volume Einaudi Cent’anni dopo. Il sindacato dopo il sindacato. È uno dei tanti modi voluti dalla Cgil per celebrare non in modo retorico un secolo di storia, guardando al futuro. Ed è un colloquio serrato tra due socialisti, come sottolinea nella post fazione Guglielmo Ragozzino. Due socialisti, che non credono davvero alla tesi, spesso imperante, relativa al fatto che la sinistra non ci sarebbe più.
Essere a sinistra oggi - spiega Foa «vuol dire essere qui e anche altrove, vivere oggi e contemporaneamente domani, vuol dir agire per se e anche per gli altri». È un po’ la filosofia dell’anziano segretario della Cgil che ha mantenuto intatta la sua lucida intelligenza e il gusto della scoperta, della conoscenza, dell’ottimismo della volontà, per usare un’antica terminologia. È il filo conduttore delle cento pagine einaudiane ed è anche una non banale risposta a quelli studiosi che si vanno chiedendo a che cosa serva il sindacato. Con un altro segretario della Cgil che non si ritrae dal confronto, indotto ad approfondire i vari capitoli che formano, come un enorme puzzle, l’Italia di oggi.
Certo questo suo interlocutore, questo straordinario giovane-anziano, si muove spesso con aria sbarazzina e invita innanzitutto i compagni della sua Cgil a non essere conformisti, a conservare la propria autonomia di pensiero. E nel seguito della conversazione non mancano esempi di questa impostazione non burocratica. Come non erano mancati in altri libri di Vittorio Foa, pronto a rilevare, nel sindacato, pigrizie, mancanza di coraggio, adeguamento a certezze irremovibili. Erano stimoli, provocazioni che però cadevano spesso nel vuoto. La novità sta che ora il dirigente che ha vissuto gran parte della sua vita accanto a Di Vittorio, Santi, Lama, Novella, Trentin confronta le sue idee apertamente con l’attuale leader della Confederazione generale del lavoro. E trova spesso, risposte, approfondimenti, sintonie e contestazioni.
Come quando solleva un tema che rappresenta un tabù per il movimento sindacale. Lui che è stato tra le guide dell’azione che portò molti anni fa al disfacimento delle cosiddette «gabbie salariali», oggi fa notare come la identità dei salari rischi di essere solo nominale, perché il costo della vita varia da zona a zona e nel centro-sud, ad esempio i costi di affitti e prodotti alimentari sono inferiori. Con Epifani che osserva come però le famiglie meridionali magari hanno costi più alti, per poter usufruire di cure mediche o centri universitari specializzati, situati al nord. Oppure non possono recarsi per lavoro in località dove i servizi hanno prezzi impraticabili e godono, poi, di una minore possibilità di occupazione (e di reddito).
Sono temi che richiamano direttamente un argomento caro agli osservatori di tali problematiche. Quello del cosiddetto «nuovo modello contrattuale» che dovrebbe regolare i rapporti di lavoro. Con Foa che in sostanza invita ad un’«apertura», proprio per colmare le differenze cresciute nel Paese. Ed Epifani che spiega come queste, però, aumenterebbero se si accettasse l’idea di ridimensionare il contratto nazionale e misurare la produttività laddove si genera. Così si ridurrebbe la dinamica media delle retribuzioni, impoverendo ancora di più una parte consistente del mondo del lavoro. La via d’uscita per il segretario della Cgil sta invece nell’intervento di riforma del costo del lavoro, nella politica sociale (fiscale soprattutto), nell’offerta di beni comuni come casa, istruzione, sanità. Ed in una contrattazione territoriale su obiettivi sociali.
È vero che su tali aspetti la polemica con Cisl e Uil appare ancora forte e l’obiettivo dell’unità sindacale, tanto caro a Vittorio Foa, appare gonfio di difficoltà. Ma anche qui le sue parole non disperano: «Siamo divisi perché stiamo ricercando l’unità, intesa come processo per essere contemporaneamente noi stessi ma anche gli altri, per vedere e capire le loro buone ragioni». Sono, in questo crescere del racconto a due, i nostri anni dell’insicurezza: «Se penso alla diversità dei miei vent’anni provo una sottile angoscia». Il passato dell’antifascista Foa non è stato certo facile. Eppure «la lotta per la libertà» gli dava un senso. Oggi occorre «cercare di recuperare questo senso». Ed è compito arduo, chiarisce Epifani, perché siamo di fronte a persone che hanno condizioni e soggettività assai diverse. L’analisi passa in rassegna, alcuni «soggetti sociali», come le donne, con Vittorio Foa che racconta di un sapere femminile in più, proveniente dal lavoro familiare e di cura. O come gli anziani, visti da entrambi come una risorsa per il Paese. Ancora una volta l’antico segretario della Cgil ricorre alla memoria e racconta di quella volta che in una riunione di mezzadri, stupiti, chiese loro di prepararsi alla morte. Voleva incitarli, in sostanza, ad un invecchiamento attivo.
Mentre per un altro capitolo, quello degli immigrati, una novità prorompente nel panorama lavorativo, lo stesso Foa lamenta una mancata risposta complessiva alla nascita della legge Bossi-Fini, anche se riconosce l’attività condotta in questo campo dai sindacati. Mentre Epifani fa notare come oggi si diano da fare su tali temi, i sindacati, i governi locali, la chiesa, mentre c’è l’assenza di un «ruolo sociale» dei partiti. E si tocca un punto delicato, le tentazioni che hanno attraversato parte della Cgil nel recente passato: dar vita ad un partito del lavoro. Era l’epoca di Cofferati segretario ma la proposta era stata di Claudio Sabbatini. Furono anni in cui il sindacato svolse un ruolo di supplenza. Epifani rammenta la battaglia sull’articolo diciotto e il merito di Cofferati nel difendere l’autonomia della Cgil. Per l’attuale segretario confederale, comunque, la prospettiva di un partito del lavoro indebolisce lo stesso ruolo del sindacato. I partiti della sinistra devono però, aggiunge, avere attenzione alle istanze del lavoro. E Foa pesca nel passato, a quando nel 1943 nel Sud ci fu un tentativo appoggiato dagli inglesi (malvisto dagli Usa) di dar vita a un «Partito del lavoro»dalle forme molto ambigue, con elementi delle Trade Union e dell’estremismo comunista locali. Erano a Salerno ed erano contro Togliatti: Giuseppe Di Vittorio li emarginò.
