Addio Andreatta, padre dell’Ulivo
di Edmondo Berselli (la Repubblica, 27 marzo 2007)
Talvolta la vicenda di un uomo, anche se si conclude con una tragedia anticipata, con il corpo che tradisce la mente, riesce a essere esemplare. Non ideologica, perché Nino Andreatta rifuggiva dall’ideologia: ma sta di fatto che il suo tragitto intellettuale, prima di spezzarsi nell’aula della Camera il 15 dicembre 1999, sembra riassumere in sé un intero sviluppo politico.
Era anticomunista nelle fibre più profonde di sé; democristiano con un disprezzo esibito delle pratiche di partito e nello stesso tempo con un orgoglio e uno spirito di appartenenza che lo inducevano a immaginare ancora soluzioni politiche, durante il disfacimento del suo partito, a oltranza, senza tregua e senza rassegnarsi, come se un’ossessione potesse placare una disperazione; e infine convinto che per una riflessione politica rigorosa, oltre che per una scelta etica irresistibile nella sua eleganza, i cattolici dovessero imboccare la via collocata a sinistra nel nascente e già problematico bipolarismo italiano.
Adesso una formula sbrigativa potrebbe illustrarlo come il vero padre del Partito democratico. Non significherebbe nulla se non si avesse in mente la volontà feroce con cui aveva cercato di opporsi al tramonto della Dc e dei Popolari, il sostegno scettico a Mino Martinazzoli, l’impegno da naufraghi nel Patto per l’Italia con Mario Segni. Soltanto dopo che la navicella dei centristi si era arenata, con i suoi sei milioni di voti, sull’ultima spiaggia alle elezioni del 1994, aveva compiuto la sua scelta. Uno scarto da purosangue, per lui che si era perfino candidato a sindaco di Bologna, pur di scalfire il potere comunista. Prima aveva negato la fiducia al governo di Silvio Berlusconi: «Verso questa destra ho una pregiudiziale morale»; e subito dopo si era gettato nello sforzo di evitare la «deriva plebiscitaria», il «bonapartismo», quell’ondata che stava risucchiando a destra i Popolari sotto la segreteria di Buttiglione.
Come cattolico poteva sfiorare venature anticlericali, se si trattava di interpretare la laicità come un criterio che non venisse a patti con i traffici dello Ior. Come democristiano era in grado di sfoggiare pensieri giacobini, taglienti, irriducibili alle convenienze clientelari o a complicità da sottogoverno.
Come uomo politico tout court, si dedicò al pensiero infinito di come riorganizzare l’alternativa a una «destra gaglioffa». Con quella stessa verve polemica che aveva praticato a usura contro il Psi di Craxi, contro «il commercialista di Bari», contro il «nazional-socialismo», Andreatta si dedicò alla ricerca di una leadership per il centrosinistra futuro, dopo il luttuoso fallimento della «gioiosa macchina da guerra» nel ‘94. La trovò in Romano Prodi, attirato verso la politica con l’ironia socratica del maestro ancora in grado di condizionare l’allievo.
Ma si sbaglierebbe a pensare che l’amichevole intrigo di Andreatta avesse come traguardo una soluzione politica modesta, un accordo minore, un compromesso mediocre. Nella primavera del 1996, a un convegno a Bologna, mentre incombevano le elezioni politiche e il neoliberista Berlusconi prometteva di tagliare il peso fiscale, Andreatta fece sfoggio della sua migliore sfrontatezza sostenendo che occorreva anzi aumentarle, le tasse. Perché non accettava il liberismo dei provinciali. Aveva individuato la tendenza ancora prima del 1989 e del crollo del Muro, allorché aveva intuito che il destino del mondo senza più barriere e blocchi geopolitici era davvero in quella parola che si cominciava a usare, la «globalizzazione». Di qui il suo scetticismo verso gli europeismi retorici, nonché verso la piccola Europa bruxellese, e invece la concezione di un continente largo e aperto, capace di muoversi liberamente dentro i grandi flussi del pianeta.
Si esprimeva qui il suo singolare keynesismo, un’inclinazione sociale fatta di doveri prima che di diritti, ma in cui il primo dovere era l’accettazione integrale del mercato e dei processi competitivi. E che quindi lo portava a considerare una fastidiosa stravaganza della storia la conquista del potere da parte di un monopolista come Silvio Berlusconi: «Lei chiede per sé la fiducia che si concede al cittadino comune», aveva detto il 20 maggio 1994 durante il dibattito in aula; «ma lei non è un cittadino comune, è il proprietario di una colossale concentrazione di mezzi d’informazione e di interessi economici».
