Addio allo scrittore Gabriel Garcia Marquez
Il premio Nobel alla letteratura è morto oggi nella sua casa di Città del Messico a 87 anni. Nei giorni scorsi era stato ricoverato, ma poi dimesso, per l’aggravarsi di una polmonite. ’Gabo’ è stato l’autore di ’Cent’anni di solitudine’, romanzo chiave del realismo magico ibero-americano. Negli ultimi anni aveva limitato le apparizioni pubbliche a causa della malattia. Il presidente colombiano Santos: "I giganti non muoiono mai" *
CITTA’ DEL MESSICO - E’ morto lo scrittore e premio Nobel alla letteratura Gabriel Garcia Marquez. ’Gabo’ era stato ricoverato in ospedale il 3 aprile scorso a Città del Messico, nella clinica Salvador Zubiran per l’aggravarsi di una polmonite. Successivamente era stato dimesso. L’autore di Cent’anni di solitudine, romanzo chiave del realismo magico ibero-americano, aveva compiuto 87 anni il 6 marzo scorso. Negli ultimi giorni, secondo quanto avevano riferito i medici, le sue condizioni di salute erano apparse particolarmente delicate. La sorella Aida, 83 anni, intervistata dall’emittente colombiana Caracol sulle condizioni di salute del premio Nobel colombiano, aveva detto: "Dobbiamo essere pronti alla volontà di Dio. Uno vorrebbe che la gente fosse eterna, che non morisse mai, ma dobbiamo essere pronti alla volontà di Dio". Il quotidiano di Bogotà El Espectador sottolinea in un titolo a tutta pagina "Per sempre Gabriel".
La morte di Marquez è la notizia di apertura di tutti i siti online e dei notiziari tv in Brasile. Il premio Nobel colombiano è ricordato come "uno dei maggiori scrittori del XX secolo". Molti media brasiliani mostrano immagini di ’Gabo’ a Cuba, al fianco del "suo amico Fidel Castro". Marquez sarebbe morto a casa, a Città del Messico, attorno a mezzogiorno, riferiscono persone vicine alla sua famiglia che hanno parlato a patto di mantenere l’anonimato per rispettare la privacy dei suoi cari.
IL VIDEORITRATTO: QUELLE INVENZIONI FANTASTICHE
Considerato lo scrittore più popolare in lingua spagnola dopo Miguel de Cervantes nel 17esimo secolo, Marquez ha raggiunto una celebrità letteraria che ha generato confronti con Mark Twain e Charles Dickens.
LEGGI Il personaggio: una vita tra letteratura e passione civile
Con lui la letteratura sudamericana ha trovato la reale coscienza della propria identità, saldando la tradizione culturale europea con il mondo e la tradizione locale in modo nuovo, risolto. Quel modo che sarà all’origine del boom dei narratori latinoamericani nel mondo negli anni ’60. E l’emblema non può che essere l’esemplare realtà della sua fantastica Macondo, la provincia di fantasia creata dallo scrittore e in cui si svolgono quasi tutti i suoi racconti, riflettendo verità e storia della Colombia d’oggi.
Il romanzo del 1967 Cent’anni di solitudine ha venduto 50 milioni di copie in più di 25 lingue: nella memoria di chi lo ha amato risuonerà sempre uno degli incipit più celebri della storia della letteratura: quello in cui il colonnello Aureliano Buendia viene portato dal padre a conoscere il ghiaccio. Tra le sue pubblicazioni anche Cronaca di una morte annunciata, L’amore ai tempi del colera, Il generale nel suo labirinto, e L’autunno del patriarca. Marquez ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1982 (video), e i suoi libri sono stati venduti più di qualsiasi altra pubblicazione in spagnolo eccetto la Bibbia.
LEGGI L’incipit di ’Cent’anni di solitudine’ / GUARDA Il ritorno a Macondo
Il presidente della Colombia, Juan Manuel Santos, ha scritto in un tweet: "Mille anni di solitudine e tristezza per la morte del più grande dei colombiani di tutti i tempi. Solidarietà e condoglianze a Gabo e la famiglia". Poi, alcuni minuti dopo, Santos torna a scrivere: "I giganti non muoiono mai". In un discorso alla nazione, Santos ha ricordato "lo scrittore che ha cambiato la vita dei suoi lettori", annunciando tre giorni di lutto nazionale nel Paese. In un breve intervento a reti unificate, Santos ha "ringraziato" lo scrittore per aver ricordato al mondo che "la Colombia e l’America Latina non siamo, ne saremo, condannati ad altri 100 anni di solitudine e che sapremo avere una seconda opportunita’". "Per noi, i colombiani, ’Gabo’ non ha inventato il realismo magico ma è il miglior esponente di un paese che è’ in se’ stesso realismo magico", ha aggiunto, ricordando che le bandiere colombiane saranno a mezz’asta quale omaggio "a chi ha dato voce ai nostri silenzi e alle leggende dei nostri nonni".