C’è un intreccio continuo, nell’agile volume, tra l’oggi - anzi il domani - e la realtà che sta alle nostre spalle. Con quei cento anni del più grande sindacato italiano che coincidono con la storia del Paese, partono dalla nascita del 1906 (preceduta dallo sciopero generale del 1904). Già allora un modo per collegare i lavoratori all’intera società. «Mentre lavorano per sé lavorano anche per gli altri, mentre lottano per i loro diritti lottano per i diritti di tutti». È il cuore, l’anima, di un secolo cigiellino. Passa dal patto di Roma, alla riscossa degli anni Sessanta, alla lotta contro il terrorismo sotto la guida di Lama, all’accordo del ’93 con Bruno Trentin che ancora oggi regola i contratti. Dalle lotte bracciantili al taylorismo, alla società dell’informazione, alla odierna realtà frantumata. Sono riferimenti che scorrono nel susseguirsi del colloquio. Quasi si fosse alla perenne ricerca di un aggiornamento, di un filo da tirare. Come quando Vittorio Foa indaga su una sfera dei diritti, quale il diritto all’acqua potabile, «da garantire in qualunque modo, anche indipendentemente dalla libertà contrattuale». Non è un affermazione scontata.
E un modo per dire, ci sembra, che lo stesso sindacato dovrebbe auto-limitare la propria azione quando essa, appunto, nega quei diritti primari. Non per eliminare il conflitto ma per trasformarlo in conflitto civile, capace di non nuocere ai cittadini utenti. Sono, certo, tasselli, di un mondo globalizzato e complicato. Come governare - si chiede Guglielmo Epifani - questo insieme, con quali garanzie, tutele, diritti, dignità delle persone che lavorano e con quale modello sociale? Oppure bisogna rassegnarsi a convivere con tanti sistemi e regolazioni territoriali o agire sulla sfida globale «mettendo in discussione conquiste raggiunte in cento anni»? Interrogativi ai quali questo libro prezioso abbozza prime risposte. È la prospettiva di un rimescolamento, cercando in sostanza, per dirla ancora con Epifani, di «essere meticci senza che questo voglia dire abbandonare diritti e tutele per ognuno e per tutti...».
* l’Unità, Pubblicato il: 20.10.08, Modificato il: 20.10.08 alle ore 16.40
Le speranze e le paure delle grandi rivoluzioni
di Vittorio Foa (l’Unità, 21.10.2008)
Penso molto alle parole della politica, alla loro capacità o incapacità di comunicare, e penso al carattere plurale di queste parole, alla molteplicità di significati, e anche di contraddizioni, che esse possono raccogliere: solo leggendo la loro interna contraddizione, la loro polarità, riusciamo a capirle. La parola «lavoro», ad esempio, mi ha accompagnato per una parte della mia vita: mi sono occupato del lavoro umano e della sua organizzazione. Quando facevo l’organizzatore sindacale mi era chiaro che lo sviluppo, la crescita dell’economia d’insieme era una necessità per andare avanti e, al tempo stesso, una radice di difficoltà e d’infelicità. Le due cose, camminare e soffrire, vanno avanti insieme. (...)
Perché il comunismo è completamente scomparso mentre L’anticomunismo, come cultura e come politica, continua ancora a esercitare un suo ruolo non indifferente?
Si potranno trovare molte risposte nell’analisi storica del comunismo, dei suoi meriti e dei suoi orrori, delle memorie staliniste che hanno costituito un pezzo terribilmente importante della violenza del Novecento, ma mi limito qui a un’osservazione piuttosto semplicistica. Il comunismo di cui si constata la scomparsa è un insieme di dottrine e di esperienze, mentre ciò di cui si constata la sopravvivenza è un insieme di nostalgie e paure, che non si identificano con il comunismo ma hanno un altro nome: rivoluzione. Di rivoluzioni ce ne sono state tante, e a mio giudizio son tutte fallite, ma le nostalgie e le paure che hanno creato non si cancelleranno mai. Esse rispondono a un atteggiamento mentale degli uomini verso la realtà che può assumere forme diverse nelle esperienze pratiche. Queste forme però hanno sempre qualcosa in comune tra loro anche se distanti nei secoli: si tratta dell’idea, che in certi momenti molti esseri umani hanno manifestato, di poter cambiare il mondo senza esserne costretti dal tempo e dallo spazio. Il tempo ha sempre frenato la volontà di cambiamento con l’argomento che bisogna appunto lasciar maturare i tempi, aspettare che la società crei le condizioni favorevoli al mutamento. Lo spazio ha sempre frenato i cambiamenti con l’argomento che le cose possono mutare altrove, ma non da noi. In certi momenti alcuni gruppi umani hanno pensato che mettendosi insieme era possibile superare lo spazio e il tempo e quindi cambiare il mondo senza attese: sono stati momenti di entusiasmo e anche di paura, che hanno investito milioni di persone.
Io penso all’esperienza rivoluzionaria nell’Europa mediterranea e soprattutto in Italia. Penso anche a due episodi specifici. Uno da me non vissuto, ma studiato con profonda partecipazione, è la Rivoluzione francese; l’altro, più recente, da me non vissuto con partecipazione, ma studiato con rispetto, è il 1968 in Europa e non solo in Europa. La Rivoluzione francese ha vissuto il suo apogeo e la sua sconfitta nel 1793-94, pur cambiando il mondo in maniera diversa da quella prevista e voluta. Il 1968 mi è parso un movimento rivoluzionario quando l’idea di autonomia, maturata come diritto di decidere il proprio futuro senza dipendere dagli altri, si è poi affermata , oltre che nell’organizzazione del lavoro anche negli altri aspetti della vita, come rifiuto delle discipline imposte e come affermazione della libertà. Anche il Sessantotto non ha adempiuto alle sue speranze, ma ha cambiato molte cose nella società; anche il Sessantotto è stato battuto lasciando dietro di sé a cute nostalgie e diffuse paure.
La rivoluzione è vissuta come episodio in varie forme, in vari tempi e in vari paesi; ma come idea di fattibilità del cambiamento attraverso l’azione collettiva degli esseri umani sopravvive a tutte le sue sconfitte episodiche. Per questo penso che bisogna tenere ben chiara la distinzione tra episodi rivoluzionari legati alla storia e la rivoluzione come atteggiamento umano, che si verifica solo in certi momenti e sembra conferire all’umanità una potenza fino allora inesplorata.
Il comunismo è stato in Italia un’esperienza importantissima. Io non ho fatto parte di quell’esperienza dottrinaria e di quella pratica, ma ho sempre cercato di comprenderne il senso e anche i limiti: oggi vedo ancora intorno a me sopravvivenze nostalgiche e non me ne scandalizzo. Penso veramente che la rivoluzione come idea di fattibilità del cambiamento è un’idea che vivrà.
* tratto da «Le parole della Politica» di Vittorio Foa e Federica Montevecchi, Einaudi, 2008
Ansa» 2008-10-22 15:50
IL SALUTO A VITTORIO FOA
ROMA - Cerimonia di addio a Vittorio Foa, questa mattina a Roma, di fronte la sede nazionale della Cgil. L’estremo saluto all’ex dirigente sindacale e icona della sinistra non comunista e’ stato dato dal segretario del Pd Walter Veltroni e dal leader della Cgil Guglielmo Epifani, che hanno parlato dopo i famigliari di Foa; dalla figlia Anna che ha toccato il tema delle radici ebraiche, al giovane nipote che ha ricordato l’abilita’ del nonno in cucina nel preparare una sua personale ’’salsa dell’amicizia’’.
Molti i leader della sinistra che non hanno voluto mancare alla cerimonia laica di commiato a Foa: da Massimo D’Alema a Sergio Cofferati, da Piero Fassino a Fausto Bertinotti. ’’Vittorio era l’uomo piu’ moderno della sinistra che io abbia mai conosciuto’’, ha detto Veltroni, che ha insistito sull’ottimismo di Foa, un modello da seguire: ’’Ottimismo, ci ha insegnato, non vuol dire pensare che tutto va bene, ma che c’e’ la possibilita’ di cambiare le cose’’.
A questo proposito, Veltroni ha ricordato il suo ultimo incontro con Foa, lo scorso settembre nella casa di Formia, dove viveva da molti anni: ’’Li’ mi disse che stava per scrivere una nuova prefazione a un suo libro, e che questa volta sarebbe stata pessimista. Capi’ dal tono della mia voce che ero sorpreso, e mi disse: ’Intendiamoci: pessimista per il passato, ma ottimista per l’avvenire’’.
Veltroni ha voluto anche ricordare il sostegno di Foa al Pd: ’’Aveva accolto con fiducia il partito democratico, e aveva voluto partecipare alla sua nascita a tutti i costi. Mi ha anche dato il suo sostegno prima e dopo il voto, e questa e’ una cosa che non potro’ dimenticare’’. Veltroni ha preso spunto dal passato di sindacalista di Foa per difendere la Cgil dalle critiche e dagli attacchi: ’’Ci deve essere qualche cosa che non va nella moderna pubblicistica che presenta la Cgil come un gruppo arroccato e chiuso in se’ stesso’’.
E’ stato Guglielmo Epifani a concludere la cerimonia: ’’Se ne va uno dei grandi uomini della Cgil - ha detto - Fino agli ultimi giorni aveva chiesto di vederci, di parlarci: non si sentiva uno messo di lato, si considerava, ed era, uno di noi’’. La piu’ grande preoccupazione di Foa, ha spiegato il segretario della Cgil, era quella di avere un sindacato autonomo e unito. ’’A volte - ha detto ancora Epifani - la sua sembrava una speranza disarmata, ma Vittorio ha sempre visto nel fare, nell’agire, il legame tra speranza e cambiamento’’. E a proposito di speranza e cambiamento, il leader della Cgil ha accostato Foa al movimento degli studenti sorto in questi giorni in Italia: ’’Vittorio sarebbe stato contento di vedere questi giovani che stanno di nuovo attraversando le citta’ ’’.
Un azionista giacobino e graduale
di GIOVANNI DE LUNA (Il manifesto, 21 ottobre 2008)
Se ne va un pezzo della storia italiana, ma anche un pezzo importante della storia di molti di noi. Ci sara’ il tempo per elaborare il lutto affettivo ed emotivo di questa perdita, di fare i conti con quello che la sua biografia ci ha lasciato personalmente. Ora e’ il momento di ricordarne l’eredita’ politica e culturale facendoci aiutare da lui stesso. Negli ultimi due decenni, almeno a partire dalla meta’ degli anni ’80, Vittorio Foa ha cominciato infatti a tessere e ritessere i suoi ricordi, trasformandoli in un racconto avvincente, sfociato prima in quel piccolo capolavoro che fu Il cavallo e la torre, poi in altri libri come quelli con Federica Montevecchi (La memoria lunga) e, da ultimo, con Carlo Ginzburg.
Era gia’ vecchio. La vecchiaia e’ anche uno spaesamento rispetto al proprio tempo: tutto intorno progressivamente spariscono i volti, i linguaggi, i comportamenti in cui erano conficcate le proprie abitudini; si puo’ reagire cercando di fermare il tempo nei propri ricordi, in una sorta di esilio volontario in una cronologia impazzita, oppure si tenta di afferrare il tempo, di inseguirlo anche nelle sue mode e nei suoi tic, di confrontarsi con le sue immediatezze. Vittorio scelse questa seconda via. Utilizzo’ i suoi ricordi per tracciare la rotta per orientarsi prima nel delirio degli anni ’80, poi nel marasma degli anni ’90, incrociando lungo quella rotta lo smarrimento della sinistra, il crollo della sua configurazione novecentesca, la devastante realta’ delle abiure e delle sconfitte. Da questo incrocio emerse un Foa inedito, chiamato da una sinistra orfana di certezze e in crisi di identita’ al ruolo per lui del tutto inconsueto di "padre nobile".
Non lo era mai stato. I suoi esordi erano stati caratterizzati da Giustizia e Liberta’, dalla cospirazione antifascista, dal carcere, dalla Resistenza, dalla militanza nel Partito d’Azione. Visse il periodo dal 1932 al 1946 nel segno dell’intransigenza, di un attivismo volontaristico che si nutriva di una insofferenza che investiva non solo il determinismo di Marx, ma anche il catastrofismo della sinistra democratica, che faceva discendere come una fatalita’ la fine della liberta’ dalla massificazione delle societa’ europee e dalla vittoria di idee irrazionalistiche. Con i giovani giellisti torinesi Foa condivideva anche una tendenziale ostilita’ nei confronti del versante filosofico del liberalsocialismo. A Torino itinerari del tipo "lungo viaggio attraverso il fascismo" erano poco frequenti. L’antifascismo si era definito come altro dal regime, in un’opposizione irriducibile e senza compromessi.
Il riferimento privilegiato restava sempre quello di Gobetti, la sua idea di liberta’ come soggetto liberante, come processo di liberazione: il liberalismo gobettiano andava ben oltre il garantismo dei diritti individuali e collettivi di liberta’. "La liberta’ - scrivera’ in seguito lo stesso Foa - e’ liberazione, espansione dei soggetti collettivi e nella sofferenza dei soggetti collettivi sta la molla dei processi di liberazione". Si pensava alla democrazia e al socialismo non solo in termini di garanzie istituzionali, quindi, ma come processo, con attori in movimento. "Non riuscivo", aggiungeva Foa, "ad appassionarmi ai grandi confronti ideologici fra liberalismo e socialismo e quindi al socialismo liberale o al liberalsocialismo mentre ero profondamente interessato agli eventi concreti e alla loro direzione". L’utopia - collocandosi in un futuro indeterminato - consente il compromesso e l’accettazione passiva dello stato di cose presenti; completamente diversi sono gli ideali, che Foa intendeva come "valori da realizzare ogni giorno nella pratica di obbiettivi concreti".
Nella Resistenza, il progetto azionista, "la linea di un controgoverno dal basso e dalla periferia come struttura istituzionale, come elemento di democrazia diretta che non doveva sostituire ma integrare quella rappresentativa", fu cosi’ l’unico serio tentativo di costruzione di un riformismo "militante", alternativo all’egemonia comunista. Il suo bersaglio era la miseria del riformismo italiano, il suo economicismo, l’assenza di un "mito politico" in grado di soffiarvi dentro l’alito della passione. Di qui la sua coinvolgente professione di giacobinismo: "non si doveva separare l’impegno progettuale dal movimento che aveva determinato la rottura con il passato. La dimensione temporale diventava determinante: le riforme (o almeno un loro decisivo inizio) non potevano essere rinviate a momenti successivi. Il movimento non doveva solo creare le condizioni per le riforme, doveva anche avviarle a realizzazione, impedire che un evitabile riflusso del movimento le rendesse irrealizzabili... Il giacobinismo mi si presentava, quindi, come accelerazione e come anticipazione".
La configurazione politica dei suoi esordi passo’ sostanzialmente intatta anche attraverso le sue esperienze successive al PdA, quella nella Cgil (dal 1949 al 1970) e quelle nel Psi, nel Psiup, nel Pdup, fino alla fallimentare esperienza delle liste della Nuova sinistra unita nel 1979. Fu animato da una inesausta febbre di ricerca, curioso, instancabile, diffidente verso ogni equilibrio consolidato, verso ogni forma di staticita’ che puzzasse di apparato. Visse in prima persona scissioni drammatiche come quella azionista del 1946 o quella socialista del 1964. Visse con altrettanta partecipazione il turbinio di sigle organizzative della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta. Niente, niente lo caratterizzava comunque come un padre nobile da invocare come garante delle pulsioni governative che agitavano la sinistra negli anni Novanta, quando si tento’ di arginare le tentazioni autodistruttive dei suoi partiti ancorandole all’occupazione delle istituzioni e dei palazzi governativi. Apparentemente Vittorio partecipo’ con entusiasmo a questo gioco, interpretando quel ruolo con qualche compiaciuta civetteria.