Aveva scelto la sinistra immaginandone un destino americano, con l’idea che le grandi convenzioni di partito e le primarie potessero restituire alla politica quella concorrenza interna che anni di «consociazionismo» (non avrebbe mai ceduto a una ovvietà propagandistica e di destra come «consociativismo»). Convinto che una traccia della Dc di De Gasperi, cattolica, liberale e soprattutto sobria, dovesse essere l’eredità degli ultimi profughi della sinistra democristiana. E che una scia della moralità comunista potesse indurre tutta la sinistra, a fare i conti con la sfida, così difficile, dell’uguaglianza in una società diseguale. In quegli anni, parlare del Partito democratico era una fantasia intellettuale. Forse, il pregio maggiore di Andreatta è consistito nel pensare che nulla fosse reale come la fantasia.
Manca il tempo futuro e abbiamo paura
di Mario Pirani (la Repubblica, 14 maggio 2012)
Con una sua frequenza atemporale, di tanto in tanto, la rivista Arel fa la sua ricomparsa. Ci soffermiamo allora a sfogliarla con l’amore intellettuale e la nostalgia che seguitiamo a nutrire per il suo compianto fondatore, Beniamino Andreatta, e con gratitudine per quanti, a cominciare da Enrico Letta, hanno mantenuto vivo quel piccolo ma fervido focolare di idee non precostituite. Ma quel che soprattutto smuove l’animo dei pochi reduci di una generazione politica ormai sperduta penso sia il poter recuperare uno di quei luoghi fattisi rari dove ancora trova spazio il libero formarsi di un pensiero eterodosso e lo svolgersi di una dialettica di creatività democratica priva di barriere. Un tempo vi erano testate di riferimento, da Nord Sud a Tempo presente, da Civiltà delle Macchine al Politecnico, e molte altre. A quei giardini del pensiero è subentrato il rapidissimo disseccarsi nell’immediatezza effimera mass-mediatica di innesti senza fioritura
Ecco perché questa settimana nella rubrica mi soffermo su un discorso non usuale nella tematica politica ma che un ministro ha voluto far proprio, riportandoci a quell’atmosfera di ricchezza di pensiero che nel passato nutriva in un colloquio incrociato politici e artisti, filosofi e giornalisti, grandi maestri e intellettuali appena sbarcati da Matera o da Palermo, che si sentivano impegnati d’ufficio in una ricerca la cui finalità immediata era spesso sfuggente.
Il "tempo" è il tema che Arel in questo denso numero propone ad Andrea Riccardi, ministro della Cooperazione internazionale e dell’integrazione, (che, però, rifiuta l’aggettivo tecnico: «Non so in che senso sono tecnico, qualche volta dico che sono pirotecnico, nel senso che sono un uomo che ha una esperienza di umanità...»). «La sensazione è che siamo in un tempo in cui conta solo il presente. Ci troviamo, infatti, in un momento in cui sembra mancare il tempo futuro. Abbiamo paura del futuro, perché temiamo sia un tempo di crisi maggiore.... Soprattutto temiamo il futuro perché mancano le visioni. Karol Wojtyla in un verso dei grigi anni polacchi, diceva: "L’uomo soffre soprattutto per mancanza di visione. Mi sembra sia proprio questa la sofferenza italiana ed europea, la mancanza di visione. Manca la visione perché si è bloccati dalla paura. Cosa sarà il domani?" Vorrei aggiungere che c’è una crisi del tempo passato. Che è una crisi della memoria. Non sappiamo da dove veniamo. Ci troviamo alle spalle questo tempo della Seconda Repubblica che mi appare un tempo circolare, non un tempo lineare. Io credo che l’Occidente abbia perso l’idea di poter fare la storia e, quindi, di poter determinare il futuro del mondo. Credo che dovremmo ritrovare il senso del tempo presente come premessa del futuro. Eppure nelle nostre società c’è una carenza di speranza. Siamo dominati dalla paura».
Riccardi recita qui parole che sono anche le nostre e pone domande simili, ma le risposte restano ardue. «Se penso, ci dice, all’Italia della mia giovinezza, all’Italia del boom, rivedo un paese che andava verso il futuro. Quale? C’era una visione utopica comunista e c’era una speranza cattolica, ma c’era soprattutto l’idea che bisognava costruire la società di domani. Oggi mi chiedo se esiste più un tempo della nazione? Con la globalizzazione che ha coinciso con la Seconda Repubblica mai nata? Con la globalizzazione i tempi nazionali si sono avviliti, ridotti ed è ricominciato un tempo globale. Ma esiste questo tempo globale? Come si fa a disegnarlo? Come si fa a scrivere la storia del futuro globale?».