* la Repubblica, 17 aprile 2014 (ripresa parziale)
Addio a Gabriel Garcia Marquez
Lo scrittore colombiano, autore di ’Cent’anni di solitudine’, aveva 87 anni. Era stato insignito del Nobel per la letteratura nel 1982
Redazione ANSA BOGOTA’ 18 aprile 2014
Barack Obama piange ’’uno dei più grandi scrittori visionari’’ di sempre. Vladimir Putin rende omaggio a ’’un grande amico della Russia’’. Shimon Peres ne ricorda ’’il vivo interesse per la pace fra Israele e Palestina’’. E poi Raul Castro, Maduro, i rivoluzionari delle Farc, Gilberto Gil, Isabel Allende, Eduardo Galeano e tanti altri. Lo ricordano capi di stato, scrittori, personalità, è davvero trasversale l’omaggio del mondo a Gabriel Garcia Marquez, lo scrittore premio Nobel colombiano scomparso ieri.
Barack Obama ricorda quando lo incontrò: ’’Una volta ho avuto il privilegio di incontrarlo in Messico, dove mi ha regalato una copia di Cent’anni di solitudine con dedica, un volume che oggi accarezzo con affetto’’. Il presidente Usa lo definisce ’’Fiero colombiano, rappresentante e voce del popolo delle Americhe, maestro del genere del ’realismo magico’’.
Dall’altro capo del mondo Vladimir Putin ricorda come un ’’grande amico della Russia, scrittore e pensatore, fedele a umanesimo e giustizia. Marquez visitò l’Urss già negli anni ’50 e i suoi libri furono tradotti in russo e pubblicati nel Paese fin dall’epoca sovietica.
’’Ho avuto il privilegio di incontrarlo in Colombia - dice Peres. - Lui mostrò vivo interesse per la pace fra noi e i palestinesi. La attendeva con ansia e mi disse: ’Finché non ci sarà la pace nella vostra terra il mio cuore sarà spezzato. Prego che questo mio sogno si realizzi’. Il mondo - aggiunge Peres - avvertirà la mancanza di un grande sognatore che ha saputo raccontare in modo così bello le verità della vita, ai bambini e anche a noi adulti’’.
La presidente brasiliana Dilma Rousseff dice che ’’Gabo conduceva i lettori nelle sue Macondo immaginarie come chi svela un mondo nuovo ad un bambino. I suoi singolari personaggi e la sua America latina esuberante rimarranno marcati nei cuori e nelle menti dei suoi milioni di lettori’’, mentre l’ex presidente Luiz Ignacio Lula Da Silva ha ricordato il ’’Marquez grande militante delle cause democratiche popolari ed un simbolo per tutti noi in America latina’’. ’’Amico di leader rivoluzionari’ - commenta il presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, alla morte di Gabriel Garcia Marquez - ha lasciato il segno della sua impronta spirituale nella nuova era della nostra America".
Anche le Farc, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc) gli rendono omaggio "al più grande scrittore della nostra storia" ricordando alcune parole del discorso di accettazione del Premio Nobel di Gabriel Garcia Marquez: "non è ancora troppo tardi per costruire una utopia che ci permetta di condividere la terra’’.
Il presidente di Cuba Raul Castro si è rivolto alla moglie di Gabo così: ’’Cara Mercedes, il mondo, soprattutto i popoli della nostra America, abbiamo perso fisicamente un grande intellettuale’’. Beve alla salute di Gabo lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano ’’per ridere insieme, perché finché le sue parole vivono, ridono e dicono ’sono vivo anch’io’", mentre la collega Isabel Allende ricorda il suo maestro così: ’’Siamo tutti di Macondo. Solo poche opere letterarie riescono a sopravvivere all’implacabile passo del tempo", sottolinea la scrittrice, ’’ha mostrato a tutti i latinoamericani la nostra immagine nello specchio delle sue pagine. Nei suoi libri ho trovato la mia famiglia, il mio paese.. il colore, il ritmo, l’abbondanza del mio continente".