Eppure, se ne rileggiamo gli scritti, anche quelli della vecchiaia piu’ tarda, vediamo continuamente riaffiorare i tratti impertinenti e irriverenti del suo antico giacobinismo, anche quando elogia la gradualita’: "mi domando adesso - scriveva ne Il cavallo e la torre - se e’ possibile conciliare il giacobinismo che mi sembra tuttora assolutamente legittimo col gradualismo inteso come coinvolgimento del prossimo nella realizzazione di un progetto". La domanda era retorica. Tutta la sua biografia puo’ essere letta come rifiuto del gradualismo e della mediazione, come adesione convinta ad una visione conflittualistica della politica; l’intransigenza e’ (sono sue parole) anzitutto "una condizione esistenziale". "La radicalita’", diceva ancora nel suo colloquio con Ginzburg, "guarda a tutto il modo di vivere, non solo a qualche pezzetto delle nostre idee". E piu’ avanti: "parto dall’idea di poter cambiare le cose, anziche’ aspettarsi che le cose cambino per qualche fatto esterno a me o a noi. E’ un’idea cui sono stato lungamente attaccato, che si puo’ chiamare anche autonomia: l’idea che il futuro appartiene agli uomini e non a qualcosa che sia esterno a essi".
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Addio Vittorio, un compagno che odiava il settarismo
Il suo passaggio da un partito all’altro, da cui non ha mai tratto un vantaggio personale testimoniava per lo meno una singolare irrequietezza intellettuale
di MIRIAM MAFAI (la Repubblica, 21 ottobre 2008)
Da qualche anno Vittorio Foa si era rifugiato, con Sesa, a Formia dove lo raggiungevano spesso i suoi amici. Ricordo, qualche anno fa, un suo compleanno celebrato insieme. Occasione anche per discutere dell’ultimo libro, Il silenzio dei comunisti, che portava la sua firma, assieme a quella di Alfredo Reichlin e della sottoscritta.
In quella occasione gli avevamo portato dei regali ed egli sembro’ apprezzare in modo particolare la lunga sciarpa, di un rosso che volgeva all’albicocca, che gli aveva offerto Roberta. La serata era tiepida, ma Vittorio, prima di uscire se ne avvolse le spalle.
Per discutere del suo libro, la sezione dei Ds di Formia aveva convocato un’assemblea. La sala, quando arrivammo, era gia’ piena. E noi rimanemmo stupiti, felicemente stupiti, del fatto che la maggioranza del pubblico fosse composta da giovani, ansiosi di prendere la parola e discutere con que l vecchio dirigente che avrebbe potuto essere il loro nonno o bisnonno. "Ma succede dovunque cosi’, quando c’e’ Foa" mi spiegarono altri amici. "Ci sono sempre molti giovani, si tratti di una sezione di partito o di un liceo". Me ne sono chiesta la ragione. E ho pensato che forse la simpatia che lo circonda (o, piu’ correttamente lo circondava) nascesse dal fatto che l’uomo era difficilmente classificabile. Uomo di sinistra, senz’altro.
Ma di quale sinistra? Nel secolo tormentato che ci sta alle spalle, egli ha appartenuto a tutti i partiti che alla sinistra si sono richiamati, dal Partito d’Azione, di cui e’ stato dirigente nella Resistenza e nei primi anni della Repubblica, al Psi che per tre legislature ha rappresentato in Parlamento, al Psiup nato anche per sua volonta’ da una scissione dei socialisti, fino al Pdup e ad altre formazioni della estrema sinistra nei tumultuosi anni ’70.
Questi partiti egli li ha amati, li ha criticati, li ha abbandonati. In tempi di disciplina e conformismo, il suo passaggio da un partito all’altro - un passaggio dal quale Foa non ha mai tratto un vantaggio personale - testimoniava per lo meno una singolare irrequietezza intellettuale.
Una volta, in polemica con le critiche di alcuni dirigenti comunisti, mi spiego’ cosa dovesse intendersi per coerenza. "Vedi" mi disse "la coerenza dei comunisti e’ in primo luogo la fedelta’ a un’organizzazione, una sorta di feticismo di partito. Il mio tipo di coerenza, o se vogliamo di fedelta’, e’ quello della ricerca di un obiettivo, sempre lo stesso ma attraverso diversi percorsi. Io ho sempre cercato la verita’ in modo trasversale, al di la’ degli steccati". Cosi’ all’amico Carlo Ginzburg che una volta gli faceva notare come avesse cambiato idee importanti nel corso di pochi anni, rispondeva: "Le mie non sono contraddizioni ma compresenze di posizioni diverse". Aveva ragione.
In un’epoca nella quale la fedelta’ a un partito poteva tradursi in autosufficienza e chiusura alle ragioni degli altri, in un’epoca nella quale la militanza politica poteva spegnere ogni spirito critico ed umiliare le coscienze dei singoli, Vittorio Foa ha sempre coltivato le proprie contraddizioni o "compresenze di posizioni" come un antidoto al settarismo, quasi un gusto e sapore di liberta’.
Fu certamente uno degli uomini piu’ liberi che io abbia conosciuto, disinteressato nei comportamenti e sempre appassionato e curioso delle ragioni degli altri. Dentro di lui convivevano spinte diverse: la tensione etica tipica degli azionisti, la passione del sindacalista (per piu’ di venti anni era stato un dirigente di primo piano della Cgil), la capacita’ dello studioso di indagare la storia e le trasformazioni della societa’, e infine la fiducia nella possibilita’ degli uomini di battersi con successo contro l’ingiustizia, le disuguaglianze, l’esclusione. I vecchi, sia nella vita privata che nella vita politica, di solito si rivolgono al passato con nostalgia, sono scettici o pessimisti sul presente.
Vittorio Foa faceva eccezione a questa regola. Era un ottimista. Una volta venne accusato, da sinistra, di guardare con troppa ingenuita’ e fiducia alla proclamata trasformazione di An. "Ma lei si fida delle parole di Fini?" gli venne chiesto. "L’appartenenza politica" rispose Foa "e’ un dato culturale, non genetico. Se uno dichiara di volersi liberare dal mito fascista, io sono contento. Se mi fido? Nella storia della sinistra italiana l’espressione ’non mi fido’ e’ stata una delle regole piu’ perverse". Pensava che la sinistra, liberatasi dagli ideologismi del passato, avesse non solo il diritto ma il dovere di governare il nostro paese. A condizione di superare i suoi tradizionali feticci, a condizione di far leva sui nuovi ceti sociali emersi dalle trasformazioni economiche, a condizione di darsi nuove strutture unitarie. L’Ulivo, secondo lui, avrebbe dovuto essere non solo una somma di partiti, ma una forza nuova che andasse oltre i singoli alleati.
Lo ha sperato, anche di fronte a sconfitte e delusioni. E ha continuato fino alla fine a invitare gli uomini e le donne di sinistra a non rinchiudersi in se stessi, a "parlare agli altri, a quelli che hanno sbagliato scegliendo la destra di Berlusconi... Ma aprire gli occhi agli altri" ci ripeteva "vuol dire anche in qualche modo rispettarli, avere con loro un rapporto umano, cercare di capirli".
E a chi gli chiedeva cosa dovesse fare la sinistra, quale dovesse essere il suo programma, rispondeva "E’ una perdita di tempo e di senso cercare di definire una identita’ della sinistra. Bisogna fare quello che e’ giusto e necessario per il Paese, i posteri diranno se era di destra o di sinistra".
Sinistra. Nel corso di moltissimi anni non ha mai smesso di cercare soluzioni,
tentare nuove vie possibili per rendere piu’ equa e libera la vita dei lavoratori
Molte grazie, compagno Foa
di GUGLIELMO RAGOZZINO (il manifesto, 21.10.2008)
Quando il mese scorso Vittorio ha compiuto 98 anni, "Il manifesto" ha ripubblicato la frase finale della sua intervista a Loris Campetti del primo maggio del 2007: "Ai giovani direi: pensate alla politica che e’ un pezzo decisivo nella vita delle persone, ma non e’ tutto. Allora pensate anche ad altro, e soprattutto pensate agli altri. Pensare agli altri e’ gia’ una prospettiva di vita". L’intervista toccava il punto del concerto del sindacato in piazza S. Giovanni a Roma. Non era forse un cedimento ai suoi occhi di vecchio organizzatore sindacale? Ma no diceva Vittorio, la musica dei giovani e’ molto importante; e’ felicita’ e vita. Vittorio che era quasi del tutto sordo e vedeva solo ombre, capiva e apprezzava un concerto rock meglio di tanti altri. Per lui del resto era facile: era giovane, anzi i giovani, generazione dopo generazione, erano sempre suoi coetanei.
Da giovane, a 25 anni, era finito in carcere per due articoli pubblicati sui "Quaderni di Giustizia e liberta’" sull’Iri, la Stet e i poteri economici privati. Ogni 15 giorni, dal carcere, si poteva scrivere una lettera che passava per la censura prima di arrivare ai destinatari: le "Lettere dalla giovinezza" di Vittorio, raccolte e ordinate da Federica Montevecchi, sono una straordinaria narrazione della vita del carcere, le letture, le speranze, la grande politica. Dal carcere, stretto nelle maglie della censura, questo ragazzo capiva gli avvenimenti e li riusciva a spiegare, con una punta di ironia, anche.
Il fascismo, la guerra di conquista contro l’Etiopia, le leggi razziali, la guerra europea: tutto passa sotto la lente delle lettere dal carcere. Quando anni dopo - racconta Foa - qualcuno gli chiedera’ di aderire a un’associazione di perseguitati, egli si rifiutera’ e alla sorpresa dell’interlocutore spieghera’ che in realta’ era lui ad avere perseguitato il fascismo, tanto che per difendersi lo avevano dovuto scaraventare in carcere. Difficile ricordarlo oggi, ma Vittorio era davvero capace di capovolgere, con allegria, sempre, i punti di vista e cosi’ liberava molte verita’, quelle che nessuno osava dire.
Intellettuale, cospiratore, prigioniero politico, capo della Resistenza, costituente, deputato, senatore, uomo di partito, saggista, condirettore del "Manifesto", professore universitario, storico; tutto fatto con il massimo impegno, ogni volta. Vittorio pero’ parlava di se’ come organizzatore sindacale. Il sindacato era la sua vera missione: ufficio studi della Cgil, poi la Fiom - e a Torino dopo la sconfitta alla Fiat - e di nuovo al centro, con Giuseppe Di Vittorio e poi Agostino Novella nella segreteria della Cgil.
Sono in molti a ricordare ancora quando Vittorio decise nel 1968 di non ripresentarsi in parlamento. I maggiori sindacalisti allora erano anche parlamentari, perche’ il mandato parlamentare li difendeva meglio. Il ricordo della dittatura era ancora recente. Inoltre i sindacalisti erano allora molto popolari e i partiti chiedevano con forza la loro presenza. In brevi anni, anche gli altri sindacalisti che pure l’avevano criticato, decisero che era giusto fare cosi’ e l’incompatibilita’ divenne regola generale. Ma l’unita’ sindacale che allora fu realizzata dai metalmeccanici, rimase per sempre un’aspirazione, sempre una meta lontana da raggiungere.
Anno forte, il sessantotto. Su imitazione di quello che avveniva a Parigi, a Milano si occupo’ la Triennale, nella sera in cui arrivava per un discorso Serge Mallet, celebrato autore della Nuova classe operaia. Fu li’ che vidi la prima volta Vittorio in azione. L’avevo conosciuto la mattina di quel giorno nell’ufficio di Gastone Sclavi alla Cgil di Corso di Porta Vittoria. Mi era difficile accettare che una persona tanto importante facesse una cosa tanto irregolare, una tipica attivita’ da lasciare ai giovani. Appunto.
Vittorio, anche allora, ma lo ho capito dopo, era molto piu’ giovane di me. Un’altra innovazione di Vittorio fu quella di andarsene dal sindacato una volta compiuti i sessanta anni. Questo accadde nel 1970. Non era piu’ parlamentare, non era neppure sindacalista; il suo partito, il Psiup, soprattutto dopo i carri sovietici a Praga che Vittorio aveva avversato - tanto nella Cgil che nel partito - non era piu’ un luogo per un lavoro politico; tanto piu’ che il mondo, dopo il biennio ’68-’69 era cambiato parecchio. I giovani pretendevano altro. E come rinuncio’ per primo alla medaglietta parlamentare, cosi’ a sessant’anni, per primo, si cerco’ un lavoro.
Cominciavano gli anni dell’Universita’, a Modena. Improvvisamente la facolta’ di Economia e commercio di Modena divenne un punto di riferimento di tutto il pensiero non neoclassico. Tutto il nuovo passava di li’. Per una volta un’universita’ italiana non si sentiva marginale e tutto sommato inutile. Vittorio era probabilmente il punto di riferimento, certo al di la’ della sua volonta’. Molti studiavano e scrivevano in funzione di quello che egli avrebbe detto o replicato. Era il maestro, se mai ce ne fu uno.
Via da Modena, finita la stagione della politica, Vittorio che si candida e diventa deputato a Torino e Napoli per Democrazia proletaria, allora cartello disagiato delle nuove sinistre, ma con l’impegno a dimettersi subito, a favore di due subentranti. Poi gli anni della "Gerusalemme", forse il principale libro di storia di Vittorio, dedicata al movimento operaio inglese. Poi gli anni del silenzio, un biennio a cavallo del 1980 in cui si e’ imposto di tacere; e naturalmente e’ un tempo adatto ad ascoltare gli altri.
Poi gli anni recenti, tanti libri, Formia come porto tranquillo, ancora la Cgil all’ufficio studi, per cercare di capire l’involuzione del capitale, ancora il Parlamento. E un po’ di pace, rotta da un turbinio di amici, conoscenti, parole, letture, discussioni. Un tempo sereno.
Un tempo sereno di cui noi tutti che ne abbiamo approfittato dobbiamo ringraziare Sesa, la moglie di Vittorio; e Anna, Renzo, Bettina i figli di Vittorio e Lisa che hanno generosamente diviso con noi il prezioso tempo di Vittorio Foa.
Per la sinistra del futuro
Vittorio Foa, l’antifascista che non si stancò mai di immaginare e progettare un mondo più giusto
di Andrea Ricciardi (Corriere della Sera, 08.02.2012)
«M i dicono che sono molto cambiato, per certuni anche troppo. Naturalmente si pensa al socialismo e alle lotte operaie su cui mi ero impegnato. Mi domando: in che cosa sono veramente cambiato e in che cosa invece sono coerente? Il mondo è così cambiato e così in fretta che sarei uno strano tipo se non fossi cambiato anch’io». Queste parole (1992) rappresentano bene l’approccio di Foa alla storia del Novecento e, parallelamente, alla propria vicenda personale. Nel 1991 pubblicò da Einaudi Il Cavallo e la Torre, autobiografia di rara bellezza anche per la forma della scrittura. Quel libro non fu solo il punto di arrivo di un percorso di profonde riflessioni, iniziato alla fine degli anni Settanta, quando Foa avviò una revisione culturale in linea con i rivolgimenti epocali che avrebbero coinvolto la sinistra dopo l’89. Da allora le riflessioni sul passato continuarono e Foa, nonostante vivesse a pieno il presente e fosse incuriosito dal futuro (da qui la voglia di progettare e di approfondire), continuò a interrogarsi sul Novecento e sull’evoluzione della propria identità.
Il libro Passaggi, domani in edicola con il «Corriere», è quasi un’integrazione, una prosecuzione dell’autobiografia. Coerentemente con il proprio carattere, Foa tentò di capire che cosa accadeva dentro e intorno a sé. I pensieri, annotati quasi come in un diario, coinvolgono aspetti intimi della sua vita e temi più generali, fasi centrali della vita politico-sindacale e questioni «pubbliche» che attengono all’economia, al diritto, alla religione, al costume. Da ogni pagina traspare la sua capacità di proporre originali chiavi di lettura, con una precisazione: Foa mai smise di dubitare, innanzitutto di se stesso. Il cerchio, per lui, antidogmatico pure nei periodi di maggior radicalismo politico-sindacale, non si poteva chiudere. Ma proprio l’impossibilità di fornire soluzioni definitive ai problemi, con gli scenari politico-culturali e socio-economici in sempre più rapida evoluzione, rende la sua ricerca, intrisa di autoironia e non priva di stoccate al vetriolo, tanto affascinante.
Scrive sulla propria formazione, su fascismo e antifascismo, carcere e Resistenza, Gl e P. d’A. Ritorna su socialismo e comunismo, sulla Cgil e il suo lavoro sindacale, sul rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. Riflette sul suo essere ebreo e sulla Shoah, sulla centralità della storia, sui giovani e le donne, su snodi importanti degli anni Settanta e Ottanta, su Berlusconi e la destra italiana, sul centrosinistra, sul pacifismo e le guerre, sul Risorgimento e l’Italia liberale. Parla dei suoi familiari e degli amici, incontrati in decenni di lotte e di riflessioni sui «massimi sistemi» e su questioni apparentemente più marginali. Si interroga sul lavoro che cambia e sull’evoluzione del capitalismo, su Stato e mercato, sull’Europa e il federalismo da Ventotene all’euro.
Sul tribunale speciale, che nel 1935 lo condannò a 15 anni, nel 1991 ricorda: «Ero in carcere quando seppi che una legge aveva prorogato per altri cinque anni la vita di quel tribunale che era scaduto. Scrissi a casa rallegrandomi: se avevano ancora bisogno di specialisti per condannarci voleva dire che c’erano ancora dei giudici in Italia di cui i fascisti non potevano fidarsi. Naturalmente la mia lettera fu soppressa dalla censura». Nel 1993, forse non immaginando quanto le sue parole oggi siano attuali, scrive: «Nel decennio Ottanta i liberisti hanno creduto di celebrare il loro trionfo sbaragliando le ideologie. Ma il liberismo è una ideologia, la più sfacciata delle ideologie: l’appello al mercato non è espressione di volontà individuale ma richiamo alla disciplina verso un determinato sistema economico e sociale». Nel 1994, anno del successo dell’«unto dal signore», annota: «Inverosimile è l’accanimento anticomunista adesso che il comunismo è caduto. L’Italia di Maramaldo dà spettacolo. Forse è l’affanno di chi senza i comunisti non si sente più esistere, tanto era dipendente da loro. Altrettanto inverosimile è però il silenzio dei comunisti sul loro passato, il loro rifiuto di pensarlo».
Un contributo alla riflessione sul tema sarebbe venuto dalla pubblicazione, nel 2002, di un intenso scambio di lettere con Miriam Mafai e Alfredo Reichlin. Penetranti le considerazioni su alcuni influenti e discussi intellettuali e dirigenti politici (Berlinguer, Panzieri, Craxi, Bertinotti); su ex compagni di lotta e figure centrali degli anni giovanili (Rosselli, Gobetti, Mila, Natalia Ginzburg, il cugino Primo Levi, Bobbio, Pajetta, Diena, Carlo Levi); sui presidenti della Repubblica prima di Ciampi. A questo proposito, nel 1999, scrive: «Ne salvo solo due. Tutti gli altri, eccetto Pertini e Scalfaro, offrono un quadro di incertezza, di oscurità, tutto sommato di instabilità». Intenso il ritratto di Giulio Einaudi (1999), la cui conclusione appare particolarmente significativa anche per l’elaborazione di Passaggi: «L’ho conosciuto ragazzo saggio e consapevole di sé e l’ho frequentato da vecchio ricco di fanciullesca curiosità verso il mondo. Il giorno che uscirono le mie lettere carcerarie mi telefonò per farmi gli auguri e si invitò a cena. Appena arrivato mi disse subito che non era stato d’accordo con quella pubblicazione troppo carica di elementi famigliari e che insisteva invece perché scrivessi un libro sull’oggi e il domani, sui nodi da cui liberarmi. È quello che sto facendo».
Sempre nel 1999, ottimista e proiettato verso il futuro quasi fosse un ragazzo, scrive: «Il nuovo secolo potrebbe presentarsi poco attraente. Ma non posso cedere alla tentazione di guardare il soffitto e lasciarmi vivere finché dura. Quando si è vissuti così a lungo e così bene non si può abbandonare. Devo darmi un progetto». E a un’intervistatrice che, nell’ultimo giorno del secolo, gli chiede di dire qualcosa ai giovani sulla sinistra, Foa risponde: «Se tentiamo di descriverla non ci credono, forse è possibile proporgli di cercarla insieme». Nel 1997, sintetizzando il suo approccio alla vita, aveva scritto: «Nonostante le sue nequizie ho sempre amato il mondo ed esso mi ha ricambiato». Un rapporto d’amore che sarebbe continuato per altri undici anni, lasciando in molte persone tracce indelebili di umanità e voglia di futuro.
Il carcere, gli ideali socialisti, le lotte del lavoro
Corriere della Sera 8.2.12
Nel libro Passaggi, che il «Corriere» manda in edicola domani con prefazione di Corrado Stajano, Vittorio Foa (1910-2008) aveva raccolto nel 2000 alcune sue riflessioni di eretico della sinistra sul passato e sul futuro alla vigilia del nuovo secolo. Si tratta della quindicesima e ultima uscita della collana «Laicicattolici. I maestri del pensiero democratico», in vendita al giovedì con il «Corriere» al prezzo di 1,50 più il costo del quotidiano. Di origine ebraica, laureato in giurisprudenza, Foa aderì nel 1933 a Giustizia e Libertà e nel 1935 venne arrestato a causa di una delazione. Nel 1936 venne condannato a 15 anni di carcere dal tribunale speciale fascista. Liberato nell’agosto 1943, aderì al Partito d’Azione e fu un protagonista della Resistenza, quindi fu eletto deputato all’Assemblea costituente.
Dopo lo scioglimento del P. d’A., s’iscrisse al Psi, di cui fu deputato tra il 1953 e il 1964. In quell’anno si oppose al centrosinistra «organico» e aderì alla scissione del Psiup. A partire dal 1948 militò nella Fiom e nella Cgil, di cui fu dirigente nazionale fino al 1970. Dopo la collaborazione con il suo maestro Di Vittorio, lavorò a stretto contatto con Trentin, Santi, Garavini, Pino Ferraris e altri. Dimessosi da ogni incarico sindacale, nel 1972 fu tra i fondatori del Pdup e, lasciato il Parlamento nel 1976, sospese l’attività politica dedicandosi agli studi storici e insegnando in varie università. Eletto senatore nel 1987 con la Sinistra indipendente, approvò la svolta di Occhetto e la trasformazione del Pci in Pds, a cui aderì nel 1991. Sostenitore dei Ds e dell’Ulivo, caldeggiò la nascita del Pd.