Sembra che questo intelligente ministro non si chieda se sia possibile ancora scrivere la storia dopo il dissolversi di ogni filosofia della storia, di ogni ideologia. La sua risposta non ci basta. Non basta ripetere: «Allora occorrono visioni. Occorre la capacità di coniugare il tempo nazionale con il tempo globale; diversamente si sprofonda in un caos ciclico».
UN CATTOLICO ADULTO
Nel ricordo di Beniamino Andreatta il richiamo del premier al Concilio come monito alla Cei.
La citazione: si agisca «senza la sacrilega intenzione di coinvolgere Dio nelle sue scelte»
Prodi: laicità e tolleranza dei cattolici adulti
di Ninni Andriolo (l’Unità, 05 Aprile 2007) /
Roma. Nino Andreatta, ricordato alla Camera da Romano Prodi con la commozione del discepolo che racconta la lezione umana e civile del maestro. E la tensione di chi rivendica una dimensione laica all’impegno politico dei credenti, nel pieno di uno scontro sui Dico che oppone Chiesa e governo.
Un Andreatta «profondamente calato nella complessa realtà del suo tempo, che, tuttavia, ne andava talmente oltre da apparire quasi come “fuori dal tempo”». Questo «l’uomo» tratteggiato, ieri mattina, dal Presidente del Consiglio. Uno spirito «laico e cristiano» la cui lezione risulta profondamente attuale nel vivo dei richiami dei vescovi ai cattolici impegnati in politica e delle marce dei parroci annunciate dalla Cei.
Nell’Aula di Montecitorio Prodi ha citato le parole di Andreatta: «ciascuno attinge alla sapienza e cerca di tradurla in azione, senza la sacrilega intenzione di coinvolgere Dio nelle sue scelte». Frasi che suonano come monito, come rifiuto di ogni strumentalizzazione della fede, come freno al tentativo di contrapporre Costituzione repubblicana e coscienza.
Andreatta cattolico adulto, quindi. Proprio come Prodi che rivendicava il diritto a esprimersi laicamente, durante il referendum sulla procreazione assistita, e che - recentemente - ha opposto il suo «non accettiamo lezioni sui diritti delle persone» ai «non possumus» d’Oltretevere. Sbagliato pensare che il premier, ieri, si sia fatto scudo delle parole del suo ex professore - legato tanto a Moro quanto a Dossetti - per replicare a Ruini o a Bagnasco. Ma, certo, non può dirsi casuale il richiamo alla «lezione di Maritain e di Papa Montini», che «viene dal profondo della tradizione cristiana e che ha trovato nel Concilio, vent’anni dopo la fine dell’immane tragedia della guerra, espressioni indimenticabili».
Riferimento illuminante quello al Vaticano II, snodo di una dimensione religiosa e laica che guida da decenni generazioni di cattolici impegnati in politica. Educate al pluralismo e alla tolleranza. «Andreatta ricordava spesso la lezione di Sturzo - sottolinea Prodi - la sua idea di tolleranza, che non è approvazione del male, ma quel rispetto delle persone che “rende più facile l’opera di elevazione morale”. Che è senso delle proporzioni anche nello scontro politico. Perché le cose non sono mai assolute». La laicità, quindi. Come «metodo di approccio alla realtà: forma più alta di anti-ideologia, di anti-fondamentalismo, di anti-assolutismo».
Parole molto forti, anche se Prodi non cita mai - ovviamente - l’interlocutore a cui si rivolge. La laicità, però, non è «separata, cultura», ma «la migliore condizione nella quale si possono confrontare opinioni, culture, fedi, valori diversi, garantiti dalle regole comuni della nostra Costituzione». Il Vaticano II come faro che deve illuminare ancora oggi la rotta, quindi. «Ricordo la calda adesione di Andreatta alle parole del Concilio II sul valore dell’intelligenza, sulla libertà religiosa, sulla dignità della coscienza morale - scandisce il premier - Quel che era stato sperato da intere generazioni veniva ora espresso con parole autorevoli». Il richiamo alla Gaudium e Spes, quindi, documento lontano mille miglia dai diktat ecclesiastici di oggi: «nella fedeltà alla coscienza - scandisce Prodi - i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale».