Nobel per la Letteratura a Herta Muller "Con la forza della poesia descrive il panorama dei diseredati"
Ansa,08 ottobre, 13:42
ROMA - Herta Muller ha vinto il Nobel per la letteratura. Ecco la motivazione del riconoscimento: "Con la forza della poesia e la franchezza della prosa, descrive il panorama dei diseredati".
Nata nel 1953 a Nitzkydorf nel Banato Svevo, regione di cultura e lingua tedesca passata dopo la seconda guerra sotto il controllo della Romania, ha studiato letteratura tedesca e romena a Timisoara, legata a un gruppo di scrittori e poeti romeno-tedeschi (l’Aktionssgruppe Banat di cui facevano parte Richard Wagner - con cui si e’ sposata e trasferita in Germania nel 1987 - Nikolaus Bergwanger, Rolf Bossert, Franz Hodjak) che praticava la letteratura come opposizione culturale al regime di Ceausescu.
Pubblicò il suo primo libro, ’Niederungen’, a Bucarest nel 1982 e gli altri dopo il suo arrivo in Germania, dove ha vinto nel 1994 il Premio Kleist, nel 2003 (a pari merito con altri due autori) il Joseph Breitbach e l’anno dopo il Konrad Adenauer. Nelle sue opere ha rappresentato, puntando molto sullo stile e la scrittura gli aspetti più crudi del suo ambiente (la miseria e l’arretratezza culturale della minoranza tedesca del Banato) e della situazione politico-sociale della Romania, con un riferimento particolare alla condizione delle donne.
In italiano esiste il romanzo "Il paese delle prugne verdi" edito da Keller e il suo racconto "Una mosca attraversa un bosco dimezzato" nell’antologia "Fuoricampo" di scritti di autrici austriache e tedesche, edito da Avagliano.
L’illogica dittatura
di Andrea Bajani (Il Sole-24 Ore, 19 giugno 2011)
Nella Lettera al padre Franz Kafka scrive che nel rapporto complesso che lo legava a suo padre c’era un aspetto che più di ogni altro determinava la propria sottomissione cieca e atterrita: l’insensatezza del castigo. Kafka scrive a suo padre: «Solo di un incidente dei primi anni ho un ricordo diretto. Forse anche Tu lo rammenti. Una volta, di notte, io piagnucolavo chiedendo acqua, certo non per sete ma probabilmente mezzo per infastidire mezzo per divertirmi. Dopo alcune minacce senza esito, Tu mi togliesti dal letto, mi portasti sul ballatoio e per un poco mi lasciasti lì in camicia davanti alla porta chiusa».
Quello che sconvolge il figlio è l’assenza di ogni comprensibile ratio: «Il fatto per me naturale del chiedere scioccamente da bere e quello straordinario e terribile di essere messo fuori sul balcone io non riuscii mai a porli nella giusta relazione». Anche ne La condanna, uno dei più noti racconti di Kafka, scritto di getto in una notte del 1912, non sembra esserci nessuna logica tra la frase del padre e il suicidio del protagonista. Il padre dice: «Ti condanno a morire affogato», e il figlio si lancia nel fiume.
Ecco, ogni riga di Oggi avrei preferito non incontrarmi, di Herta Müller (che arriva in Italia quattordici anni dopo la prima uscita in lingua originale) contiene quell’insensatezza, tutta kafkiana, della perdita di ogni logica nel rapporto tra l’uomo e un potere assoluto, dell’uomo piegato sul parapetto, sul ponte. O meglio, tra l’uomo e il Dittatore che gli impone una propria, incomprensibile, logica.
È proprio l’impossibilità di comprenderla, quella logica, a fare del potente un Dittatore, e del cittadino un inutile zero. Kafka assegna al padre la lettera maiuscola, lo innalza in un punto simbolico vicino al divino, e viceversa a se stesso riduce le misure fino a sparire. «Non sei che una manciata di nulla», è quello che si sente dire a bruciapelo la protagonista del romanzo di Müller. Da un lato la maiuscola del Padre, dall’altra la «manciata di nulla» della donna, e si sa che anche a prenderlo a manciate, il niente, anche a moltiplicare all’infinito lo zero, è sempre niente il risultato finale.
Non ha nemmeno nome, la donna che parla in Oggi avrei preferito non incontrarmi. Vive presumibilmente in una città della Romania di Ceausescu, lavora in una fabbrica che produce abiti destinati all’esportazione in Occidente, e subisce interrogatori da parte dei servizi segreti in cui è l’insensatezza, appunto, a dare il colore agli incontri. È una sorta di logica portata fino allo stremo delle forze, fino al parossismo, a rovesciarsi nel contrario: «Vengo convocata sempre più spesso: martedì alle dieci in punto, sabato alle dieci in punto, mercoledì o lunedì. Come se gli anni fossero una settimana, mi stupisco che dopo la tarda estate già ritorni l’inverno».
Il suo carnefice, si chiama Albu, il maggiore Albu, che la convoca e la interroga, la costringe a mentire, esibendo un dominio fisico assoluto, in cui seduzione e mortificazione coincidono: «Mi solleva la mano per le punte delle dita e mi schiaccia le unghie una sull’altra, tanto che potrei gridare. Con il labbro inferiore mi bacia le dita, quello superiore lo lascia libero per parlare». Lei ha alle spalle già molte macerie, un matrimonio durato poco, un suocero che aveva cercato di approfittare sessualmente di lei, un padre desiderato, amato e poi perso, un uomo accanto a sé, di nome Paul, alcolizzato, e legato a lei da un terrore che gli si è trasmesso in maniera virale, fin dalla prima volta in cui lei è stata convocata per essere interrogata.
È la paura assoluta, la paura del Padre, quella della condanna che non ha bisogno di esibire ragioni per abbattersi come una scure sul capo. Lei ha anche perso il lavoro, per un delatore vendicativo, che ha distribuito biglietti con su scritto «Tanti saluti dalla dittatura», spacciandoli per biglietti scritti da lei. E soprattutto ha perso Lilli, la sua amica più cara, creatura perduta e innocente, che aveva tentato di passare la frontiera al confine con l’Ungheria ma un soldato l’aveva fermata, l’aveva colpita con uno sparo alle spalle e Lilli era caduta, con i cani tutt’intorno che abbaiavano forte. E la frontiera era rimasta lì, invalicabile se non alle merci, ai vestiti che confezionavano ogni giorno dentro la fabbrica, affidando a loro qualche speranza, perché la portassero altrove.
L’unica possibilità che rimane, per resistere è farsi a metà. Quando la scure si abbatte sul capo, bisogna lasciarle soltanto la testa, offrire il corpo e dimenticarsi di avere anche altro. Senza concedere al Padre, al Dittatore, di prendere anche quello che passa di dentro: «Da quando lascio a casa la mia felicità, il baciamano non mi paralizza più come prima». Dimenticarsi di voler essere felice, lasciare il desiderio altrove, e sperare di ritrovarlo al ritorno. Perché è lì che il Padre, il Dittatore, vogliono stare: dentro la testa. A Paul il terrore arriva mentre dorme, la notte, senza che quasi ne abbia consapevolezza: «Nel sonno si allunga di traverso nel letto e si ritrae con un sussulto, così in fretta che senza svegliarsi si spaventa». È quello il posto del Padre di Kafka, la sua condanna a gettarsi nel fiume che all’inizio è solo parola, e poi però il corpo del figlio, il corpo di Giorgio, raggiunge davvero il parapetto, disperato, e si lancia giù, ormai condannato.
È di tutto questo che scrive Herta Muller, in questo romanzo potentissimo, ossessivo, che non dà tregua fino alla fine, fino alla speranza di non impazzire: «Sarebbe meglio se fossero le cose stesse a starti nella testa, pronte ad afferrare, invece dei pensieri sui quali si rimugina senza fine. Preferirei che il galoppino di Albu in persona stesse nella mia nuca invece della sua voce lieve che corrode ed è ancora in me dall’ultima volta. Soltanto cose solide che nella testa hanno bisogno unicamente del posto dove stanno. E negli interstizi resta spazio per la felicità».
QUEL GRIDO PER LE VITTIME DI CEAUSESCU
di VITO PUNZI (Avvenire, 09.10.2009)
Difficile immaginare sia frutto del caso: l’ultimo scrittore tedesco a vincere il Premio Nobel fu Günther Grass, nel 1999, dunque a dieci anni dalla caduta del Muro di Berlino. Oggi, passati altri due lustri e prossimi a quel memorabile 9 novembre, viene riconosciuto il lavoro di cronista della quotidianità in regime di dittatura svolto da Herta Müller, la scrittrice appartenente alla minoranza germanofona rumena oggi residente a Berlino, dove giunse nel 1987 dopo essere fuggita dal proprio paese. Nata nel 1953 e cresciuta nella regione del Banat, una robusta enclave di lingua tedesca, la Müller ha vissuto la propria infanzia in Romania sotto il regime di Ceausescu come ’scuola di paura’ e quella terribile esperienza è diventata il contenuto di diversi suoi romanzi.
Dopo aver studiato all’università di Timisoara, ha lavorato per alcuni anni come traduttrice, finché nel 1979, dopo essersi rifiutata di collaborare con la Securitate, la polizia politica del regime comunista rumeno, venne licenziata. Costretta a vivere dando lezioni private di tedesco, nel 1982 riuscì a pubblicare il suo primo libro, «Niederungen» (Depressioni) solo perché in parte censurato. Dal momento della fuga nella Repubblica Federale Tedesca, Herta Müller ha dato voce alla propria memoria, raccontando al ritmo di un libro all’anno la quotidianità del regime totalitario rumeno, in particolare nel romanzo «Der Fuchs war damals schon der Jäger» (La volpe allora era già il cacciatore), del 1992, come pure la complicata esistenza della minoranza tedesca del Banat e la difficile, spesso disperata condizione delle donne rumene costrette a subire, oltre alle ristrettezze politiche, anche il ricatto sessuale, diffusamente praticato nei luoghi di lavoro. Oltre che per i vibranti contenuti, la Müller è diventata in Germania una delle scrittrici più apprezzate anche in considerazione del valore stilistico delle sue opere, tanto da essere ammessa fin dal 1995 nell’Accademia per la Lingua e la Poesia di Darmstadt, l’istituzione che assegna il Büchner-Preis, il più prestigioso premio letterario di lingua tedesca. Oltre che in qualità di scrittrice, Herta Müller è stata protagonista delle cronache tedesche fin dal 1995, quando prese posizione contro l’unificazione dei Pen-Club tedeschi, prima divisi in ragione della separazione della Germania.
Più recentemente, nel 2008, con una lettera aperta a ’Die Zeit’, ha duramente criticato la presenza dello storico Sorin Anobi e del germanista Andrei Corbea-Hoisje, due ex informatori della Securitate, ad un convegno organizzato dall’Istituto di Cultura Rumeno di Berlino. D’altra parte, la sua drammatica riflessione sul passato continua anche con il suo ultimo romanzo, «Atemschaukel» (Altalena di fiato, 2009), col quale racconta la storia di un giovane della minoranza tedesca rumena deportato in un lager sovietico dopo la seconda guerra mondiale.
Nota finora in Italia solo per «Il paese delle prugne verdi» (traduzione di Alessandra Henke, Keller Editore, Rovereto 2008, pp. 256, euro 14), dedicato alla vita degli oppositori al regime di Ceausescu, è giusto aspettarsi ora altri suoi testi tradotti. Anche perché il materiale tra cui scegliere certo non manca.
DOMANI A STOCCOLMA IL NOBEL PER LA LETTERATURA
Müller
Il mio Dio «dissidente»
Di confessione cattolica ma molto riservata sulle questioni spirituali, la scrittrice di Berlino nei suoi romanzi ha parlato della «pazienza» divina: «Lui ha abbastanza tempo, più di noi uomini...
Un Creatore nudo e il diavolo meschino, il Cristo da baciare ma pure l’urlo al cielo La romeno-tedesca che ha denunciato le violenze della dittatura comunista tratteggia personaggi di un tormentato cristianesimo
da Berlino Vito Punzi (Avvenire, 06.12.2009)
Domani la scrittrice Herta Müller riceverà a Stoccolma il premio Nobel per la letteratura per aver dipinto «con la forza della sua poesia e la crudezza della sua prosa il panorama dei deportati». Alla tedesca d’origine rumena verrà dunque riconosciuto il prezioso lavoro di cronista della quotidianità in un regime dittatoriale e ancor più di maestra nella conservazione e nell’elaborazione della memoria.
Da più parti, in questi mesi d’inattesa esposizione mediatica, le è stato chiesto con una punta di veleno quando inizierà a scrivere della Germania, sua attuale patria, e dell’attualità. Sentendosi così implicitamente accusata di «scrivere solo del passato», la Müller ha risposto dalle pagine del settimanale Zeit definendo la domanda «strana», visto che «per autori come Primo Levi, Jorge Semprün o Georg-Arthur Goldschmidt nessuno si sognerebbe di mettere in discussione il loro impegno con i crimini nazisti».
Oggi residente a Berlino, dove giunse nel 1987 dopo essere fuggita dal proprio Paese insieme a Richard Wagner, allora suo marito, la scrittrice è rimasta fedele al vincolo che la lega al passato anche nel suo ultimo libro pubblicato in Germania, Atemschaukel («Altalena di fiato», 2009), col quale racconta la storia di un giovane della minoranza tedesca rumena deportato in un lager sovietico dopo la seconda guerra mondiale.
Una vicenda ritagliata sulla biografia di Oskar Pastior, dal quale, nonostante la ritrosia del poeta e traduttore a riaprire e a parlare delle proprie, antiche ferite, la Müller poté attingere direttamente, prima della sua morte improvvisa, nel 2006.
«Aveva raccontato della sua deportazione solo marginalmente - ha ricordato la scrittrice in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine -, perché era un uomo addomesticato e impaurito dal lager. Dopo la sua morte mi sono bloccata, ma alla fine mi sono convinta che con questo libro lui in qualche modo avrebbe continuato a vivere».
Del resto la Müller ha sempre ammesso di essere approdata alla poesia e alla narrativa perché alla ricerca di uno strumento di liberazione di fronte alle catastrofi sperimentate durante l’infanzia e le giovinezza vissute in Romania (il padre convinto nazista, la guerra, le deportazioni, i soprusi sotto la dittatura di Ceausescu).
E la sua è una lingua che nell’essenzialità riesce ad evocare, che nel nominare gli oggetti della quotidianità consuma il tentativo di realizzare, come la chiama lei stessa, una «pantomima del vissuto», cerca di «giungere in prossimità dell’essenziale». Neppure l’inatteso riconoscimento del Nobel è riuscito a scalfire lo sguardo della Müller rivolto all’essenziale: «Non voglio che questo premio mi cambi - ha dichiarato nei giorni scorsi a Le Monde -. In Romania ho integrato la paura della morte al quotidiano. Per non affondare ho tentato di conferire una normalità agli avvenimenti eccezionali».
Della sua religiosità, la Müller non ha mai voluto parlare troppo apertamente. «Conoscevo i barboni, le voci dei lamenti, i segni della croce e le imprecazioni, il Dio nudo e il diavolo meschino», racconta la donna protagonista de «Il paese delle prugne verdi» (Keller Editore, 2008), costruita sull’autobiografia della neo Premio Nobel. Alla stessa si rivolge più avanti la religiosissima protagonista Margit con queste parole: «Sei cattolica dalla nascita e un giorno comincerai di nuovo a pregare. Dio ha abbastanza tempo, più di noi uomini».
Rispondendo a Le Monde , la scrittrice ha voluto ricordare come al catechismo le si dicesse che «Dio è ovunque». Un ricordo cui non ha potuto evitare di aggiungere, con ironia: «Effettivamente è stato il primo dittatore!». E tuttavia va sottolineato come la citata Margit, l’ungherese che «baciava il Gesù di ferro sulla croce» e comunque non rinunciava a «imprecare», sia un personaggio positivo, descritto dalla Müller con evidente simpatia. La stessa conclusione dell’intervista al giornale francese rivela una chiara coscienza di appartenenza della scrittrice tedesca al mistero: «I nostri corpi ci sono prestati per un certo tempo, poi Dio chiede che gli siano resi».