Il cantante e musicista brasiliano Gilberto Gil, ex ministro della Cultura del governo Lula, rende omaggio citandolo ’’Ho imparato che ognuno vuole vivere sulla cima della montagna, senza sapere che la vera felicita’ sta in come questa montagna e’ stata scalata’’. Infine l’Italia: il ministro di beni culturali e turismo Dario Franceschini: ’’Ora sarà a Macondo, che esiste, eccome. Lo sappiamo bene noi che ci siamo stati’’.
L’affetto del mondo. Gabo come Mandela
di Francesco Piccolo (Corriere della Sera, 19.04.2014)
L’affetto del mondo accompagna, con una straordinaria onda emotiva che dilaga online, la scomparsa di Gabriel García Márquez, lo scrittore premio Nobel morto a Città del Messico dopo una lunga malattia. Sentimento di appartenenza ed eredità condivisa: persone anche molto lontane si riconoscono in Cent’anni di solitudine, il capolavoro di Gabo, come García Márquez era conosciuto.
Ogni uomo che lascia così tanti amici deve per forza essere stato un grande uomo. Per questo, la scomparsa di Gabriel García Márquez sta mostrando reazioni forti in tutto il mondo. Qualcosa di simile a quanto successo con Nelson Mandela. Però il conforto che ci danno gli scrittori, lo esprimiamo dicendo: lui vive ancora, perché ci ha lasciato questo o quel libro. Di Gabo sappiamo perché non morirà mai più.
Tutti, o quasi tutti, hanno letto Cent’anni di solitudine. Tutti, o quasi tutti, si ricordano dove e quando lo hanno letto. Per esempio, io tornavo ogni giorno su una panchina del par- co vicino a casa, esattamente come García Márquez tornava di continuo davanti al plotone di esecuzione di Aureliano Buendía.
Il romanzo è lungo e complicato, oltre a essere bellissimo. E quindi non era consigliato leggersene qualche pagina prima di andare a dormire. È questa la magia di certi romanzi: se li vuoi capire, se ci vuoi stare dentro, devi galoppare tra le pagine; e però hanno sviluppato un antidoto alla costrizione, una potenza della pagina che ti avvinghia e ti fa galoppare.
E ce n’è un’altra di magia: chi ha letto Cent’anni di solitudine, mentre lo leggeva, si è dimenticato del mondo - delle cose da fare, dei baci da dare, dei compiti da svolgere; si è dimenticato di mangiare, di dormire, e ha fatto un sacco di confusione tra la vita propria e quella dei personaggi, tra la propria città e Macondo.
E anche qui, c’è una corrispondenza perfetta con il romanzo, che è costruito con un tempo esploso, in cui si va in avanti e indietro, si ripassa per certi momenti decisivi e si vola via in qualche altro secolo. Molti anni dopo, siamo rimasti incantati da certi azzardi nella narrazione, da Quentin Tarantino ad altri geni del cinema. Ma solo perché ci eravamo dimenticati di Cent’anni di solitudine.
Nessuno ricorda la trama, o l’intreccio dei personaggi. Si ricordano le code di maialino, la fucilazione, un castagno; si ricorda come muoiono i personaggi ancora più di come hanno vissuto. Ma soprattutto - è quello che sta accadendo in queste ore, con le parole che rimbalzano tra i social e i giornali e le tv e i caffè affollati - si ricorda di aver tenuto tra le mani quel libro, di averlo cominciato ed esserci caduto dentro. Si ricorda quando e dove si è letta la parola Macondo e il fatto che un romanzo cominci con le parole «Molti anni dopo...».
E poi un ammasso di strane immagini apparse nella testa, di bambini e adulti, di gemelli e di vecchie che non muoiono più. Si ricorda più di ogni altra cosa una sensazione sfocata e precisissima: un sentimento di appartenenza al genere umano, attraverso le vicende disgraziate di una famiglia e di una città prima immaginata e poi costruita da José Arcado Buendía, il primo di una lunghissima serie di Buendía. Quel sentimento di appartenenza al genere umano corrisponde alla Creazione. Quasi con esattezza.
Questo è il segreto di Cent’anni di solitudine: un uomo, un giorno, decide di creare la città dal nulla, quindi crea un complesso di relazioni che il tempo moltiplica e complica. E sfogliando le pagine sembra di scorrere la nascita e i dolori di tutto il genere umano. Non è usuale, in un romanzo.
Tutti i lettori che oggi ricordano il momento in cui hanno cominciato il Grande Libro, quando lo hanno richiuso sull’ultima frase: «Le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra», hanno chiuso anche gli occhi e hanno sentito con precisione di appartenere al mondo.
A molti piace dire che in fondo García Márquez ha scritto un solo libro, questo. La verità è che ne ha scritti molti, e molti libri buoni. Ma ha anche scritto un romanzo gigantesco. E non è colpa sua.
Salman Rushdie ricorda Gabriel García Márquez
Caro soldato di Macondo hai combattuto la mia guerra
“Il più grande di tutti noi”
di Salman Rushdie (la Repubblica, 23.04.2014)
Gabo vive. La straordinaria risonanza che ha avuto in tutto il mondo la morte di Gabriel Garcí a Márquez e il cordoglio sincero provato dai lettori di ogni Paese alla notizia della sua dipartita sono il segnale che i libri di Gabo sono più vivi che mai.
Da qualche parte c’è ancora un «patriarca» dittatoriale che fa cucinare e servire il suo rivale in una cena sontuosa per i suoi invitati, un vecchio colonnello che aspetta una lettera che non arriva, una bellissima ragazza fatta prostituire dalla nonna senza cuore e un patriarca più gentile, José Arcadio Buendía, uno dei fondatori del nuovo insediamento di Macondo, un uomo interessato alla scienza e all’alchimia, che dichiara alla moglie inorridita che «la terra è rotonda come un’arancia».
Viviamo in un’epoca di mondi alternativi, di fantasia: la Terra di Mezzo di Tolkien, la Hogwart di J. K. Rowling, l’universo distopico di The Hunger Games, i mondi dove vampiri e zombie si aggirano in cerca di prede. È un momento d’oro per posti del genere. Ma a dispetto di questa moda della narrativa fantastica, nei più raffinati microcosmi immaginari della letteratura c’è più verità che fantasia: nella Yoknapatawpha di William Faulkner, nella Malgudi di R. K. Narayan e naturalmente nella Macondo di Gabriel García Márquez, l’immaginazione è usata per arricchire la realtà, non per fuggire da essa.
Cent’anni di solitudine è uscito ormai 47 anni fa, e nonostante continui a godere di una popolarità in generale smisurata e persistente, il suo stile - il realismo magico - in America Latina ha lasciato il posto ad altre forme di narrazione, in parte per reazione allo smisurato successo di García Márquez.
Il più stimato tra gli scrittori latinoamericani della nuova generazione, Roberto Bolaño, è famoso per aver dichiarato che il realismo magico «fa schifo» e per essersi fatto beffe della popolarità di García Márquez, definendolo «un uomo terribilmente compiaciuto di frequentare tutti quei presidenti e arcivescovi ».
È stato uno scatto infantile da parte di Bolaño, ma ha dimostrato quanto sia ingombrante, per tanti scrittori latinoamericani, la presenza del colosso. («Ho la sensazione », mi ha detto una volta Carlos Fuentes, «che gli scrittori latinoamericani ormai non riescano più usare la parola “solitudine”, per paura che la gente pensi che stiano alludendo a Gabo. E temo», aveva aggiunto maliziosamente, «che ben presto non potremo più usare nemmeno la locuzione “Cent’anni” ».)
Nessuno scrittore mondiale ha mai avuto un impatto paragonabile a quello di García Márquez nell’ultimo mezzo secolo. Ian McEwan ha giustamente paragonato la sua preminenza a quella di Charles Dickens: nessuno scrittore, dai tempi del maestro inglese, è mai stato tanto letto e tanto profondamente amato come Gabo.
Il problema dell’espressione «realismo magico» è che quando la si dice o la si sente dire, se ne dice o se ne sente soltanto metà, il magico, e non ci si cura dell’altra metà, il realismo. Ma se il realismo magico fosse solo realismo, non conterebbe nulla. Sarebbe una semplice stravaganza dove tutto può succedere e di conseguenza nulla lascia il segno. Il magico del realismo magico funziona perché le sue radici affondano in profondità nel reale, perché si alimenta del reale e vi getta luce in modi meravigliosi e inaspettati.
Prendiamo questo famoso passaggio di Cent’anni di solitudine : «Non appena José Arcadio chiuse la porta della camera, lo scoppio di una pistolettata rimbombò nella casa. Un filo di sangue uscì da sotto la porta, attraversò la sala, uscì in strada, continuò in un percorso diretto lungo marciapiedi disuguali, scese scalinate e scalò parapetti, si lasciò dietro la Strada dei Turchi, girò a destra in una cantonata e a sinistra in un’altra, piegò ad angolo retto davanti alla casa dei Buendía, passò sotto la porta chiusa, attraversò il salotto buono strisciando lungo le pareti per non macchiare i tappeti [...] e finì nella cucina dove Úrsula stava per rompere trentasei uova per fare il pane. “Ave Maria Purissima!” gridò Úrsula ».
Qui sta succedendo qualcosa di assolutamente fantastico. Il sangue di un uomo morto acquista uno scopo, quasi una vita propria, e si muove metodicamente attraverso le strade di Macondo fino a fermarsi ai piedi di sua madre. Il comportamento del sangue è «impossibile », eppure a leggere questo brano si ha la sensazione di leggere qualcosa di veritiero, il viaggio del sangue come il viaggio della notizia della sua morte dalla stanza dove si era sparato alla cucina di sua madre, e il suo arrivo ai piedi della matriarca Úrsula Iguarán è alta tragedia: una madre apprende che suo figlio è morto. Il sangue di José Arcadio può e deve continuare a vivere finché non riesce a portare a Úrsula la triste notizia. Il reale, grazie all’aggiunta delmagico, guadagna forza drammatica ed emotiva. Diventa più reale, non meno reale.
Il realismo magico non è stata un’invenzione di García Márquez. Prima di lui sono venuti il brasiliano Machado de Assis, l’argentino Jorge Luis Borges e il messicano Juan Rulfo. García Márquez studiò attentamente il capolavoro di Rulfo, Pedro Páramo , e ha detto che ebbe su di lui un impatto paragonabile a quello della Metamorfosi di Kafka. (Nella città fantasma di Comala, in Pedro Páramo, è facile vedere il luogo di nascita della Macondo di García Márquez.)
Ma lo ripeto: per volare la fantasia ha bisogno di avere un solido terreno sotto di sé. Io conoscevo i colonnelli e i generali di García Márquez, o almeno i loro corrispettivi indiani e pachistani; i suoi vescovi erano i miei mullah, le sue strade del mercato i miei bazar.
Il suo mondo era il mio tradotto in spagnolo. È più che normale che me ne sia innamorato, non per la sua magia (anche se per uno scrittore cresciuto con le storie di meraviglie dell’Oriente anche questo elemento non era privo di fascino), ma per il suo realismo.
La differenza era che il mio mondo era più urbano del suo: è la sensibilità del villaggio che dà al realismo di García Márquez quel suo sapore particolare, il villaggio dove la tecnologia spaventa, ma una ragazza devota assunta in cielo è perfettamente credibile, dove - come nei villaggi indiani - si crede che il miracoloso sia dovunque e coesista con il quotidiano.
García Márquez era un giornalista che non perdeva mai di vista i fatti. Era un sognatore che credeva nella verità dei sogni. Era anche uno scrittore ca- pace di momenti di una bellezza farneticante, e spesso comica. All’inizio dell’ Amore ai tempi del colera : «L’odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati».
Nel pieno dell’ Autunno del patriarca , dopo che il dittatore ha venduto il Caribbean agli americani, «se lo portarono via in pezzi numerati gli ingegneri nautici dell’ambasciatore Ewing per seminarlo lontano dagli uragani, nelle aurore di sangue dell’Arizona, se lo portarono via con tutto quello che aveva dentro, signor generale, col riflesso delle nostre città, coi nostri annegati timidi, coi nostri draghi dementi».
E naturalmente, l’indimenticabile: «Il colonnello Aureliano Buendía promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati l’uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatré imboscate e un plotone di esecuzione. Sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo».
Per tanta magnificenza l’unica reazione possibile è la gratitudine. È stato il più grande di tutti noi.
Traduzione di Fabio Galimberti