il manifesto, 28.06.2007
prima pagina
Il pastore italiano
L’investitura è fatta: Walter Veltroni, con un lungo e pragmatico discorso, indica le basi del Partito democratico che vorrebbe: «Ambiente, sicurezza, patto tra generazioni e una politica meno velenosa», questo il programma su cui «costruire la casa per la nuova Italia». Nel frattempo, pieno sostegno al governo e invito all’opposizione a riscrivere insieme le regole del gioco. Prodi ringrazia, per Berlusconi sono solo «banalità»
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editoriale
L’America fatta in casa
Gabriele Polo
La «casa per l’Italia nuova» ieri proposta da Walter Veltroni trova i suoi natali in un «casa vuota»: il Lingotto di Torino, già luogo del conflitto di classe e dell’identità operaia, ora centro commercial-culturale che diffonde pillole di sapere in forma di mercato. La scelta del luogo non è stata [...]
NOTE DA LONTANO 13
Pd
di Rossana Rossanda (il manifesto,20.04.2007) *
«Codesto solo noi sappiamo quel che non siamo, quel che non vogliamo». I versi di Montale calzerebbero benissimo salvo il rispetto, alla penosa vicenda del Partito democratico, che doveva essere un inizio epocale ed è finora un interminabile diniego. In settimana, i congressi di scioglimento della Margherita e dei Ds diranno quel che non vogliono più essere, ma non è chiaro quel che sarà il nuovo partito che dovrebbe nascere in autunno. Lo vogliono «grande» e «riformista» senza ulteriori precisazioni. Fassino si duole che i giornali diano spazio alle battute, non sempre amichevoli, scambiate fra dirigenti - ma a che altro attaccarsi? Scalfari propone che anche i dirigenti si dissolvano, lasciando la parola a un paese che non sta scalpitando per prenderla. D’altro canto quale aggregazione esprimerebbe un’Italia che, come si legge sullo stesso giornale nelle analisi di Ilvo Diamanti, è un guazzabuglio di interessi che chiamar corporativi è già molto, e precisa d’Avanzo, incattivita da lunghi servaggi?
E’ in questo silenzio che si cercano lumi nell’inventario dell’eredità del Novecento (quali padri mettere nel Pantheon e quali mandare alle discariche), cui questo o quel leader si dedica un giorno sì e uno no. L’ultima dei Ds è che mettono fuori Berlinguer e dentro Craxi: della loro storia non hanno nulla da salvare. La Margherita si tradisce meno, sia per virtù sia per reticenza. In confronto, Sdi e Udc brillano di chiarezza: il primo vuol rifare il Partito socialista italiano, raccogliendone i resti dovunque si trovino, il secondo si propone di fare lo stesso con l’ex Democrazia cristiana. Né Boselli, né Casini si attardano sui padri, non sia mai che si urti qualche suscettibilità. Boselli con il nuovo Psi raccoglie le bandiere laiche lasciate cadere dai Ds, Casini niente meno l’idea di un moderatismo cattolico che si scioglierebbe da Berlusconi - mentre il costituendo Partito democratico si ispirerebbe, secondo Veltroni che ne è un araldo, a Bill Clinton, senza radici dalle nostre parti.
Il convitato di pietra di tutta la storia, quello che è stato ucciso e si spera sepolto, è la radice socialista della sinistra. Il socialismo è stato declinato in molte maniere, ma un’idea forte aveva alla base, l’ insopportabilità politica, alla luce della modernità, di un modo di vivere e di produrre inuguagliante e strumentale come quello capitalistico, non regolato se non dal mercato. Sul come rimediarvi, se per riforme o per rivoluzione, è stato l’oggetto del contendere fra socialisti e comunisti, ma che quel «sistema» fosse intollerabile, per l’illibertà sostanziale che esso comporta per la grandissima maggioranza degli uomini (tutti coloro che non detengono mezzi di produzione), era luogo comune. Ma a fine del secolo proprio quel sistema è diventato mondiale, governa non solo attraverso gli stati ma gli stati medesimi, e ha comportato una crescita di disuguaglianze in proporzione sconosciuta rispetto al Novecento. Già Debord diceva: mai l’ingiustizia è stata così enorme, e mai si è protestato di meno.
Questo è il «nuovo» di quella che si definisce sinistra modernizzata, della quale il Pd sarebbe il maggior esponente. Essa è rassegnata alla priorità dei capitali su ogni finalità politica, su ogni idea di società, su ogni altro diritto della persona o di un popolo. E’ pentita di aver creduto e lottato per una società dove il capitale fosse abbattuto o addomesticato o quanto meno sottoposto a un controllo. E’ questa rinuncia che si definisce modernizzazione, è la consegna al mercato come regolatore unico. «Tutto è cambiato», è la litania dei Ds, intenzionati a lasciare ogni aggettivazione non solo comunista ma «socialista» e «di sinistra». Ma con questo lascia anche la sua base sociale storica, quella dei lavoratori dipendenti, salariati, non solo operai e impiegati, ma le figure di quel che Gramsci chiamava «blocco storico della rivoluzione italiana», oggi i declinanti contadini e i crescenti addetti ai servizi e alla produzione immateriale, e gli intellettuali.
Quando ci si duole della crisi della politica sarebbe d’obbligo analizzare di chi e da quali masse avviene il distacco (si preferisce dire «dalla gente», «masse» e soprattutto «classe» essendo ormai termini innominabili). Eppure è agli ineguali interessi e ideali delle diverse fasce della popolazione che rispondono i partiti con i loro diversi programmi. Il Pci, e poi Pds e Ds si sono rivolti, a dire il vero con sempre minore determinazione, al lavoro e ai lavori diversamente dipendenti - sola forma di accesso al reddito e quindi alla possibilità di vivere - o alla forza di lavoro in formazione come i giovani e gli studenti. E mentre si erano battuti contro ogni tentativo di ridurne i diritti, prima di ogni altro all’occupazione e alla sua forza contrattuale, oggi considerano che essi debbono essere subordinati alla competitività dell’impresa, esponendoli al dumping che preme dalle zone dell’Europa e del mondo dove il lavoro è pagato di meno. E accettano che lo stato, e in genere la sfera politica, non possa più intervenire nella delocalizzazione delle imprese verso queste zone, lasciando indifesa la manodopera, braccia e cervelli che aveva conquistato maggiori diritti e compensazioni nelle zone socialmente più avanzate. L’Italia è stata fino agli anni ’80 fra queste. Dopo di allora, anche per il Pci, Pds e Ds il diritto al lavoro e i diritti del lavoro sono passati in secondo piano rispetto alla competitività dell’impresa, che significa produrre a migliore qualità e a minor prezzo -, in Italia praticamente a minor prezzo data la scarsa propensione delle nostre imprese a investire sulla qualità. Il declino dei grandi partiti di sinistra viene prima di tutto dalla perdita di fiducia dei lavoratori nella loro capacità e volontà di difenderli. E se si obietta che, data la globalizzazione, difenderle è impossibile, il risultato è il medesimo o getta nel disorientamento e nella disperazione.
Non è questa la sede per approfondire il discorso, basti segnalare che nessuno è così sciocco da non saperlo, che su questo è caduto il progetto di costituzione europea e che su questo il futuro Partito democratico tace anche per imbarazzo. Difficile infatti scorgere nelle scelte qualche cosa che lo distinguerebbe da un centro moderato. Inclusa la rinuncia a qualsiasi politica economica: in queste settimane sono passati sotto il naso del governo e di quasi tutta la sua opposizione due operazioni supermiliardarie compiute l’una dall’Eni e dall’Enel - nate e cresciute con i soldi pubblici - che si sono comprati pezzi della russa Yukos per conto della russa Gazprom, e l’altra dalla Telecom, che doveva finire in mani messicane e statunitensi, lasciando sul gobbo dello stato oltre 80 mila dipendenti, che si dovrà in qualche misura assistere. Il Pd non esistendo ancora non poteva dir parola, ma i suoi genitori, ancorché in atto di chiudere i battenti, hanno trovato che era bene così, che al mercato la politica non si può opporre. Sostanzialmente che non può più esserci una politica economica e sociale. Politica addio.
Ma intanto i capitali impazzano, hanno scoperto il modo di crescere comprando e rivendendo se stessi, giganteschi tulipani di Galbraith, humus di razzie da parte di predatori feroci quanto transitori. E esistono i lavoratori dipendenti, anche coloro che si credono autonomi ma dipendono dai marosi sollevati dalle proprietà cangianti. E accanto a loro c’è un quarto della popolazione costituita da disoccupati, lavoratori precari e esclusi dal mercato del lavoro, diventati nuovi poveri. Chi li rappresenterà? Soltanto il sindacato, oltre e malgrado il governo e le ex sinistre?
Si intende che uno come il segretario della Fiom, Rinaldini, spieghi che, lui nato nel Pci, al Pd non potrà aderire. Ma avrà una grossa forza politica alle spalle o no? Perché non è ancora affatto chiaro se le sinistre che si pongono alla sinistra del futuro Pd, sia che provengano dai Ds sia da tempo fuori, intendono assumersi il compito di una rappresentanza aggiornata del lavoro, cioè quanto meno l’orizzonte di un capitalismo regolato, che è proprio il minimo dei minimi. Nessuna di esse, singolarmente, può riuscire in questa impresa, che comporta un’analisi in profondità del presente, delle figure che assume il salariato diretto o indiretto in seguito alle tendenze dei capitali mondiali, incrociati con gli interessi della sola superpotenza ereditata dal ’900, gli Usa, e delle nuove che emergono nel terzo millennio, prima di tutte la Cina. Nessuna di esse da sola, senza coinvolgere le altre e i sindacati e i movimenti in Europa, potrà avere un peso qualsiasi su scala mondiale.
Che cosa aspettano per darsi questo ordine del giorno? E che aspetta - se posso avanzare un’opinione del tutto personale - il manifesto a fare di questo tema l’asse della sua campagna attuale? Perché ad esso si collegano, in forme inedite e mai esaminate dal movimento operaio del secolo scorso, i nuovi bisogni e le nuove soggettività che sono venute emergendo dopo il 1968, anche se non sembrano accorgersene, e i movimenti no-global. Si tratta di ben altro che misurarsi con le polizie, terreno sempre arretrato e perdente, cui finisce con il rivolgersi la nostra attenzione più emotiva. Si tratta di fare i conti con la gigantesca espansione del liberismo che pareva essere stato spiazzato alla metà del secolo scorso, e proprio in Europa. Senza contare troppo sulle sue contraddizioni, le quali - come dice giustamente Wallerstein - più che a guerre commerciali non possono portare, rialimentandosene sempre sulla pelle dei popoli.
Molti propongono cantieri, e alcuni - come il compagno e amico Pierluigi Sullo - si dolgono che il nome inventato da Carta gli sia stato sottratto. Ma se vuol dire che ci si deve mettere al lavoro in tanti, non me ne lamenterei. Se si intende invece che è ancora da discutere che cosa vada costruito, se ci può essere o no, e se sia augurabile, una via d’uscita dalle forme attuali della globalizzazione, se ci sia e chi ne sia il soggetto dirompente, se il «lavoro» sia ancora da difendere o se, come mi è capitato di sentire in un’università, non interessa più a nessuno, se insomma ogni sigla dice di aprirsi ma in concreto difende il proprio giardino, ci meritiamo in anticipo l’egemonia del Partito democratico nascituro, cioè, ben che vada, una delle fasi più noiose della storia d’Italia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Il delirio e la follia (inviato al PD il 10/05/08)
Caro Walter,
sono uno dei tanti insegnanti precari fortemente delusi dalla vostra inadempienza. Sul governo Prodi avevamo investito la nostra speranza di metter fine ad una condizione infausta, greve e priva di colore della nostra esistenza (la precarietà), il cui ridimensionamento è stato il vostro vessillo, ormai deposto nelle mani del governo Berlusconi.
Grazie alle vostre indecisioni perenni e al vostro atteggiamento dilatorio, tipici di chi mostra scarso interesse, i precari tutti saranno costretti a subire l’ennesimo rimando ad libitum che andrà ad intaccare la loro già vacillante pseudostabilità.
Avete giocato e continuate a giocare con la pelle delle persone senza aver maturato la coscienza del disastro sociale da voi compiuto, ricaduto su chi mesto fatica per tirare avanti la carretta.
Siete talmente distanti dal mondo reale ed è talmente vacua la vostra attenzione da non aver neanche considerato l’idea di insistere per equiparare il lavoro precario, sul piano dei diritti, al lavoro stabilizzato.
Avreste dovuto disinnescare l’immane tragedia innescata invece continuate ad alimentarla con proposte indecenti ! Alla follia primigenia, con le vostre idee barocche di stampo berlusconiano, state aggiungendo nuova follia: come potete convergere sull’idea di far recuperare il potere d’acquisto dei salari con la detassazione degli straordinari ? E’ uno scherzo ?
Anni fa la legge Treu scrisse l’incipit di un copione, ultimato con la mancata abrogazione della legge Biagi, del quale i precari, di questo passo, interpreteranno la scena finale: la schiavitù. E’ già successo con la flessibilità che stravolta è stata tradotta in precarietà. In cosa potrà essere tradotta la detassazione degli straordinari ? In giornate lavorative di 10, 12 o 14 ore ?
Non vi siete accorti che la produttività, soprattutto in questo paese, è in contrasto con la sicurezza e la qualità del prodotto ? Non avete pensato che il povero disgraziato costretto a lavorare per 10 o più ore al giorno, per garantirsi o garantire ai suoi cari una vita quasi normale, non avrà più tempo da dedicare ai figli o alla vita sociale ?
Se questa è la vostra posizione ci sorge spontanea una domanda:”Voi sapete che cos’è e cosa comporta la precarietà o vivete nell’Iperuranio platonico” ?
E’ incredibile come in questo paese le violazioni della Costituzione siano assunte, sembra, come documento programmatico da ogni governo. Abbiate il coraggio di confrontare ciò che avete fatto e ciò che vi accingete ad appoggiare almeno con gli articoli 2, 3, 4 della nostra Costituzione e poi datevi una risposta.
Il mancato rispetto di uno solo degli articoli della Costituzione dovrebbe comportare l’immediata decadenza del governo, tale principio dovrebbe essere assunto come condizione essenziale dell’azione politica, senza alcuna deroga.
Non sappiamo e non vogliamo sapere per quale motivo avete deciso di non dare corso alle vostre intenzioni di ridimensionamento della precarietà, rileviamo però che sullo scadere del vostro mandato avete concesso un prestito ponte ad Alitalia, che è suonato come uno smacco per il popolo dei precari che non producono utili, i precari di serie B.
La crisi della Scuola italiana è una condizione atavica legata alle scelte scellerate dei governi che si sono succeduti nell’arco di parecchi anni e ai continui tagli imposti dal mercante di turno. Siamo coscienti che il vostro intento, come quello di Berlusconi, consiste nel favorire la crescita delle scuole private per creare finalmente un nuovo settore del mercato capace di creare utili, per questo vi chiediamo di farvi un esame di coscienza e ad esso far seguire una azione coerente.
In conclusione osservando il variegato e folcloristico “Iperuranio” politico possiamo solo notare l’ipocrisia crescente di un partito, il vostro, che, travolto dall’onda del berlusconismo, ha pensato di emularlo riprendendone i concetti più deleteri di produttività e liberismo con l’unico obiettivo di vincere le prossime elezioni (trasmissione Porta a Porta del 8/05/04, Soro e Finocchiaro).
Ecco il delirio e la follia ! C’è una popolazione che arranca, si dispera, che chiede equità e solidarietà e voi contrapponete a tali istanze il desiderio di potere!
Siete indegni !
Antonio Caruso
l’omicidio della speranza
contributo inviato da Alad_in il 15 aprile 2008
Caro Walter, anche se avevamo già messo in conto l’esito negativo delle elezioni, siamo profondamente amareggiati per la forte sconfitta, ma soprattutto per il danno provocato al popolo dei lavoratori dalla tua e dalla vostra ipocrisia rivestita di follia (Franceschini, D’Alema, Fassino e compagnia).
Siete riusciti in un’impresa che solo una persona insensata e totalmente priva di senso dello stato come Berlusconi avrebbe voluto realizzare: la scomparsa della sinistra e degli ambientalisti dal Parlamento. Siete stati bravi ! Avete reso un ottimo servigio ai signori dell’impresa ! Avete sgombrato il campo dai facinorosi che impedivano la realizzazione di tutte quelle opere “necessarie” per il paese: il ponte sullo stretto, la base di Vicenza, la Tav, le centrali nucleari, i termovalorizzatori. Grazie a voi probabilmente nei prossimi anni assisteremo alla svendita dei beni demaniali e alla trasformazione dell’Italia in un cantiere di opere incompiute che noi contribuenti pagheremo per anni (si veda il ponte di Messina) senza peraltro usufruirne. Opere che saranno realizzate da lavoratori sempre più precari, sottopagati e privi di qualsiasi tutela. Opere appaltate agli amici degli amici con leggi realizzate ad hoc.
Ci avete costretti ad un salto nel vuoto che farà tornare questo paese indietro nel tempo, in un tempo buio fatto di contrasti e costrizioni. Avete venduto l’anima per una serie di riforme, volute dagli imprenditori assoldati tra le vostre fila, che non comporteranno alcun benessere ma solo alcune agevolazioni pratiche e ulteriori aggravi e sacrifici per i lavoratori dipendenti.
Ciò che non avete capito, perché voi politici non avete intelletto per capire il paese reale, è che avete ucciso non un’ideologia, bensì la speranza di coloro che stanno peggio e che desiderano ardentemente essere liberati dal giogo della precarietà e della povertà, dall’oppressione della disoccupazione e dei salari indegni, dalla miseria di pensioni senza valore, dalla mancanza di una casa e dalle vessazioni provocate da tali condizioni. Non vi è bastato assoggettare e derubare i lavoratori dipendenti con i vostri decreti e de-cretini; avete voluto concludere l’opera con l’omicidio della speranza, unico alito di vita per chi già sopravvive.
La scomparsa della sinistra e degli ambientalisti dal Parlamento, uniche forze rappresentative dei ceti meno abbienti e di Madre Terra, è un danno enorme per il paese e per i lavoratori provocato dalla vostra incapacità di tenere fede a impegni e programmi. La vostra più grande riforma, oh riformatori, è stata quella di trasformarvi da sinistra in destra. Complimenti !
In conclusione non possiamo che ringraziarvi per averci consegnato nelle mani di un dittatore (Berlusconi) senza scrupoli, con il quale siete pronti a collaborare, che ha già ampiamente dimostrato di voler sostituire il welfare state con un sistema privato iniquo, di stampo americano, imperniato sul consumo esasperato ed esasperante.
Grazie Walter
contributo inviato da Alad_in il 16 aprile 2008, pubblicato il 15 sul sito del "Pd".
La truffa delle legge elettorale: la grande coalizione in vista
Una tesi che riceve continue conferme: bipartitismo convergente.
di Piero Sansonetti (Liberazione, 17 febbraio 2007)
La decisione di Pierferdinando Casini di presentarsi da solo alle elezioni complica un po’ il panorama politico ma rende chiarissima la "truffa" che si delinea nei confronti degli elettori. Truffa quadrupla. Proviamo a spiegare perché.
Prima truffa , di carattere aritmetico. Ai nastri di partenza della campagna elettorale ci sono quattro o forse cinque (o forse sei o sette) partiti: quello di Berlusconi, il Pd, la Sinistra, Casini (immagino con la Cosa Bianca), forse la destra di Storace, forse (se non andrà con Casini) Mastella, forse i socialisti e i radicali. Di questi partiti, uno arriverà primo e prenderà il 55 per cento dei seggi alla Camera, tutti gli altri (indipendentemente dalla loro collocazione a destra o sinistra) si divideranno il restante 45 per cento dei seggi. Il partito che arriverà primo (quasi certamente quello di Berlusconi) difficilmente avrà ottenuto più del 40-42 per cento dei voti. Dunque beneficerà di un premio di maggioranza pari al 10-15 per cento. Una enormità. Non esiste in nessun paese dell’Occidente. Una legge così ha un solo precedente: la legge elettorale varata da Mussolini nel ’23. E’ una legge di tipo fascista.
Seconda truffa. Il senso della legge dovrebbe essere quello di dividere il parlamento in maggioranza e opposizione. Una maggioranza solida del 55%, una opposizione consistente del 45%. Agli elettori decidere se la maggioranza andrà alla destra o alla sinistra. Nel parlamento che uscirà dal 14 aprile non sarà così. Alcuni (o forse molti) dei partiti che hanno preso i voti come opposizione cambieranno schieramento e passeranno in maggioranza. E’ uno scenario molto probabile. Praticamente sicuro per Storace, probabilissimo per Casini, abbastanza probabile per il Pd. Anche perché in Senato - dove il premio di maggioranza viene distribuito regione per regione, e quindi è praticamente inesistente - probabilmente Berlusconi non avrà i voti per governare, o ne avrà pochissimi (come fu per Prodi) e dunque dovrà ricorrere necessariamente alle alleanze. In questo modo si comprime e si punisce l’opposizione.
Terza truffa. Si dice che questa meraviglia bipartitica - inventata da Veltroni, Fini, Guzzetta, Segni e qualche altro genietto - garantirà all’elettore che sarà lui - l’elettore - a scegliere chi governa e chi no. Cioè che le coalizioni, le alleanze, i programmi, si fanno prima delle urne. Bene, ora è chiaro che è esattamente il contrario. Prima ci si accapiglia in campagna elettorale, poi si vota, e poi l’ammucchiata. Un imbroglio del genere non si era mai visto in democrazia. Agli elettori non sarà concesso di scegliere né per quale deputato votare, né per quale partito, né per quale coalizione. E’ una situazione davvero senza precedenti.
Quarta truffa. Per i motivi che dicevamo prima - ma anche per l’incredibile somiglianza del programma politico illustrato dal Pd con il programma elettorale che Berlusconi presentò nel 2001 e nel 2006 - diventa sempre più vicina la prospettiva della grande coalizione. E tutta quella storia del "voto utile" diventa più truffaldina che mai. Ti dicono: «vota per Berlusconi o Veltroni, perché solo uno di loro due può vincere e quindi è inutile votare per i partiti minori...» . Falso: se voti per uno o per l’altro cambia poco, tanto governeranno insieme.
L’unica vera certezza, per l’elettorale, è chi starà all’opposizione: la Sinistra l’Arcobaleno. Non vorrei apparire fazioso, ma a me sembra che davvero l’unico possibile voto utile - dal punto di vista "scientifico" - sia quello per la sinistra.
CHE COSA AVREMMO VOLUTO RACCONTARE AL PD
Gay malati, pericolosi e anche nostalgici di Fassino il birmano
di Aurelio Mancuso Presidente nazionale Arcigay *
È un peccato che Alfredo Reichlin abbia detto no a Giuliano Ferrara. Un’audizione non si nega a nessuno, e poi al severo ex dirigente comunista bisognerebbe ricordare che le posizioni espresse dal direttore del Foglio sono ben viste da una parte non indifferente dei suoi ex compagni di partito. Ma è un peccato soprattutto perché rende più difficile l’accoglimento della richiesta di essere anch’io ascoltato, naturalmente non da solo, magari con una bella e plurale delegazione del movimento lgbt, per esporre alla commissione Valori del Pd le ragioni per cui oggi questo partito risulta essere ben più antipatico, per usare un eufemismo, anche rispetto a formazioni del centro destra.
Vorrei espormi alla senatrice Binetti, che non ho mai conosciuto di persona, per farmi accuratamente visitare, sicuro che grazie alla sua vasta e pluri decennale esperienza in materia riuscirà ad indicarmi una cura adeguata per la mia omosessualità. A tutto il gruppo, vorrei tentare di far comprendere come lo stupore annichilito di tante e tanti di noi, per le reiterate prese di posizione dei D’Alema, Tonini, Caldarola, Bobba, si sia ormai trasformato in soave abitudine. Tra di noi ogni giorno scommettiamo su chi dei dirigenti del Pd la sparerà più grossa. Dopo che D’Alema e Chiti ci hanno deliziato per tutto il periodo pre natalizio sulla loro contrarietà al matrimonio gay, mentre in Parlamento andava in scena una delle peggiori prese per i fondelli nei confronti di milioni di cittadini italiani, sotto il nome di decreto sicurezza, nello specifico norme anti discriminazione, ci attendevamo qualcosa di strong dalla discussione in atto in Campidoglio E, infatti, siamo stati accontentati abbondantemente, avendo potuto assistere per la letizia dei nostri occhi e delle nostre orecchie all’altissimo dibattito sul registro delle unioni civili nella sala Giulio Cesare; il condottiero era assente, ma i suoi seguaci non hanno deluso le aspettative.
Ecco, vorremmo raccontare con spirito costruttivo alla commissione dei Valori come ci sentiamo onorate e onorati di essere oggetto di tanta eticità sensibile, di tutto questo amore verso le nostre persone e i nostri diritti. Noi che non siamo nulla, poveri malati e anche un po’ squilibrati, sicuramente pericolosi estremisti, che come ha ricordato Sua Santità nel suo intervento di inizio anno, prontamente elogiato dal nostro buon ministro degli Esteri, mettiamo in pericolo la pace e la convivenza nazionale e internazionale. Eh sì, tra quelli come me e i seguaci di Osama non c’è molta differenza: loro si lanciano come kamikaze, fanno stragi, buttano bombe dappertutto e noi allo stesso modo ogni mattina ci adoperiamo per distruggere dalle fondamenta la società naturale della famiglia fondata sul matrimonio. Anzi siamo più subdoli, quindi, più pericolosi.
Vorremmo esternare davanti al presidente della Commissione Pd, l’incontenibile gioia per i passi avanti fatti dalla nuova formazione politica sui valori della laicità, delle differenze, del pluralismo, del rispetto dei progetti di vita e delle aspirazioni collettive ed individuali. Quando la mattina mettiamo in campo il piano di azione quotidiano, ci salta subito in mente come dare ulteriori argomenti ai vostri illustri dirigenti. Sapete, ci manca molto l’esclusione della Rosy al Convegno nazionale sulle Famiglie. E ci sentiamo quasi orfani delle belle parole sulle adozioni gay di Fassino: ce lo avete mandato in Birmania apposta? No, non potete negarci le vostre migliori performance. Per questo ci piacerebbe incontrarvi, guardarvi negli occhi, scrutare le vostre emozioni. Tra di voi qualche mela marcia c’è, e lo sapete. Con insensata protervia Benedino e soci continuano a lavorarvi ai fianchi, vi infastidiscono con inopportune lamentele e spropositate durezze; ci si mette pure quel mattacchione senzadio di Odifreddi e persino il mite Cuperlo fa la voce grossa. Chissà, sarebbe bello vedervi una volta tanto in minoranza, mentre venite invasi dagli ultra corpi, che come si sa da informazioni certe provenienti dallo Stato più informato del mondo, sono foraggiati dai servizi segreti europei, primo fra tutti quello spagnolo.
Tanto, godete di potenti intercessioni, c’è chi per voi parla direttamente con lo Spirito Santo, che agisce obbediente alle suppliche, e sta alacremente lavorando per il Partito di Dio. Ma forse riuscirete ancora a stupirci, magari con una mossa a sorpresa che ci spiazzerà tutte e tutti....Ci piacerebbe, ma la speranza è un sentimento un po’ troppo immateriale perché i comuni mortali ne possano godere appieno.
* Il Riformista, lunedì 07 gennaio 2008.
IL SINDACO DI ROMA
di PEPPE SINI *
Mena vanto il sindaco di Roma e duce del Partito sedicente democratico di aver fatto demolire un numero ingente di misere abitazioni di povera gente, e cosi’ quella gente averla costretta alla fuga, a nascondersi come prede braccate, a tremare di freddo e paura, a veder nello stato italiano un nemico feroce, a potersi affidare soltanto a chi viola la legge violenta sovente altra legge ancor piu’ feroce imponendo.
Ne mena vanto il sindaco di Roma e duce del Partito sedicente democratico.
Chiamo quella sua azione razzista e fascista.
Chiamo quella sua azione criminale e disumana.
Chiamo quella sua azione terrorista e mafiosa.
Mi dicono che abbia visitato piu’ volte Auschwitz, scolaresche recandovi.
Mi chiedo cosa vi andasse a studiare.
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 297 dell’8 dicembre 2007
Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
tel. 0761353532,
e-mail: nbawac@tin.it
La delusione PD
di Rosario Amico Roxas
Le iniziative di dialogo intraprese da Veltroni hanno profondamente deluso molti aderenti al PD che avevano creduto ad una nuova fase politica, finalmente, svincolata da decisioni verticistiche; invece stiamo tornando indietro verso gli albori della prima repubblica.
Se al cavaliere fosse riuscita l’operazione “spallata” sulla finanziaria, oggi non starebbe seduto ad un improbabile tavolo di concertazione con il PD; si è presentato a tale tavolo con tutta la forza della comunicazione di massa di cui dispone, più per intimorire l’avversario che per convincerlo. Infatti non ha convinto la base PD.
Da anti-politico che pretende di fare politica, Berlusconi ha assunto il ruolo, tutto improvvisato, del conciliatore, dell’uomo aperto al dialogo, del populista in servizio permanente effettivo.
Su queste basi si è aperta una trattativa che non può portare da nessuna parte, perché troppo diversi gli intenti, i metodi, i programmi e, principalmente, gli interessi.
Lo stesso Cesa ha certificato che il cavaliere nei cinque anni di governo ha tutelato più gli interessi privati che quelli pubblici (...e se lo dice Cesa...!).
L’incontro Casini, Fini, Montezemolo, invece apre spiragli totalmente diversi; sia Casini che Fini sono usciti rafforzati dalla “pulizia etnica” scaturita dalle pressioni esterne del cavaliere: la fuoriuscita di Storace da AN, con un modesto seguito, ha fatto pulizia dei nostalgici che tanto piacciano al cavaliere; mentre la fuoriuscita di Giovanardi dall’UDC ha eliminato la quinta colonna berlusconiana insediata in quel partito.
Si ipotizza, così, la formazione di un polo di equilibrio, lontano dagli estremismi e dai fondamentalismi politici.
L’estrema sinistra al governo ha ampiamente dimostrato di non possedere quella cultura di governo necessaria a pilotare la politica dei “piccoli passi” di conquista, con una coalizione fortemente articolata, pretendendo “tutto e subito”, creando, così, le condizioni per arrivare a “niente e per sempre”.
La vocazione del PD, così per come è scaturita dalle attese popolari, è quella di un programmato sviluppo socio-economico “equilibrato”, che soddisfi, insieme, le legittime attese delle classi più deboli e la programmazione futuribile di ripresa economica in un regime di libero commercio, pur se controllato nelle sue applicazioni.
L’aspirazione generalizzata è quella di una integrazione, di reciproca solidarietà, in grado di superare quella lotta di classe della quale si è pasciuto il bipolarismo inventato da Berlusconi che oggi rinnega, ma solo perché risultato perdente.
Cambiare la camicia con cravatta con una proletaria “polo” non basta per fare accettare le ipotesi di così repentino cambiamento, perché intatte rimangono le ragioni di sfiducia globale, come intatte sono rimaste le motivazioni che perfezionano il conflitto di interessi.
Il PD non è scaturito da esigenze personalistiche, almeno nelle intenzioni di quanti abbiamo votato con convinta partecipazione; non è nato per fare da sponda passiva alle improvvisazioni della politica-spettacolo o al lavaggio del cervello della pubblicità martellante; ha una vocazione genuinamente popolare, per far sì che il popolo abbia un governo e non, come vorrebbe Berlusconi, che un governo abbia un popolo che lo sostiene per poter proseguire nel suo personale itinerario, gabellando le proprie iniziative come espressioni della volontà popolare.
E’ già accaduto negli anni ’20 del secolo scorso.
Rosario Amico Roxas
ELEZIONI PRIMARIE NEL PARTITO DEMO(N)CRATICO
di Lucio Garofalo *
Il genio profetico di Pier Paolo Pasolini preconizzava (a ragione) che “il fascismo potrà risorgere a condizione che si chiami antifascismo”. Eccolo servito. Si chiama PD: Partito Demo(n)cratico. Tale partito non è ancora nato, ma già si sta rivelando una forza politicamente subdola e pericolosa, perché concretamente antidemocratica e soprattutto antioperaia. Purtroppo si confermerà tale nel tempo.
Nei prossimi anni il PD costituirà il peggior avversario politico dei diritti, degli scopi e degli interessi della classe operaia e dei lavoratori salariati in Italia, soprattutto dei giovani lavoratori precari ed extracomunitari. Vedrete, gente di poca fede! Per rendersene conto basterebbe riflettere liberamente su alcune proposte politiche di stampo sicuritario e poliziesco avanzate da Walter Veltroni durante la sua campagna elettorale, sui temi della sicurezza e dell’ordine pubblico, in materia di immigrazione e su altre questioni concernenti il lavoro e la convivenza civile e democratica nella nostra società. Si tratta di ipotesi e contenuti palesemente anticostituzionali, che nemmeno la peggior Lega di Bossi, Borghezio e Calderoli si sarebbe mai azzardata a promuovere. Eppure, il sindaco-sceriffo di Roma rappresenta il futuro leader di un partito che osa battezzarsi “democratico” ed egli stesso si spaccia ed osa definirsi un politico “buonista”. Anzi, molti lo rimproverano proprio di essere fin troppo “buonista”. Figuriamoci allora se fosse stato un “cattivista”!...Ma veniamo alle primarie nel PD. Già il fatto che per votare occorre pagare un euro, quasi fosse un balzello supplementare da sommare agli altri tributi, mi puzza tanto di estorsione e racket mafioso, quasi una sorta di “pizzo politico” da versare ai boss della malavita politico-istituzionale del “centro-sinistro”, ormai dominato ed infestato dal PD che sta per: Partito Dirigista, Partito Danaroso, Partito Delinquenziale, Partito Demoniaco, Partito Dolo(ro)so, Partito Deceduto... Tutto, tranne un Partito autenticamente Democratico. Non c’è proprio nulla da fare. Il nostro è un popolo ignorante, rozzo ed analfabeta.
Con il termine “analfabetismo” mi riferisco esattamente all’analfabetismo politico, quello che BertoldBrecht disprezzava come il peggior analfabetismo. E aveva ragione! Le elezioni primarie del PD non costituiscono affatto un momento di grande partecipazione democratica, ma segnano ufficialmente il decesso della “democrazia” nel nostro paese, se mai questa fosse stata viva. Una “democrazia” morta e sepolta, grazie anche al Partito (anti)Democratico. Un destino cinico e beffardo, quello della “democrazia” italiana, un democrazia da sempre monca e incompiuta, ed ora definitivamente azzerata e priva di senso. Votare alle primarie del PD è peggio che votare per il Grande Fratello o un altro reality-show: equivale a una farsa grottesca, in cui partecipano e si esibiscono tanti ridicoli “bamboccioni” manovrati da vecchi burattinai (massonico-mafiosi e piduisti, filo-golpisti, clerico-fascisti etc.), vecchie volpi demo(n)cristiane. Questo discorso vale per le primarie sia a livello locale, sia ai livelli superiori, fino al vertice nazionale. Dove trionferà il veltronismo, versione aggiornata del populismo più diabolico e “sinistro”: il nuovo fascismo.
Lucio Garofalo
L’analfabeta politico
Il peggior analfabeta è l’analfabeta politico. Egli non sente, non parla, né s’interessa degli avvenimenti politici. Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine, dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è talmente somaro che si inorgoglisce e si gonfia il petto nel dire che odia la politica. Non sa, l’imbecille, che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il minore abbandonato, il rapinatore e il peggiore di tutti i banditi, che è il politico disonesto, il mafioso, il corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali.
Bertoldt Brecht
* il dialogo, Martedì, 16 ottobre 2007
La piattaforma di Rosy Bindi: "Diamo risposte alla protesta
o emergeranno personaggi pericolosi". "Non possiamo fare finta di niente"
"Tagliamo costi e privilegi
o la democrazia è a rischio"
di CLAUDIO TITO *
ROMA - "Il problema non è solo la manifestazione di Bologna. Ma le tante firme, la gente che ha fatto la coda per aderire. E se uniamo il tutto alle copie vendute dal libro "La casta", allora bisogna capire che siamo di fronte ad una ribellione contro la politica che va presa sul serio. Non possiamo far finta di niente". Beppe Grillo, il Vaffa-day, i privilegi della politica, gli stipendi dei parlamentari. Rosy Bindi li mette tutti in fila come anelli di un’unica catena che rischia di stritolare nella culla il nascente partito Democratico.
Per questo "dobbiamo dare una risposta". Non si può tacciare quel che accade come "qualunquista e demagogico". "Quando vado ai dibattiti, alla fine le domande della gente sono sempre le stesse: "perché noi non arriviamo alla fine del mese e voi vi arricchite?". E me lo chiedono anche alle Feste dell’Unità, perché il messaggio di austerità di Berlinguer è ancora vissuto sulla pelle da una parte del popolo della sinistra. E certe cose non vengono digerite". La sua risposta, allora, il ministro della famiglia già ce l’ha: abolizione del Senato, Camera con 450 deputati, dimissioni dei condannati, stop agli aumenti degli stipendi dei parlamentari, rimborsi spese sottoposti al controllo di una agenzia indipendente.
Ma perché la protesta di Grillo va presa così tanto sul serio? E soprattutto perché adesso?
"Perché o diventa una seria occasione di rinnovamento della politica o è chiaro che sarà l’anticamera dell’antipolitica".
Non lo è già?
"Non voglio usare toni apocalittici. Io ho vissuto in prima linea la stagione di tangentopoli. C’era una grande rabbia contro i corrotti, la rabbia ora è nei confronti di tutta la politica. So che nelle parole di Grillo ci sono venature qualunquiste e anche un po’ di volgarità, ma prima di liquidarle come ribellione antipolitica forse è il caso di chiederci se non sia una domanda di buona politica".
Eppure i suoi colleghi dell’Unione tengono a distanza il fenomeno Grillo.
"C’è sempre la tentazione di rimuovere".
E invece?
"E invece credo che il nostro 14 ottobre debba essere una straordinaria occasione per chiamare le persone a firmare per la buona politica e non contro la politica. Altrimenti - dopo aver suscitato attese - l’effetto non potrà che essere devastante".
Se vuole rispondere alla piazza bolognese, dovrà allora recepire le sue istanze.
"Siamo ancora in tempo a non legittimare il passato. Il governo, ad esempio, ha cominciato a ridurre le indennità dei ministri. Ma bisogna imprimere un forte cambiamento".
Nel concreto che vuol dire?
"Ecco le mie proposte: i parlamentari del Partito Democratico si dovranno impegnare a modificare la legge elettorale fino a dichiarare che non si candideranno con quella attuale. Immediata attuazione del nuovo titolo V della costituzione con la soppressione del Senato e l’istituzione di una Camera delle regioni. E così avremo 315 parlamentari in meno".
Ma ci saranno i membri di questa nuova Camera?
"Sì, ma si tratta di un’assemblea di secondo livello. E comunque ci dovremmo impegnare a ridurre del 30% anche i componenti della Camera dei Deputati. Ma non mi fermo qui".
Cioè?
"Dimissioni di chiunque abbia avuto problemi con la giustizia e quindi massima trasparenza per le liste elettorali del futuro. Interruzione immediata dell’indicizzazione delle nostre indennità. Solo noi e i magistrati abbiamo questo privilegio. Separazione netta tra indennità personale e rimborsi spese. Uno stipendio di 5000 euro va bene, i rimborsi vanno affidati ad una agenzia indipendente che valuti le finalità della spesa, verifichi se risponde ad un’attività politica o meno. Stesso discorso per la gratuità dei mezzi pubblici: vale per l’attività politica e non per i viaggi privati. Bisogna anche limitare i mandati e prevedere le primarie per tutti gli incarichi politici".
I suoi "colleghi" non saranno tanto contenti. Anche perché per fare la riforma elettorale serve un consenso che va oltre il Pd.
"Veniamo considerati dei privilegiati e quasi inutili per la comunità. Per questo ci chiedono quanto costa la politica. Dobbiamo spogliarci dei nostri privilegi. Il vitalizio, ad esempio, va dato a 65 anni e deve essere un’assicurazione privata. Va rivista anche la legge sui rimborsi elettorali e sui giornali di partito. Anche la vita "finanziaria" dei partiti andrebbe controllata di una agenzia indipendente. E sa perché faccio queste proposte? Perché ritengo che il finanziamento pubblico della politica sia necessario".
Sembrava il contrario.
"Per difendere il finanziamento pubblico bisogna correggere le distorsioni. Lo difendo perché altrimenti faranno politica solo i ricchi o quanti trovano dei finanziatori che però, prima o poi, presentano il conto".
Sembra quasi che lei voglia dire: attenzione se non sarò io il leader del Pd, tutto questo non accadrà.
"Mi auguro che nel Pd saremo in molti a pensarla così".
E se il Pd non seguirà questa linea?
"Guardi, Grillo può anche essere un provocatore, ma se ottiene questo consenso, seppure con accenti di qualunquismo, non si può pensare che tutto resti come prima. Io farò la mia battaglia su questo, in ogni caso".
Però anche nel Pd potrebbero risponderle che è facile richiamare la gente con il qualunquismo e la demagogia.
"Senza una politica autorevole la vita democratica di un Paese può correre dei rischi. La nostra sfida è quella di restituire dignità alla politica costruendo un partito nuovo. Un grande partito popolare e nazionale che non sia emanazione solo di una persona. Per questo va approvata una legga sulla regolamentazione dei partiti in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione".
Lei chiede le dimissioni di chi ha avuto problemi con la giustizia. Ce ne sono anche nel centrosinistra. Vincenzo Visco è stato condannato per abuso edilizio. Dovrebbe dimettersi per questo?
"Io parlavo di corruzione e concussione. Il giustizialismo per me non è un valore, ma nel ’92-’94 quando la politica si rifiutò di autoriformarsi e si affidò alle aule dei tribunali, il risultato fu che arrivò Berlusconi. Come allora sono convinta che debba essere la politica a riformarsi".
Questa dunque dovrebbe essere la piattaforma del PD?
"Io penso che su questo si fonda il nostro futuro".
* la Repubblica, 10 settembre 2007.
Imparate da Bologna
di Bifo (il manifesto, 06.09.2007)
All’inizio venne Cofferati. Nell’autunno del 2005 il sindaco di Bologna lanciò una campagna contro i lavavetri. Secondo lui c’era un racket e bisognava colpirlo. I carabinieri si misero alla ricerca del racket, e dopo qualche tempo dovettero smentire la tesi del sindaco. Non c’è nessun racket, sono solo poveracci che chiedono danaro in cambio di un lavoro utile: lavano vetri e se vuoi puoi dargli mezzo euro. Ma la gente si incazza. L’automobilista che alle sette di mattina, incolonnato in una fila eterna respira gas di scarico è triste, rabbioso, aggressivo. E come non capirlo? Va al lavoro. I prezzi salgono. I salari scendono. E quando sei incazzato hai bisogno di prendertela con qualcuno, possibilmente più debole e più povero. Il lavavetri è perfetto.
In Italia sta nascendo un nuovo partito. Anche se si chiama democratico quel partito ha deciso di presentarsi sulla scena con una campagna che non si può qualificare altrimenti che razzista. Per conquistare il consenso della gente troviamo qualcuno che sia più miserabile di tutti e scarichiamogli addosso la miseria di tutti quanti. Ha funzionato, può funzionare ancora.
Chi sono i lavavetri? Scocciatori, risponde il benpensante irritabile che è in ciascuno di noi. Arresteremo tutti gli scocciatori? Quella di lavavetri è una definizione di tipo razziale.
Perché perseguitare un poveraccio che fa il gesto di lavarti i vetri della macchina? Invece di chiedere l’elemosina propone uno scambio normale. E’ il libero mercato, no? Ma ai lavavetri è precluso.
A Bologna adesso si parla di mandare in galera coloro che scrivono sui muri: non piacciono al sindaco della città.. Keith Haring e Basquiat, Rammelzee e Chamberlain e Dash sono considerati grandi artisti e le loro opere adesso si vendono nei musei, ma prima hanno sporcato con i loro segni i muri delle strade di tutte le città americane. E le paperette di Pea Brain, e le facce digrignanti di Cane k8, non sono forse l’arte più interessante che si sia vista a Bologna negli anni ’80? Ma per Cofferati gli artisti sono da mettere in carcere. Forse Cofferati odia i graffitisti perché ce n’è uno che scrive sui muri: Cofferati mi fa pena, e un altro che scrive Bologna non merita un sindaco fascista.
Il suo amico Dominici sindaco di Firenze dice che ha riletto Lenin prima di lanciare il suo pogrom. Bravo. Che gli dobbiamo fare a questi lumen proletariat, caro compagno Vladimir Ilic? Noi che siamo il partito della classe operaia mica possiamo tollerare questi straccioni. Già che c’è il bolscevico Dominici dovrebbe dirla tutta. Il compagno Vladimir nel 1918 non esitava a invitare allo sterminio, quando si trattava di raddrizzare le gambe ai lunpen e ai kulaki. E la Kolyma, compagno Domenici, la tua Kolyma la metti a Scandicci? Dicono che questo è il solo modo per ottenere un po’ di consenso. Incitare al pogrom contro i poveracci è un modo per avere quel consenso che il centrosinistra non sa ottenere altrimenti.
Però io ci penserei due volte. Ad esempio, il primo di questi democratici amanti dell’ordine, il sindaco di Bologna di cui dicevo poc’anzi, nel primo anno del suo mandato aveva un consenso così maggioritario che qualcuno diceva pare bulgaro. Dopo tre anni di stress ininterrotto ha talmente scassato le scatole che Renato Mannheimer ha fatto un sondaggio nel mese di giugno. Il consenso è sceso al 39%: Cofferati ha perso. La sinistra ha perso Bologna. La perderà, alle prossime elezioni, accetto scommesse, e non la riconquisterà mai più.
Con questa sinistra
meglio lasciar perdere
di GIANNI VATTIMO (La Stampa, 5/9/2007)
Non so se valga la pena, come ha suggerito qualcuno (Alberto Asor Rosa), dimettersi da intellettuale di sinistra a causa dei provvedimenti che alcune amministrazioni comunali, anche uliviste, hanno annunciato contro i lavavetri - questi lavoratori abusivi che sembrano costituire una delle più gravi minacce per la sicurezza collettiva nelle città. Non che la cosa non meriti attenzione; ma se c’era da dimettersi, le occasioni in questi ultimi mesi, da quando la sinistra è diventata «di governo» erano ben altre e anche più gravi. Più che di dimettersi, nei confronti di questo ultimo sussulto di tipo «law and order» della cosiddetta sinistra nostrana, vien voglia semplicemente di «lasciar perdere» o, evangelicamente, lasciare che i morti seppelliscano i loro morti, continuando l’epocale dibattito sulle elezioni primarie del non ancora nato partito democratico, o sulla presenza di ministri alla manifestazione del 20 (dicesi 20!) ottobre prossimo. E, a proposito di morti, per fortuna solo feriti, non varrebbe la pena dedicare un pensiero ai militari italiani feriti in Afghanistan in una delle varie «missioni di pace» in cui il governo ci ha impegnati? O ricordare che tra i temi della manifestazione (eventuale) del 20 ottobre non c’è solo il protocollo sul welfare, ma anche il problema della base Usa a Vicenza, i diritti civili (Dico, fecondazione assistita), e altre quisquilie che pure fanno parte del programma di governo?
Di lasciar perdere viene voglia perché il nostro dibattito politico, compresa questa ultima fiammata di legalitarismo - tolleranza zero, Firenze come la New York di Giuliani - mostra emblematicamente la povertà intellettuale (si può ancora dire?) a cui si è ridotta la retorica «riformista» della ex sinistra italiana. Certo che la sicurezza delle strade cittadine è un’esigenza sacrosanta, e del tutto bi-partisan; ma persino il riformista-capo, Romano Prodi, trova che ha poco senso partire dai lavavetri, ultima misera ruota di un carro che trasporta ben altre clamorose illegalità. Niente «benaltrismo», d’accordo; niente «ma la colpa è della società ingiusta in cui viviamo». Ma un pensierino anche a questo aspetto della faccenda, una sinistra non del tutto immemore della propria storia dovrebbe pur farlo. Si ammette da tutti che la legalità non può essere assicurata solo dalla presenza di un carabiniere a ogni angolo di strada, che è invece, anzitutto, una questione di educazione civica. Ma quale senso collettivo della legalità può sussistere in un Paese dove la giustizia penale e soprattutto civile non garantisce più niente, dove se violi una norma devi solo: a) usare i soldi illegalmente guadagnati per pagarti un grande avvocato che trascini la tua causa fino alla prescrizione; b) o comunque aspettare fino al prossimo condono che ti ridarà la tua verginità giuridica in attesa di una nuova violenza ? Il «riformismo» e la concretezza «bersaniana» dei nostri governanti hanno di sicuro le loro ragioni. Ma, come molti dicono, non scaldano i cuori. Nessuno è disposto a farsi in quattro per le liberalizzazioni bersaniane.
Alla indispensabile retorica politica che dovrebbe scaldare i cuori, la fu sinistra italiana sostituisce quest’altra retorica molto più vacua e ideologicamente neutra: la sicurezza, la famiglia, il valore della «vita», qualunque essa sia, anche con gravi handicap che una bioetica meno bigotta potrebbe aiutarci a evitare. Ma intanto persino i nostri «alleati» - Usa, Nato - ci prendono sempre meno sul serio, nonostante lo sforzo e i soldi che buttiamo nelle cosiddette missioni di pace. Se qualcuno dice che l’Italia non ha una politica non ha probabilmente tutti i torti. E il civismo è anzitutto un affare politico. Un paese dove non si discute di pace e di guerra (residui ideologici del passato!) ma solo di lavavetri e di (imminente) persecuzione legale di chi va a prostitute non ha, e non avrà per molto, cittadini amanti, o anche solo rispettosi, delle leggi.
Politica - Dibattito
BOICOTTIAMO LE PRIMARIE DEL PARTITO DEMOCRATICO!!
di Pietro Ancona *
Il Partito dei Sindaci Sceriffi, dei sostenitori della legge Trenta (Sacconi-Maroni), del monetarismo più spinto e della traslazione in Italia di tutti gli stili di vita della destra americana a cominciare delle politiche carcerarie per i poveri, è in costruzione e trova il suo più importante sostenitore in Veltroni che, con i suoi dieci punti, ne delinea la natura postdemocratica, xenofoba e totalitaria.
E’ allarmante il crescendo di attacchi alle condizioni dei lavoratori. Dopo la Biagi e la controriforma delle pensioni si profila l’abolizione dei ccnl di lavoro (unica garanzia per milioni di lavoratori che non hanno alcun potere aziendale), la riduzione delle tutele in caso di infortunio e di malattia (campagna dei fannulloni), la limitazione degli accessi e del diritto allo studio mentre i costi della Oligarchia diventano assai pesanti e soltanto per consulenze si bruciano tre miliardi di euro l’anno.
Tutta la politica è diventata un business ed è tutta a pagamento a cominciare dai Sindaci che sono i più pagati al mondo mentre le Regioni si sono trasformate in grande parte in officine legislative per i parenti, i figli, le clientele delle Oligarchie politiche., Di costruire case popolari non se ne parla. La sanità è destinata a subire processi di privatizzazione come quelli dei servizi locali a cominciare dall’acqua che creeranno posti per nuovi consigli di amministrazione a carico delle utenze.
Gli inceneritori diventeranno la scelta centrale imposta alle popolazioni come la cessione delle basi militari agli USA senza alcun riguardo dei diritti delle nostre città.
Veltroni non nasconde l’obiettivo del partito maggioritario che non contratta con nessuna forza sociale e politica il suo programma e detiene il monopolio del Potere.
Per questo è importante BOICOTTARE le primarie del 14 Ottobre!!
Um minore afflusso alle urne come primo segnale di condanna di una scelta reazionaria e liberticida!!
Invitiamo l’elettorato democratico e di sinistra a non andare a votare!!
Andare a votare contro Veltroni per altre candidature è sbagliato dal momento che la caratterizzazione del nuovo Partito già assai profilata è il problema più importante!!
Rivolgiamo un appello agli intellettuali che hanno sorretto in tutti questi anni le lotte dei lavoratori e la civiltà democratica dell’Italia a mobilitarsi!!
Chi è d’accordo con questo messaggio, ne scriva di simili per la propria cerchia di conoscenze!!
Pietro Ancona
Presidente Circolo Riccardo LOmbardi
www.spazioamico.it
Il Guardian "incorona" la Brambilla:
"Sembra uscita da una pubblicità"
Il quotidiano inglese intervista il volto nuovo dell’anti-politica italiana *
TORINO. Prima regina di bellezza, poi giornalista televisiva, quindi una magnate dell’acciaio, fino a diventare l’ultimo alleato di Silvio Berlusconi e il volto nuovo del centrodestra in Italia. Così il quotidiano britannico Guardian presenta Michela Vittoria Brambilla, intervistata sui Circoli della Libertà, riferendo fin da subito i vezzi della «Rossa» con la stampa: niente fotografie se non dopo un adeguato trattamento dal parrucchiere e da un truccatore professionista.
«Quando compare su una terrazza di albergo che guarda il Mediterraneo, con mezz’ora di ritardo e i suoi inconfondibili lunghi capelli rossi, dà l’impressione di essere appena uscita dalla pubblicità di una delle macchine italiane che si acquistano con un mutuo di media entità - scrive il corrispondente John Hooper - indossa un completo e un paio di scarpe argentate con tacchi a spillo che si intonano perfettamente con la sua borsa. Come tutte le ricche dame in vacanza in Costa Azzurra, ha un piccolo cane legato a un collare abbinato alla sua imbracatura. Ma non si tratta di un barboncino o un pechinese, quanto piuttosto di un bastardino trovato per strada».
Il quotidiano ripercorre quindi la storia biografica di Brambilla prima di passare all’intervista sull’attuale situazione politica in Italia e sui Circoli della libertà da lei presieduti.
* La Stampa, 1/9/2007 (9:20)
Berlusconi: "Con il partito della
Brambilla abbiamo il 4% in più"
Il Cavaliere preoccupato da Bossi: non riesco a capire la sua tattica
di AUGUSTO MINZOLINI (La Stampa, 29/8/2007)
ROMA. L’unico dato chiaro che Silvio Berlusconi ha sulla scrivania sono i sondaggi che gli sono stati recapitati in questi giorni. Quello che ha illustrato a qualche alleato: il centrodestra tra il 55-56% Forza Italia al 27,5%, An all’11, l’Udc al 5, la Lega al 5, la Dc di Rotondi al 2 e la new-entry, cioè il partito della Libertà della Brambilla, al 4%. E un altro che il personaggio ha offerto ieri allo stato maggiore di Forza Italia nella riunione di Porto Rotondo nel quale, furbescamente, il «nuovo partito» era stato eliminato e Forza Italia saliva da sola al 31,7%. Un quadro niente male, al netto delle beghe interne, che però conferma un limite endemico: l’opposizione è forte nel Paese ma non è capace di sfruttare queste potenzialità nel gioco di Palazzo.
Sì, perché dalla riunione sono emerse tutte le difficoltà che presenta la partita di questo autunno, quella con la quale l’ex-premier vuole raggiungere due obiettivi: crisi del governo Prodi e elezioni anticipate in primavera. Nella riunione di ieri Berlusconi ha ripetuto la sua ferma convinzione di riuscire nell’impresa: «Preparatevi - ha spiegato ai suoi più volte - che a primavera si vota». Ma tra i suoi c’è chi ha consigliato prudenza: «Forse c’è questa possibilità - ha spiegato tra gli altri Scajola -. Ma prepariamoci anche ad un’alternativa diversa. Che si voti più in là, magari insieme alle Europee. Per cui, per carità, non parliamo di spallate e tentiamo di riallacciare i rapporti con gli alleati. A cominciare da Casini». Naturalmente Berlusconi non ha spiegato da dove nascano queste sue certezze sul voto in primavera, né ha chiarito se questa ostentata sicurezza sia una sorta di training-autogeno o, se, invece, è il frutto di qualche intesa segreta.
Probabilmente è solo un altro segnale della confusione che regna nel centrodestra come nel centrosinistra dove nessuno sa cosa succederà davvero. Tra le tante cose ieri è tornata in dubbio anche la partecipazione del Cavaliere alla festa annuale dei mastelliani a Telese. Il motivo è semplice. Berlusconi voleva avere un incontro ravvicinato con il Clemente nazionale, un personaggio chiave della battaglia d’autunno. Puntava insomma a porre le basi per un’operazione politica. Invece, il tutto rischia di risolversi in un’intervista pubblica, magari su quello che è diventata il chiodo fisso del dibattito politico, cioè la signora Brambilla, un argomento che gli ha provocato già diversi guai in casa e su cui il personaggio ha una gran voglia di glissare. Insomma, il Cavaliere invece di guadagnarci rischia di rimetterci. Per cui, prima di decidere, si sta facendo quattro conti e solo oggi scioglierà la riserva.
Anche perché la buriana d’agosto ha lasciato qualche strascico. Ieri metà della riunione il leader del centrodestra l’ha dedicata ad un argomento che stava molto a cuore ai presenti: il rilancio del partito. E per dimostrare che Forza Italia continua ad essere il suo partito preferito il Cavaliere ha annunciato che non parteciperà alla riunione dei circoli della Brambilla a Courmayeur. Ha voluto dare, insomma, una prova di fedeltà alla maglia. Ma conoscendo il tipo, a sentire il coordinatore del Lazio, Francesco Giro, non è detto che la prossima settimana, per dimostrare una sorta di equidistanza, non diserti all’ultimo momento anche il seminario di Forza Italia a Gubbio.
Sono i meccanismi della «corte» che regolano la vita interna di Forza Italia: gelosie, solidarietà interne, l’ossessione di essere cooptati nel cerchio stretto attorno al monarca, rischiano di mettere in secondo piano la strategia politica. E per ora la strategia per arrivare alla fine anticipata della legislatura a primavera non è chiara. Anzi. Sulla carta l’obiettivo delle elezioni anticipate dovrebbe unificare l’intero centrodestra a parte Pierferdinando Casini che persegue ancora un altro scenario: crisi del governo Prodi e un governo di larghe intese. Un disegno che, per ora, sta solo logorando i consensi dell’Udc. Gli altri partner, invece, dovrebbero convergere sullo schema del Cavaliere. Solo che i comportamenti non sono conseguenti.
«Per raggiungere questo obiettivo infatti - come spiega il deputato piemontese Osvaldo Napoli - sarebbe necessario una forte compattezza parlamentare, specie al Senato». La vicenda del Partito della Libertà edizione Brambilla non ha aiutato da questo punto di vista: è già difficile convincere dei senatori che hanno davanti ancora tre anni di legislatura a mandare tutto all’aria, se poi non gli vengono date delle rassicurazioni sul futuro l’impresa diventa praticamente impossibile. «L’errore - spiega uno degli strateghi del Cavaliere - è stato madornale». Anche gli alleati non sono conseguenti: le elezioni anticipate potrebbero servire sia a risolvere le contraddizioni di Fini, sia a dare respiro all’iniziativa di Bossi. Ma poi entrambi i partiti, in un modo o nell’altro, hanno dato segnali, sia pure timidi, di disponibilità al governo sulle riforme istituzionali: e fare le riforme significa andare alle elezioni non prima di due anni. Tant’è che ieri chi ha fatto notare questi strani comportamenti al Cavaliere lo ha trovato alquanto perplesso: «Non chiedetemi di chiarire atteggiamenti che non capisco».
In ultimo c’è il referendum: l’unica arma di pressione che può costringere Clemente Mastella ad aprire la crisi di governo è proprio il referendum. Per evitare che si faccia il Guardasigilli - lo ha ripetuto anche ieri - è pronto ad andare ad elezioni anticipate. Solo che Umberto Bossi vuole spuntare quest’arma in mano all’opposizione, vuole una nuova legge elettorale che eviti il referendum. Berlusconi non riesce a convincerlo del contrario e, in cambio, si vede propinare dal senatur una serie di proteste fiscali, come il boicottaggio delle lotterie, che lo lasciano perplesso: «Pensiamoci un po’, è una decisione da prendere con tutti gli alleati».
Per cui le difficoltà per arrivare al voto in primavera sono davanti a tutti: è difficile per Prodi governare con un voto di maggioranza, ma nel contempo è difficile per Berlusconi conquistare quel voto all’opposizione. Ecco perché ieri sono tornati alla carica i «teorici» della gradualità e dell’apertura del dialogo con Casini. Gianni Letta era a Porto Rotondo proprio per questo. In entrambi gli schieramenti nessuno sa leggere il futuro. Se Berlusconi e i suoi si arrovellano, il vice-premier Francesco Rutelli ha passato tutta l’estate ad interrogarsi: un giorno diceva sicuro a qualche collaboratore «dureremo cinque anni»; un altro confidava ad un amico di «corrente» del Pd «ad ottobre salta il governo e bisognerà inventarsi qualcosa».
Il ministro-candidato alla guida del Pd: "Io braccio armato di Prodi? Sciocchezze". E ancora: "Rutelli non provochi il Prc"
Bindi, attacco a Veltroni
"Vuole il partito del leader"
di ALESSANDRA LONGO *
ROMA - Ogni tanto la voce al telefono sparisce ma è solo quando l’auto di Rosy Bindi entra in una galleria. Non certo perché il ministro candidato leader del Pd perda la parola. Anzi, di cose da dire ne ha tante. Per esempio a Francesco Rutelli che insiste sulle alleanze di nuovo conio: "Io non sono come lui, io non faccio capire ogni giorno che il programma dell’Unione è ormai carta straccia e che servono nuove maggioranze. Io posso criticare Rifondazione e la sinistra radicale proprio perché non ho questo atteggiamento. Loro tirano la corda ma c’è chi li provoca".
Un altro punto le interessa chiarire: "Chi dice che io sia eterodiretta da Prodi dice una follia e manca di rispetto a me e anche al premier". Non alza la voce ma è chiara anche sull’ipotesi evocata dal sindaco di Roma di un Pd che corra da solo: "Idea ambiziosa, perché no. Basta che non si lavori poi per un sistema elettorale alla tedesca che porterebbe dritti alla Grosse Koalition".
Rosy Bindi, Veltroni lancia un invito: basta polemiche, non facciamoci del male. Lei che intenzioni ha?
"Io non faccio male a nessuno. Le mie critiche, la mia stessa candidatura, hanno un unico obiettivo: rendere la competizione forte, evitare che un progetto così importante, destinato a diventare, senza retorica, una pietra miliare nella storia della democrazia italiana, sia condizionato da troppe paure e furbizie. Non sono polemica, pongo questioni scomode alle quali non mi si può rispondere con insinuazioni inaccettabili come quelle contenute nella lettera ai candidati di Veltroni".
Si riferisce all’ipotesi che qualcuno dei competitors lavori solo per posizionarsi meglio nei nuovi organigrammi?
"A Walter dico: se volevo posizionarmi, facevo una lista sotto il suo ombrello, come stanno facendo in tanti, sperando poi di poterlo condizionare".
A dirla tutta, c’è chi descrive Rosy Bindi come il braccio armato di Prodi.
"Ecco, questo è davvero troppo. Io non sono la controfigura di nessuno. Non ho chiesto permesso a Prodi, l’ho solo informato che mi sarei candidata. Lui è fuori dalla sfida e spiace che qualcuno a volte lo tiri dentro".
Veltroni?
"Sì, per esempio quando parla di questa competizione esaltandone la diversità rispetto alle primarie di Prodi. La sensazione è che ci sia una sorta di atteggiamento di contrapposizione a questo governo e al presidente del consiglio, quasi una sottolineatura delle sue difficoltà e delle sue fatiche e non, al contrario, il desiderio di consolidare l’attuale stagione per dare le migliori opportunità a quella che seguirà".
Dove li legge questi segnali, ministro?
"Nel sottile gioco di rimando in tema di programmi e alleanze. Veltroni rigetta giustamente le coalizioni disomogenee sul piano programmatico. Ma il modo con cui affronta la questione suona come una critica alla gestione attuale. Sappiamo tutti che in questo momento il governo non può governare con un’alleanza omogenea e ha affidato la propria tenuta al programma".
I suoi toni sono meno aggressivi, la polemica resta.
"Non è polemica, ma sano confronto di idee, io guardo ai fatti. Per esempio posso dire che nel programma di Veltroni non vedo una parola di politica estera. Ma sottolineo anche le identità di vedute, il comune sentire. Con Walter siamo d’accordo che il Pd debba essere un partito plurale e anche le liste dovrebbero esserlo. Dopo di che ognuno ha la sua ricetta. Secondo me, non si risponde alla logica dell’apparato come fa lui dicendo: "Ok, ci penso io, vi do 500 nomi per l’Assemblea Costituente". Questo significa creare il partito del leader".
La sua proposta?
"E’ più democratica. Il prossimo 15 settembre i miei sostenitori faranno assemblee in tutti i collegi elettorali. Saranno loro a decidere l’ordine di lista".
Che cosa ne dice dell’ipotesi veltroniana di un Pd che corre da solo?
"Per un partito a vocazione maggioritaria e governativa, è una posizione più che legittima, condivisibile. Quale partito non vorrebbe governare da solo? Questo in astratto. Faccio un’altra delle mie domande, però: dopo il 14 ottobre a favore di quale sistema elettorale lavorerà il Pd? E’ un punto cruciale".
Perché?
"Perché se ci presentiamo da soli e poi si lavora per il modello elettorale tedesco, dietro l’angolo c’è la Grosse Koalition. Per questo propongo: mettiamo in sicurezza il bipolarismo e facciamo una dichiarazione nero su bianco agli elettori. Diciamo loro: in caso di sconfitta, si va all’opposizione. Niente governi istituzionali o consociativi".
Per Veltroni l’ipotesi di un’autosufficienza nasce in via subordinata, nel caso che con gli altri non si possa lavorare.
"Sono d’accordo. Ma aggiungo: L’omogeneità va cercata, costruita. In questo senso aspetto Rifondazione e la sinistra radicale alla prova d’autunno. Se vanno sulla strada delle 35 ore, se mettono aut aut sul welfare, sulle rendite finanziarie, se invocano l’applicazione ora e subito di alcuni punti, pur presenti nel programma, se rendono determinanti i voti dell’Udc, il rischio di andare a elezioni è altissimo. E certo, dopo una crisi di governo, sarà difficile ricostruire un’alleanza con loro".
Rutelli invoca "il nuovo conio", dice che le alleanze non sono per tutta la vita.
"Anche qui una domanda: lo sappiamo con chi stiamo governando adesso? Il programma va attuato, si devono cercare le condizioni per stare insieme. Non si può lasciare a sinistra del Pd, e fuori dalle responsabilità di governo, un partito del 15 per cento. Certo, Rifondazione e la sinistra radicale non devono tirare la corda ma bisogna evitare di provocarli. Io non sono Rutelli che considera il programma carta straccia e ogni giorno dà segnali di voler fare un’altra cosa. Io, al contrario, non sono pentita, dico a Rifondazione e agli altri che credo in quest’alleanza. Proprio per questo li avverto: "State attenti, non esagerate, soprattutto non parlate solo per ultimatum".
* la Repubblica, 26 agosto 2007.
Primarie, sale la tensione. Prodi: viva la competizione
Dopo Bersani, anche Chiti sul rischio di accordi calati dall’alto
Pd, la Bindi sfida Veltroni
"Taglia fuori le oligarchie"
di GIANLUCA LUZI *
ROMA - "Veltroni? Ok, ma si deve liberare dalle oligarchie dei partiti". E’ Rosy Bindi a dare il senso dello scontro che anima la campagna elettorale per le primarie del Partito democratico. Sull’onda di Bersani che l’altro ieri sull’Unità metteva in guardia dal rischio di "verticismo" nella costruzione del Pd, tutti i rivali di Veltroni si scagliano contro la "nomenklatura" e contro gli apparati di Ds e Margherita che secondo questa tesi vorrebbero un esito già preconfezionato delle primarie: naturalmente con la vittoria di Veltroni.
Il sindaco di Roma, con la lettera di ieri a la Repubblica, ha tratteggiato il profilo delle riforme di cui si dovrà occupare il Pd. Nel merito nessuno contesta i punti di Veltroni, ma piuttosto i suoi rivali non perdono occasione per dipingerlo come ostaggio o prodotto di un accordo di vertice.
Ma anche tra chi appoggia la candidatura del sindaco di Roma c’è allarme. Vannino Chiti: "Un partito che ha l’ambizione di essere nuovo, di rappresentare la sinistra del XXI secolo, non può essere vittima di meccanismi verticistici fatti a tavolino e calati dall’alto. Il Pd e lo stesso Veltroni, che io sostengo convintamente, ne uscirebbero mortificati".
Enrico Letta chiede che le liste dei votanti alle primarie del 2005 per Prodi siano a disposizione di tutti i candidati o di nessuno e contesta l’obbligo di iscrizione al Pd per chi andrà a votare il 14 ottobre. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio intanto ha cominciato il suo tour elettorale per le primarie sulle spiagge delle vacanze e ammonisce: "Se il Partito democratico fallisce è perché è stato un incontro tra nomenklature di partito". Invece le primarie devono essere "un’operazione che parte dalla base, dagli elettori, e non dal vertice".
Lo stesso tasto lo batte Rosy Bindi, anche lei candidata alla segreteria in alternativa a Veltroni. "Se il partito nuovo è quello che Veltroni descrive a la Repubblica non potremo costruirlo senza liberarlo dalla tenaglia degli accordi verticistici e dal predominio delle oligarchie che cercano di condizionare le scelte dei militanti".
E anche se il silenzio di Prodi dalle vacanze conferma la sua linea secondo cui competition is competition e più candidati ci sono meglio è, sono proprio i colonnelli prodiani a lanciare i siluri più esplosivi contro Veltroni. L’ulivista Franco Monaco stronca la lettera del sindaco di Roma: "Non servono slogan, ma veri atti di rottura". Marina Magistrelli approfitta dell’allarme di Bersani per attaccare Veltroni. "Finalmente parole di verità a fronte di tanta retorica e ipocrisia - dice la senatrice applaudendo Bersani - Parole che il portavoce di Veltroni, Goffredo Bettini, bollerà come velenose solo perché, chiamando le cose con il loro nome, osano smentire la favole che Bettini va raccontando. Favole esse sì sfrontate e peraltro già smentite dalla pubblicazione di organigrammi già fatti a tutti i livelli".
Nervosismo anche nella Margherita tra ex popolari e rutelliani, tutti due sostenitori di Veltroni. A Fioroni che sostiene di avere il grosso dei cattolici schierati nel Pd, risponde lo staff di Rutelli annunciando che il "manifesto dei coraggiosi" per le riforme ha superato le diecimila adesioni con nomi importanti della cultura, delle professioni, dello spettacolo e dello sport.
* la Repubblica, 6 agosto 2007
Il ministro contesta la sua esclusione ma non farà ricorso
I radicali insistono: "Non ci fermiano, Pannella deve correre"
Furio Colombo, rinuncia con polemica
Di Pietro: "Temevano un vero concorrente"
Il senatore dell’Ulivo ha raccolto firme in mezza Italia ma via fax. Il comitato tecnico del Pd pretende gli originali in 48 ore. "Per me è impossibile. Non ho un partito dietro le spalle" *
ROMA - Il colpo di scena arriva poco dopo le sette di sera. Furio Colombo, senatore dell’Ulivo e uno degli otto candidati alle primarie del partito democratico, rinuncia alla competizione del 14 ottobre. Il motivo è molto tecnico. E lo annuncia lui stesso in una lettera che sarà pubblicata domani sull’Unità: il Comitato tecnico-scientifico del Pd ha contestato al senatore il fatto che molte firme da lui raccolte sono "in fotocopia" perchè "mi è stato impossibile, non avendo una struttura di partito alle spalle, andare in giro per l’Italia a raccogliere fisicamente le migliaia di firme". L’unica cosa che il senatore ha potuto fare, in poco tempo, è stato appunto raccogliere i fax degli amici in giro per l’Italia che lo hanno supportato. Ma secondo le regole, quei fax potrebbero essere fotocopie e quindi irrecevibili. Nell’attesa che il Comitato tecnico-scientifico decidesse sul dà farsi, e impossibilitato a rintracciare "in 48 ore" gli originali in giro per un paese che sta per andare in ferie, Colombo ha tagliato la testa al toro. "Rinuncio" ha scritto.
Pratogonista della giornata è stata la rabbia degli esclusi. Di Marco Pannella e di Antonio Di Pietro che non potranno correre alle primarie del Partito democratico. Che avrebbero voluto ma che sono stati stoppati. "Volete correre per il nuovo partito? Sciogliete i vostri" si sono sentiti dire dal comitato che, regolamento alla mano, decide le candidature per la corsa alla segreteria della costituenda formazione politica.
E oggi l’ex pm attacca: "Il Pd ha perso un’ottima occasione per potersi qualificare tale. Un partito, per potersi definire davvero democratico deve essere aperto e pluralista altrimenti semplicemente non è". 0 La motivazione con cui è stato escluso è semplicemente "un furbo espediente per non avere tra i piedi un concorrente vero e reale, un candidato che avrebbe rotto le uova nel paniere, che avrebbe potuto rimettere in discussione gli equilibri precostituiti". Ma il ministro va anche oltre: "Con il tempo e a mente serena bisognerà riflettere sulle reali motivazioni di questo diniego (che, in realtà, sono molto gravi e per certi versi inconfessabili) e trarne le inevitabili conseguenze, anche sulla opportunità di restare o meno in una coalizione che di fatto ci respinge!". Tra i motivi, l’ex pm non esclude "la posizione che ho assunto sulle intercettazioni" che hanno travolto il vertice dei Ds. Di Pietro ha detto che "Prodi si è molto rammaricato per l’esclusione dell’Italia dei valori dalla Costituente del Pd".
Anche in casa radicale c’è fermento. L’esclusione di Marco Pannella non è stata ancora digerita e oggi, Emma Bonino, insiste: "Il problema, più che tecnico, è tutto politico". Contesta le motivazioni, l’esponente radicale, parla di "arroccamento" di Ds e Margherita. E promette battaglia: "Questa decisione dimostra che si tratta della mera fusione di due oligarchie. Noi useremo le possibilità di ricorso, sperando che le nostre ragioni, che poi dovrebbero essere le loro, facciano breccia".
Ricorso che, invece, Di Pietro non farà. Non nascondendo, però, le conseguenze politiche della sua esclusione: "Con il tempo - dice il leader dell’Italia dei valori - bisognerà riflettere sulle reali motivazioni di questo diniego e trarne le inevitabili conseguenze. Per ora una cosa è certa: chi non ci vuole non ci merita!".
Tocca a Maurizio Migliavacca, uno dei coordinatori del comitato per il 14 ottobre, rispondere. Ed è un riaffermare dic ose già dette più volte. "Se dei leader nazionali vogliono partecipare alle primarie del 14 ottobre devono riconoscere le regole che valgono per tutti e impegnarsi concretamente per il superamento dei loro partiti". Quindi, chi ha ancora un partito alle spalle, non può pensare di candidarsi alla guida di un altro.
* la Repubblica, 31 luglio 2007
Anche l’ex pm presenta le firme, poi la bocciatura due leader
Il sindaco di Roma: "Non si può stare in due partiti"
Pd, no a Pannella e Di Pietro
Sono sette i candidati
di GIOVANNA CASADIO *
ROMA - E sono nove. In corsa per la guida del Partito democratico. L’ultimo sfidante - arrivato in piazza Santi Apostoli tre minuti prima che scada il tempo (le 9 di sera) per depositare le firme - è Furio Colombo. I primi a consegnare lo scatolone con le sottoscrizioni (2.950) e la dichiarazione d’intenti (alle 9 del mattino) sono i giovani volontari del comitato per Walter Veltroni.
Ma è una giornata di colpi di scena: al rush finale si presenta come candidato segretario del Pd, Antonio Di Pietro. Il ministro delle Infrastrutture, ex pm e leader di Italia dei valori prima nega, poi riunisce lo stato maggiore del suo partito, infine a meno di un’ora dalla chiusura dei termini, invia una pattuglia di "diepietristi" guidata da Leoluca Orlando a consegnare le 2.961 firme, ben più di quelle necessarie.
"Il Partito democratico è un’occasione per chiudere finalmente quel lungo periodo di transizione iniziato con Mani pulite. È un’occasione per mettersi in gioco - scrive nel documento consegnato - Solo quando sarà costituito il nuovo partito allora Italia dei valori si scioglierà". Del resto, neppure Ds e Margherita "si sono sciolti davvero".
Sono Di Pietro e il leader storico dei radicali Marco Pannella (che corre in ticket con Emma Bonino) a costituire un "caso". Per Piero Fassino e Francesco Rutelli, leader di Ds e Margherita, non possono partecipare alle primarie del 14 ottobre per la segreteria del Pd. Una considerazione politica, la loro. Ma anche tecnico-procedurale. Tant’è che il comitato a cui spetta valutare la conformità delle candidature con il regolamento del Pd, si riunisce subito, ieri sera. Alle 21 e un minuto, i sette "giudici" coordinati da Nico Stumpo verificano numero delle firme e compatibilità.
Su Pannella e Di Pietro pende una sentenza secca: sono leader di altri partiti, non c’entrano con il processo costituente del Partito democratico a meno che non sciolgano i loro movimenti. "stanno usando le primarie del Pd "come un tram". non possono Anche Veltroni è stato chiaro: "Non si può stare in due partiti", ha detto il sindaco di Roma e candidato favorito.
Pannella, presentandosi nella storica sede dell’Ulivo, fa un mini-comizio: "Non si possono avere due tessere? Ha ragione Veltroni, io ne ho cinque. Adesso che c’è anche Di Pietro è un problema in più per loro che avevano già deciso di farmi fuori. Ora che c’è Tonino non possono mica far fuori me e lui no". Parla di "una contrarietà viscerale, noi radicali dobbiamo essere esorcizzati anche se veniamo a salvare il centrosinistra dal disastro e dallo scoramento come è accaduto alle ultime elezioni". Quindi, con Sergio Stanzani in carrozzella consegnano 2.823 firme impilate in uno scatolone con la scritta "Documenda".
Tremila sono quelle consegnate da Rosy Bindi personalmente alle 10 del mattino. La prima firma per Rosy è quella del ministro della Difesa, Arturo Parisi. Altrettante ne ha raccolte Enrico Letta, il sottosegretario di Prodi, che però le affida per la consegna a Umberto Ranieri, diessino presidente della commissione esteri della Camera. Mario Adinolfi, il blogger e giornalista, di sottoscrizioni ne ha raccolte 2.314.
Piergiorgio Gawronski candidato "contro la casta dei politici", economista, le 2.148 sottoscrizioni le porta con sé in una borsa di stoffa. Un altro outsider, il finanziere Jacopo Gavazzoli Schettini ne porta 2. 278. All’appello si presenta anche Lucio Cangini, ma di firme ne ha solo 701, sa quindi di essere escluso dalle primarue: "Sono contento però di essere qui e di potere parlare del valore della montagna".
Anche Amerigo Rutigliano è già fuori, essendo fuori tempo massimo alla consegna. "È un approccio sconcertante, noi per il Partito democratico ci abbiamo messo la vita e ora alcuni pensano alcuni di poterlo usare come un tram", si sfoga Antonello Soro. Sia Soro della Margherita che Maurizio Migliavacca, il coordinatore della segreteria Ds (entrambi nell’ufficio di presidenza del Pd) hanno dato a Pannella e Di Pietro un ultimatum: se vogliono partecipare al Pd, sciolgano i loro partiti.
* la Repubblica, 31 luglio 2007
Sono nove gli aspiranti alla leadership che hanno presentato le firme necessarie Il leader dell’Idv in campo a sorpresa. Ma come Pannella potrebbe non essere accettato
Pd, la corsa alla segreteria
si candida anche Di Pietro *
ROMA - Scade il termine per candidarsi alla guida del Partito democratico e proprio nel finale arriva la sorpresa: tra i candidati c’è anche Antonio Di Pietro. A poche decine di minuti dalle 21, termine ultimo per consegnare le firme raccolte in piazza Santi Apostoli, il leader dell’Italia dei valori è entrato ufficialmente nella lista dei pretendenti alla leadership. Che sono nove, dato che Lucio Cangini non ha raggiunto il numero minimo di firme e Amerigo Rutigliano è arrivato in leggero ritardo. Ancora in dubbio, però, la posizione del ministro delle Infrastrutture, quella del leader radicale Marco Pannella. Una decisione su di loro potrebbe arrivare a breve.
Anche se fonti parlamentari avevano dato la sua candidatura quasi per certa, Antonio Di Pietro aveva annunciato: "Non mi candido". In serata, però, il portavoce dell’Italia dei valori Leoluca Orlando si è presentato a piazza Santi Apostoli per consegnare le firme a sostegno della sua candidatura alla segreteria. Il ministro delle Infrastrutture ha affermato che, quando sarà costituito il nuovo partito, "si determinerà per i partiti che abbiano aderito la valutazione di sciogliersi". Dai Ds si avanzano però dei dubbi. "Le regole sono chiare e valgono per tutti: un esponente di una forza politica può candidarsi alla segreteria del Pd se quella forza politica si scioglie", ha commentato il coordinatore della segreteria dei Democratici di sinistra Maurizio Migliavacca. Per lo stesso motivo è a rischio la candidatura di Marco Pannella, sostenuto da Emma Bonino: in teoria i radicali dovrebbero sciogliersi come partito per poter confluire nel Pd.
Fin da stamattina, gli sfidanti hanno sfilato sotto la sede dell’Ulivo. Le firme necessarie dovevano essere non meno di duemila e non più di tremila, di cui almeno cento provenienti da cinque regioni diverse.
In mattinata aveva annunciato la propria candidatura anche l’ecomista Pier Giorgio Gawronski, outsider che ha parlato di scelta "contro la casta, contro i privilegi della politica e per la riqualificazione delle istituzioni". "I candidati minori - ha spiegato - sono la vera novità di queste primarie, altrimenti i partiti avrebbero potuto convocare un congresso e nominare il segretario".
Il primo a scendere in campo, lo scorso 27 giugno, è stato il sindaco di Roma Walter Veltroni, il favorito. Con il discorso al Lingotto di Torino, il primo cittadino della capitale ha presentato il manifesto della sua candidatura: cuore del suo programma, "un grande patto generazionale" per fare "una nuova Italia". Veltroni si presenta insieme a Dario Franceschini della Margherita.
Unica donna in corsa, Rosy Bindi, attuale ministro per la Famiglia. Proprio dare voce al mondo femminile è uno dei motivi che l’hanno spinta a correre per la segreteria del Pd. Il ministro ha depositato in piazza Santi Apostoli 3000 firme, ma ha assicurato di averne raccolte più del triplo.
E’ arrivata sul web la candidatura di Enrico Letta: il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha infatti scelto di annunciare la propria scelta attraverso un video dai toni informali, in cui ha scandito le sue parole d’ordine: "Libertà e competizione".
Dal mondo di internet arriva anche un altro pretendente, Mario Adinolfi, blogger e giornalista. Come slogan, quello che è considerato il vero outsider della corsa ha scelto una frase di Bob Kennedy: "It’s time for them to go".
Alle primarie si presenta anche il senatore dell’Ulivo, ex direttore dell’Unità, Furio Colombo. Alla base della sua candidatura, un deciso "no" a Berlusconi: "I fatti - ha spiegato - dicono quanto sia attuale la pericolosità di questo personaggio".
L’altro candidato è Jacopo Gavazzoli Schettini, direttore della Bei. E’ invece in dubbio Amerigo Rutigliano, segretario di Unità democratica sinistra Europea, che ha depositato le sue firme alle 21.30 ma che assicura di aver avvisato del ritardo l’ufficio tecnico.
Non ce l’ha fatta infine Lucio Cangini, per 18 anni vicepresidente dell’Unione della Comunità montane, che si è fermato a 700 firme.
* la Repubblica, 30 luglio 2007
Il numero 50 di Adista è da non perdere.
segnalazione di Aldo [don Antonelli]
Vi si riporta un interessantissimo dibattito sull’attuale stato della politica italiana e non: America, la Destra italiana, Berlusconi, la sinistra, il cattolicesimo democratico, il partito democratico ed altro ancora.
Al forum partecipano Angelo Bertani, Furio Colombo, Raniero La Valle e Giorgio Tonini.
Vi riporto solo alcuni passi dell’intervento di Furio Colombo. Le evidenziazioni in grassetto sono mie. (Aldo)
Se vi interessa tutto il forum potete leggerlo nel sito www.adistaonline.it
Furio Colombo: Il vento nuovo che soffia dagli Usa aiuterà l’Italia a fare definitivamente i conti col berlusconismo? (......)
Ho vissuto a lungo in un Paese, gli Stati Uniti, profondamente permeato dalla cultura democratica: il Paese che veniva da Roosevelt, dalla lotta all’anti-fascismo, dalla enorme importanza che avevano i sindacati, la cultura del solidarismo, la militanza di preti e suore sui temi della pace e del disarmo. Nell’arco di questi ultimi anni ho visto come è nata la nuova destra americana. Una destra che, benché a livello profondo avesse sempre avuto le sue punte di diamante dentro i grandi interessi economici, in superficie ha iniziato a presentarsi nelle forme “popolari” della destra cristiana fondamentalista. Ad un certo punto le grandi Chiese protestanti, principalmente quella battista, hanno dato segni di fondamentalismo, iniziando a proclamare l’importanza della fede a scapito delle opere; anzi, quasi il disprezzo per le opere. Nel mio libro del 1982, “Il Dio d’America”, affermavo che l’America sarebbe stata segnata dai grandi movimenti religiosi e confrontavo i tre grandi movimenti allora presenti: quello evangelico-pentecostale-battista, con forti venature fondamentaliste e grande spinta verso la destra popolare di massa; quello cattolico, ancora vastamente solidarista e basato sui grandi valori del lavoro, dei poveri, del mito di Madre Teresa di Calcutta; quello del militantismo ebraico che era principalmente democratico e solidaristico, tanto è vero che, nonostante Israele, tuttora una piccola maggioranza dei 5 milioni di ebrei americani vota democratico, piuttosto che repubblicano.
Il cambiamento della destra americana è avvenuto all’improvviso, con un meccanismo molto simile a quello che in seguito sarà il meccanismo berlusconiano. In questo processo, Reagan ha agito in un modo piuttosto sommario e improvvisato. Qualcosa di molto più solido è accaduto con Bush padre, dove l’aggancio con alcune centrali di attività internazionale di destra e di estrema destra era forte, tuttavia Bush padre si sentiva ancora legato alle forme della politica, a certi aspetti costituzionali, per cui il suo spostamento a destra è stato, dal punto di vista degli effetti, meno visibile di quello operato da Reagan. Invece, con George W. Bush la destra ha perso qualsiasi pudore, rompendo ogni barriera politico-istituzionale. E qui c’è la saldatura con la situazione italiana, che ha con gli States un rapporto molto particolare. George W. Bush ha saldato con Silvio Berlusconi un rapporto assolutamente omogeneo e corrispondente tra destre decise a non avere alcun pudore.
Bush figlio è corso verso il voto della prateria cristiana rimuovendo ogni ostacolo, ha messo il piano inclinato e ha permesso che tutta la politica del partito repubblicano andasse verso quella parte: “Cosa volete? la preghiera nelle scuole, anche se offende le altre religioni? Non importa, noi siamo per la preghiera nelle scuole. Limitazioni all’aborto anche quando è in pericolo la salute della donna? Non c’è problema”. Quella di Bush è stata una corsa indifferenziata per ingraziarsi i favori della destra cristiana e in questa sua corsa è stato seguito dai media, che riflettevano gli interessi di quella finanza (......)
Questa manovra è stata ripresa in pieno da Berlusconi che ha capito da subito che bisognava mettere il piano inclinato, e lasciar scorrere tutto ciò che favoriva atteggiamenti tradizionalisti, conformisti, opportunisti, cercando di risvegliare tutto il vecchio e tutto il peggio della società italiana. L’incoraggiamento non esplicito ma molto diffuso nel mondo berlusconiano recita: “Tu devi fingere di essere credente, non devi essere credente”. Un grande incoraggiamento alla finzione; e nella finzione di essere credente non c’è limite, non c’è obiezione. L’Italia ha alle spalle secoli di opportunismo per poter sopravvivere: risvegliare l’opportunismo della finzione di essere credenti è stata una mossa vincente.
Stessa dinamica per un fatto accaduto recentemente: il caso della Guardia di Finanza. Il giorno che Padoa Schioppa riferiva in Senato sulla questione del generale Speciale, abbiamo saputo che a destra avevano previsto l’arrivo delle fiamme gialle nei loggioni del Senato, che avrebbero dovuto popolarsi di finanzieri. Un fatto gravissimo, che Marini ha impedito con un pretesto, facendo dire agli uscieri che mancava la richiesta. Ora, non è che a destra siano stati presi da una vampata di patriottismo, è che una volta messo il piano inclinato, non c’è più limite, non c’è più modo di fermarlo. Per questa ragione, in quattro anni di direzione dell’Unità io ho sostenuto il pericolo grave, mortale rappresentato da Silvio Berlusconi. Sono rimasto l’unico; non sono stato sostenuto e ad un certo punto sono stato pregato di andarmene. Zanda (Margherita) ha recentemente fatto appello a Berlusconi “a lavorare assieme per il bene della patria”. Gli ho detto: “Guarda, avrai la risposta di Berlusconi entro questa sera”. Sono passati 5 minuti e la destra ha occupato l’aula con i cartelli con il volto di Visco come quello del padrino, con le scritte “ridateci la democrazia”, bloccando i lavori e assumendo un comportamento indegno. E questo dopo l’appello di Zanda a “lavorare assieme”...
Allora io continuo a vedere il pericolo non in Ruini, ma in Berlusconi. Perché una calca di miscredenti è entrata con forza nelle chiese con il nuovo comandamento “tu crederai senza credere”. Alle spalle dei cattolici è arrivata la calca di miscredenti e ha cominciato a fare a gomitate e a pugni nello spazio nei pressi del papa. Per cui il papa non fa in tempo ad aprire la bocca che ottiene lo spazio in tutti i telegiornali: è un bollettino quotidiano, moltiplicato per tutti i telegiornali che l’Italia possiede, con delle sequenze che finiscono per influenzare la gente. Quindi in questo momento tutto ciò che chiamiamo Chiesa è in mano a miscredenti! In mano ad uomini come Giuliano Ferrara, in mano ai cosiddetti atei devoti; sono loro che condizionano e spingono la folla, creando dei mostri come il Family Day, che è stata una delle cose più umilianti che abbia mai visto, da italiano: l’esibizione di famiglie con sette figli io le ho viste da bambino solo al tempo del fascismo.
Il Family Day, così come ci è stato illustrato dalle televisioni, dai miscredenti, ci ha mostrato che la famiglia vera è quella che ha almeno sette figli. Invece era un’oscena operazione “anti”: contro i diritti di altre persone, attraverso un passaggio di una nefandezza logica e inesistenza logica assoluta, quella per cui se due persone si vogliono bene, vivono insieme e vogliono una legge che gli consenta di passarsi l’apparta-mento, per non farsi sfrattare in caso di morte di uno dei due, questo minaccia me, mia moglie, i miei figli e i miei nipotini! Ma come si può affermare una illogicità così profonda? Soltanto tra miscredenti. Soltanto tra gente senza fede, senza amore, senza solidarietà, senza rapporti tra esseri umani. Soltanto tra cinici si possono dire cose di questo genere, e per imporre questa logica perversa c’è bisogno che la piazza sia occupata da una folla di miscredenti e di finti credenti, di signore divorziate che stanno con il nuovo amico, scollate e con il crocefisso, nel loro quarto matrimonio benedetto da qualche vescovo. (.....) Penso .... che il cambiamento che viene dall’America porterà dei cambiamenti anche in Italia. Purtroppo, anche nel Senato italiano, ancora si continuano a lanciare appelli a Berlusconi, il peggiore personaggio che sia apparso alla ribalta della vita politica del mondo negli ultimi tredici anni. Al punto che, nella stampa francese, i detrattori o gli scettici di Sarkozy si domandano: sarà un Kennedy o un Berlusconi? Ma è nel vento nuovo che soffia in America che vedo l’aggancio con la speranza che si possa superare questa impasse, anche all’interno del nascente Partito Democratico, che però è afflitto al momento da un’anemia paurosa, in particolare nella parte che è numericamente più ampia, ovvero nella sinistra che ci sta entrando in condizioni di debolezza. Dalla posizione mite e prudente di Hillary Clinton a quella infinitamente più esposta e generosa di Barack Obama, c’è un’America solidaristica, un’America dei poveri, un’America dell’anti-guerra, dei grandi sentimenti popolari, come quella della signora Cindy Sheehan che ha perduto il figlio in Iraq, l’America che ha portato la cattolica Nancy Pelosi a divenire la speaker della Camera (con un Senato robustamente rappresentato da cattolici come Kennedy e Kerry) nel Congresso più anti-guerra che ci sia mai stato dopo il Vietnam. E se vedo dei cedimenti strani, terribili e poco promettenti, spero comunque che la scossa americana dia il frutto che potrebbe dare. Ma può darsi che abbia un eccesso di ottimismo.
Il direttore coraggioso
di Furio Colombo *
«Si affolla la gara per le primarie». Così inizia il suo articolo Stefano Menichini, direttore di Europa, organo dei “coraggiosi” che suggeriscono di smontare il palco dell’attuale centrosinistra per rimontarlo un po’ più vicino a Berlusconi.
Curiosa apertura di un articolo dedicato da un quotidiano politico non a una “gara” ma alle elezioni primarie per la carica di segretario del nascente Partito democratico. Ancora più curiosa l’immagine che il direttore evoca per i suoi lettori. Si “affolla” una “gara” che sabato 14 luglio era di uno (Walter Veltroni), il 15 luglio era di due (Walter Veltroni e io) e lunedì 16 era di tre (quando si è aggiunta felicemente Rosy Bindi).
Dopo un’apertura così poco giornalistica (a lui tre persone che vorrebbero confrontare idee e progetti per un nuovo grande partito sembrano una folla), segue un elaborato in cui Menichini perde il filo forse perché cautamente assente dagli anni di Berlusconi in cui Padellaro e io, solo per l’ostinazione di dirigere un giornale antiberlusconiano, venivamo definiti terroristi, omicidi (”testata omicida” era la definizione che ci spettava, mentre Menichini era probabilmente a Lugano) querelati quasi una volta al giorno (mai sui fatti), citati a giudizio in cause civili milionarie dalla batteria di avvocati di casa Berlusconi-Previti- Dell’Utri.
Se il direttore di Europa, invece che in un dorato esilio (così si deve immaginare a causa della sua memoria totalmente sgombra da persone e fatti realmente accaduti dal 2001 al 2006) si fosse trovato a vivere in Italia avrebbe notato che questo giornale - si è accorto delle violenze cilene accadute al G8 di Genova (un ragazzo ucciso e centinaia di feriti nel modo più brutale) come debutto democratico del duo Fini-Berlusconi, molto prima delle rivelazioni giudiziarie e delle drammatiche confessioni di parti in causa;
si è schierato con il Palavobis prima di sapere che invece di 400 o 4.000 partecipanti ci sarebbero stati 40.000 protagonisti di libertà (quella sì era una folla);
ha lavorato a sostenere tutti gli eventi liberi e tutti i girotondi fino all’autoconvocazione, senza cestini pranzo e autobus pagati, di un milione di cittadini in Piazza San Giovanni;
si è occupato giorno per giorno di ogni legge vergogna e di ogni Tv vergogna (direttori di grandi quotidiani che sedevano due ore in silenzio attorno al facondo monologante Berlusconi, sostenuto dal sorriso di Bruno Vespa, senza interromperlo mai);
si è meritato sia ripetute minacce di morte (il giornale ha dato notizia solo di quelle pubbliche, le altre le ha girate alla Digos) sia lo spionaggio personale e quotidiano per cinque anni, pedinamenti inclusi, di quella parte o gruppo dirigente del Sismi che è adesso al centro di una vasta inchiesta giudiziaria.
Menichini mi accusa di «presunzione di superiorità morale». Diciamo che, con Padellaro e tutti i miei colleghi de l’Unità, abbiamo lavorato per la fine della clamorosa e vergognosa illegalità che dominava sotto Berlusconi. E Menichini no. Nessuno si sarebbe sognato di rimproverargli la sua prudente assenza dalla scena. Dopotutto Berlusconi, senza il Palavobis, senza Piazza San Giovanni, senza centinaia di girotondi, senza la mobilitazione di tanti cittadini altrimenti estranei ai partiti e alla politica, e senza l’Unità (il solo giornale politico europeo con 70mila copie vendute) avrebbe potuto durare dieci anni e anche più, continuare il massacro delle nostre libertà, il controllo totale delle televisioni e la immagine ridicola e penosa dell’Italia, nata il giorno del non dimenticato scontro con l’eurodeputato Schultz, che Berlusconi ha chiamato kapò.
Ma adesso è Menichini che un po’ bizzarramente fa l’elenco di ciò che noi, secondo lui, non avremmo fatto. Ci vuole coraggio, ma dopotutto Menichini fa parte dei “coraggiosi”. Sentite. Avremmo dovuto (noi, l’Unità e il suo direttore) in piena epoca berlusconiana tener testa a Prodi, sfidarlo a quelle primarie; avremmo dovuto andarci piano con Berlusconi. Dopotutto è stato scelto da metà del Paese. Pensate alla fortuna dei cittadini americani che nessuno ha ammonito ad andarci piano con Bush, neppure quando aveva il 70 per cento di gradimento. E infatti adesso il suo gradimento è al 34 per cento. Si chiama democrazia.
Io, personalmente, dovrei essere molto prudente nelle primarie, mi ammonisce Menichini. Vedessi mai che le vinco. «Berlusconi - dice lui con una gentile affermazione di stima nei miei confronti - lo affosserebbe in tre giorni». Con il Sismi dei tempi di Berlusconi e tutta la televisione ferreamente sotto controllo, pena il licenziamento immediato, è possibile. Ma se la vita italiana fosse normale, Menichini pensa davvero che l’uomo rifatto di Arcore sia così irresistibile? Se lo immagina Berlusconi eletto a plebiscito in Francia o anche solo in Costarica? Senza Vespa, senza Confalonieri, senza i ragazzi a gettone di Dell’Utri e la folla napoletana che, sono certo, non si lascerà umiliare una seconda volta da quelle domande tipo spot dei telefonini a cui bisogna rispondere in coro “siiii” e “noooo” come non si vede neppure in “Fascisti su Marte”?
Menichini si domanda perplesso come Padellaro, Travaglio, Flores, e io (per dire i peggiori) ce la faremmo mai a battere Berlusconi.
Semplice, Menichini: prima di tutto smettere di venerarlo, smettere di pensare che sia astuto, good looking, affascinante, moderno e invincibile.
Chiamiamo a testimone Veronica Lario. Lei - che lo ha visto da vicino - ha voluto farci sapere che, a differenza di ciò che credono alcuni della Margherita (e anche alcuni Ds) l’uomo rifatto di Arcore viene dal più profondo e umiliante passato italiano.
Bello però il titolo di Menichini: «Con quelli non vinceremo mai». Ce lo avevano già detto, a cominciare dal 2001 e nei giorni della rinascita de l’Unità, molti suoi colleghi, quando lui era a Lugano. Noi testardamente siamo andati avanti. Pazienza, Menichini. Per il momento Berlusconi non governa. Nonostante lo spionaggio, le accuse, le calunnie, le querele milionarie, non ci ha spaventato, non ci ha affascinato e non ha vinto. Per il futuro, perché non augurare buona fortuna a chi non smette di provare, e di dare il suo contributo per un po’ più di dignità e di libertà in Italia, sempre che Europa sia, oltre all’ Unità, l’altro giornale del Partito democratico?
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 18.07.07, Modificato il: 18.07.07 alle ore 7.50
L’annuncio del ministro: "Anch’io sento la responsabilità di un impegno in prima persona"
"Una vittoria più forte e limpida se gli elettori non si limiteranno alla ratifica di un solo nome"
Pd, Bindi rompe gli indugi
"E’ giusto che io mi candidi"*
ROMA - Rosy Bindi rompe gli indugi e annuncia la sua candidatura alla segreteria del Partito democratico alle primarie del 14 ottobre. "L’appuntamento ha risvegliato, nel popolo dell’Ulivo, nuove attese e una grande speranza nel Pd - afferma il ministro della Famiglia - che non possono andare deluse. Anch’io, come tanti, sento la responsabilità di un impegno in prima persona". Bindi sottolinea di aver "riflettuto a lungo" sul contributo che avrebbe potuto dare "a questa straordinaria opportunità per la politica e il Paese", si dice convinta che "la scelta più giusta e più utile sia quella di presentare la mia autonoma candidatura alla segreteria del nuovo partito". E annuncia: "Se sarò eletta rinuncerò a qualunque altro incarico e mi dedicherò esclusivamente a questo compito entusiasmante". In una lunga nota, le ragioni della sua decisione.
Per una vera competizione. Un partito che nel suo atto fondativo segna "una radicale discontinuità" rispetto al passato e sceglie la nuova classe dirigente con una consultazione popolare "ha bisogno di una competizione vera - sostiene Bindi - che favorisca il confronto delle idee e porti alla luce differenze e ricchezze culturali". Il Pd sarà "quel soggetto politico aperto e plurale che abbiamo sempre voluto, se sapremo superare il recinto dei partiti fondatori e mescolare vecchi iscritti e nuovi nomi". Chiunque vincerà le primarie, aggiunge, "avrà una vittoria più forte e limpida se gli elettori non si limiteranno alla ratifica di un solo nome".
Il momento delle donne. Bindi è dice convinta che "le donne non possano più aspettare" e che i tempi siano maturi "per lasciarci alle spalle schemi e pregiudizi culturali". E spera che la sua candidatura sia un incoraggiamento per le donne "che vogliono mettersi al servizio, in prima persona, della democrazia italiana".
Bipolarismo e laicità. Il Pd, osserva Bindi, deve avere l’ambizione "di restituire autorevolezza alla politica e qualità alla nostra democrazia". Serve "un bipolarismo maturo, senza ambiguità e tatticismi", per questo bisogna "cogliere fino in fondo la sfida di una nuova laicità". Il pluralismo etico, religioso e culturale che caratterizza la società italiana impone "un civile confronto tra credenti e credenti così come tra credenti e non credenti" e "la ricerca di un orizzonte più avanzato di dialogo e collaborazione".
Persone più forti delle regole. Il Comitato dei 45 ha approvato "un regolamento elettorale che favorisce chi può contare su una forte organizzazione", Ds e Margherita "hanno dichiarato di appoggiare la candidatura di Veltroni" ma, nonostante "questi limiti", Bindi è convinta che tantissimi "vogliono essere protagonisti della nuova stagione". E si appella "a coloro che guardano con speranza al partito nuovo" affinché entro una settimana vengano raccolte e presentate 3.000 firme.
* la Repubblica, 16 luglio 2007
Il ministro della Difesa rinuncia a correre per la segreteria del Partito Democratico
"Sostengo e saluto con soddifazione la candidatura di una donna che ha capito il senso delle primarie"
Pd, Parisi: "Non mi candido
Appoggio Rosy Bindi"
ROMA - "Non mi candido, appoggio la Bindi". Così Arturo Parisi al comitato referendario ha annunciato di non volersi candidare alla segreteria del Pd e di voler appoggiare il ministro della Famiglia, Rosy Bindi.
"Sono lieto - aggiunge Parisi - di sostenere le candidature che con maggiore trasparenza e determinazione rappresentano i nostri valori. Ho salutato e saluto ancora con soddisfazione la candidatura della Bindi, una candidatura coraggiosa di una donna che ha capito il senso delle primarie e il significato di questo partito nuovo per il quale ci siamo messi in cammino tanti anni fa’’.
Rosy Bindi ha reso nota ieri la sua decisione, applaudita da Parisi. "La Bindi ha alzato la mano indipendentemente dall’indicazione dei partiti anzi contro l’indicazione dei partiti stessi", ha detto ancora il ministro della Difesa. "Bindi - prosegue - si è candidata superando i limiti di un regolamento che è stato pensato sulla base e con il presupposto che ci fosse il controllo da parte dei partiti".
* la Repubblica, 17 luglio 2007
Manifesto rutelliano, Bindi e gli ulivisti attaccano *
Il manifesto di Francesco Rutelli, che ipotizza «alleanze di nuovo conio» per il Pd, scuote l’Ulivo e il governo. Rosy Bindi sollecita Veltroni e Dario Franceschini a pronunciarsi sul documento che a suo avviso metterebbe in discussione il governo; e altrettanto fa il portavoce degli ulivisti, Franco Monaco. Franceschini replica parlando di «dietrologie» e approvando il documento di Rutelli, che riceve l’apprezzamento anche di Veltroni che però assicura che il Pd «sostiene con grande forza il governo». da comunque potrebbe spingere la Bindi ed Enrico Letta a decidersi per una candidatura alternativa a quella di Veltroni, come incoraggiano a fare Parisi e gli ulivisti Dl.
Di fronte all’iniziativa di Rutelli che ipotizza «alleanze di nuovo conio», il ministro della Famiglia ha affermato che l’ipotesi di nuove alleanze «non è conciliabile con il sostegno al governo Prodi», ed anzi «vuole abbinare alle primarie un implicito referendum sulla guida del governo».
«Che ne pensano Veltroni e Franceschini?», è la domanda finale di Bindi. E le sue parole trovano riscontro nelle dichiarazioni preoccupate di alcuni alleati come Angelo Bonelli (Verdi) o Pino Sgobio (Pdci).
Irritata la risposta di Dario Franceschini, che ha parlato di «dietrologie». «Il documento di Rutelli - ha aggiunto - ha un buon impianto riformista e non credo proprio che tutte quelle persone che l’hanno firmato intendano far cadere il governo».
Dopo aver inizialmente evitato di commentare con i giornalisti il documento dei «coraggiosi», anche Walter Veltroni ha promosso il manifesto di Rutelli, dicendo che «contiene elementi di programma di grande interesse», e precisando che il Pd «sostiene con grande forza l’azione di questo governo».
Insomma, nella Margherita dopo l’accordo di mercoledì sera della componente di Fioroni e Franceschini con quella di Rutelli per delle liste trasversali con i Ds a sostegno di Veltroni, prevale la voglia di pace. E così anche in casa Ds. Al Botteghino si dice che il Manifesto è un contributo, come ce ne saranno altri, e che fa parte del pluralismo di voci di questa fase. Certo, il passaggio sulle alleanze è di dubbia opportunità, ma un dirigente della Quercia ricorda che martedì alla Festa dell’Unità Fassino ha detto cose molto simili.
Non la pensano così gli ulivisti vicini ad Arturo Parisi. Il loro portavoce, Franco Monaco, si è rivolto anch’egli a Veltroni per sollecitarne il responso. L’iniziativa non solo mette a rischio il governo, ha detto Monaco, ma in più «esprime una particolare visione del Pd che dovrebbe concretarsi in una candidatura distinta e in competizione con Veltroni». E anche Andrea Papini, ex parisiano, la pensa allo stesso modo.
Di parere opposto i rutelliani. Rino Piscitello parla di un «salutare scossone» e Renzo Lusetti respinge le «interpretazioni forzate del documento», che nel frattempo ha ricevuto l’adesione di altri dirigenti Dl vicini al vicepremier.
L’iniziativa potrebbe avere l’effetto di spingere Bindi e Letta a candidarsi per la segreteria. Letta ai suoi sabato ha detto che la decisione sarà presa una volta concluso l’accordo sulle pensioni, quindi presumibilmente la prossima settimana. Il sottosegretario è rimasto colpito dall’articolo sull’Espresso di Giampaolo Pansa che esprime la delusione per la rinuncia di Bersani. Agli uomini che lo sostengono ha mandato un sms in cui si invita a leggere l’articolo. «Stiamo a vedere se Letta, Bindi e Parisi hanno la schiena dritta o se si acconceranno a fare le comparse mute del supershow di Superwalter», scrive Pansa.
Venerdì Letta ha fatto una breve riunione con i suoi per studiare le regole approvate dal Comitato dei 45 mercoledì. In ogni caso la «macchina» è già partita, con la ricerca di persone disponibili a candidarsi in tutti e 475 i collegi: il lavoro è molto avanti in tutte le regioni, con delle difficoltà solo in Sicilia, a Roma e nel Lazio.
Rosy Bindi è un pò più indietro dal punto di vista organizzativo. La valutazione politica riguarda il profilo della candidatura, che deve essere «per» (primarie vere, dar voce alle donne, nuova laicità) e non «contro». Ai cronisti che le hanno chiesto quando deciderà, il ministro ha risposto: «Nei prossimi giorni».
* l’Unità, Pubblicato il: 14.07.07. Modificato il: 14.07.07 alle ore 14.43
Veltroni e il comunista
di Alfredo Reichlin *
La novità e l’importanza di ciò che è avvenuto con la discesa in campo di Walter Veltroni consiste essenzialmente - mi pare - nel fatto che la costruzione di un partito davvero nuovo (cioè diverso da quelli attuali) ha compiuto un passo avanti serio. Non siamo più alla sommatoria di vecchi ceti politici. Veltroni ha cominciato a definire la fisionomia del nuovo partito. Una forza che si candida a governare una società moderna molto complessa e frammentata come quella italiana uscendo dai vecchi schemi dentro e indicando le condizioni possibili perché questo paese possa ricominciare a «stare insieme». Non c’entrano niente i buoni sentimenti. C’entra la consapevolezza di quali sfide stanno davanti alla nostra patria, e quindi, della necessità di un nuovo patto di cittadinanza.
Un patto «inclusivo» non solo tra generazioni e interessi diversi ma tale da far fronte a quella sorta di «secessione silenziosa» del Nord dal Mezzogiorno che si finge di non vedere. Veltroni non si è nascosto affatto la gravità della crisi e la drammaticità dei problemi irrisolti. È in risposta ad essi che ha delineato una idea del futuro del paese che non è astratto perché è sorretta dalle costruzione di una nuova soggettività politica e culturale: quel tipo di forza che qualcuno di noi si era azzardato (da tempo) a chiamare «un partito nazionale».
Perchè così - e solo così - si giustifica la nascita di un nuovo partito all’interno del quale la sinistra non cancelli la sua grande storia. Una forza nuova per una situazione storica nuova. Così come accadde, del resto, con la nascita dei partiti operai al passaggio dall’agricoltura all’industria oppure come si rispose al tramonto dell’età liberale e all’avvento della società di massa: da sinistra con Roosevelt e la socialdemocrazia e da destra con un partito totalitario di massa.
Insomma, io penso questo. E qui sta la ragione del mio giudizio così positivo su ciò che è avvenuto a Torino. Ma è proprio questo evento, proprio per il suo essere così carico di nuovi sviluppi e nuove aspettative, che non chiude ma apre nuove riflessioni. Esso chiama le culture politiche (a cominciare da quella da cui vengo) a confrontarsi non solo con le persone ma con la sostanza della crisi italiana, che è non solo economica e sociale ma si configura ormai come crisi della democrazia repubblicana. C’è, infatti, una ragione se la costruzione di un partito democratico è una impresa così difficile e niente affatto moderata. La ragione è che si scontra con forze molto potenti. Pietro Scoppola ha ragione quando ci invita a chiederci se (cito) «nella storia del paese non ci siano motivi profondi di resistenza se non di incompatibilità rispetto al progetto del partito democratico». E risponde che la formula dei «riformismi che si incontrano» è superficiale perché non dà conto del problema di fondo, tuttora irrisolto, che è la sostanziale incompiutezza (cito ancora) «del processo fondativo della democrazia nel nostro paese. Perché l’amara novità è questa: quel processo, del quale sono state poste le promesse con la Costituzione, non è stato compiuto né a livello etico, né a livello di cittadinanza; né a livello istituzionale». È evidente. Qui sta la missione del partito democratico. Una missione difficile sia per le ragioni accennate e che stanno dentro la storia italiana, ma che è resa più difficile per l’impatto che il processo reale della globalizzazione sta avendo su un sistema politico debole come quello italiano. È di questo che si parla troppo poco. E io continuo a stupirmi quando leggo che anche uomini di grande intelligenza sostengono che il problema del partito democratico consiste essenzialmente nella scelta tra i fautori del mercato (il filone liberal) e i fautori del vecchio intervento statale (il filone socialdemocratico). Ma dove vivono?
È perfino ovvio e in sé non è affatto un male, (anzi, in sé, è un portato del progresso) il fatto che nel mondo globale lo Stato ha perso la sovranità assoluta e che quindi non è più il solo garante della vita sociale politica e culturale di un popolo-nazione. Ma il grande problema è che questo vuoto non è stato riempito. E non è stato riempito non perché i politici si intromettono troppo nelle «logiche» di mercato ma perché lo Stato ha perso anche il monopolio della politica. Non è poco. Significa che non è più lui il garante della sovranità popolare cioè dei diritti uguali di cittadinanza. E ciò perché sono entrati sulla scena (come sappiamo) altri poteri molto potenti, non solo economici e finanziari, ma anche scientifici, mediatici, culturali. Io non apprezzo affatto, e tanto meno giustifico le derive oligarchiche e autoreferenziali della politica, ma credo che dopotutto sta anche qui la ragione della sua crisi così profonda. Più la politica conta meno nel senso che non è in grado di prendere le «grandi decisioni», quelle che riguardano il destino della «polis», più la politica si attacca al sottopotere e al sottogoverno. E così la democrazia si svuota e aumenta il distacco dalla gente. E si crea quel circolo vizioso per cui a una elites auto referenziale e poco rappresentativa si contrappone una società che si frantuma e si ribella al comando politico.
Se questa analisi è corretta anche quei miei amici che rappresentano il filone «liberal» dovrebbero cominciare a pensare che la vecchia dicotomia tra Stato e mercato non ha più il significato di una volta. La socialdemocrazia non c’entra. È del tutto evidente (come è stato detto e stradetto) che lo squilibrio crescente tra il «cosmopolitismo» dell’economia e il «localismo» della politica ha travolto le basi del vecchio compromesso socialdemocratico. Ed è anche vero che il neo-liberismo non solo ha vinto, ha stravinto ed è diventato da anni la ideologia dominante. Ma posso cominciare a chiedermi se le cose, le cose del mondo nuovo, lo strapotere della finanza mondiale, il sommarsi di ingiustizie abissali con la formazione di una nuova oligarchia straricca, posso cominciare a ragionare senza tabù anche sul rapporto tra mercato e sfera pubblica e sociale? Attenzione, non sul mercato come strumento essenziale dello scambio economico, evidentemente, ma come pretesa di essere il presupposto di ogni sistema sociale e di rappresentare la risposta ai bisogni di senso, di nuove ragioni dello stare insieme a fronte del venir meno delle vecchie appartenenze Veltroni ha ragione nel sottolineare la necessità di creare nuove risorse se vogliamo produrre servizi e capitali sociale (la vera povertà italiana). E queste risorse non le produce lo Stato. Per cui diventa sacrosanto tutto il discorso contro le rendite, i parassitismi, i protezionismi, ecc. E quello sulle liberalizzazioni. Ma Veltroni ha collocato queste affermazioni in un quadro molto più ampio e molto più moderno. Ha reso evidente che se la crescita non si accompagna alla creazione di nuove istituzioni (politiche, sociali, nuove relazioni sociali, capitale sociale) capaci di consentire a una società di individui di diventare cittadini, persone, cioè non solo consumatori ma creatori di se stessi, capaci di esprimere nuove capacità, noi non riusciremo mai a evitare le nuove emarginazione e le nuove miserie. Così la società si disgrega. I dati sull’apprendimento scolastico al Nord e al Sud sono impressionanti. Non è questione di soldi. I soldi ci sono. Mancano fattori sociali e culturali (le cose che fanno diversa l’Emilia dalla Calabria) che non possiamo affidare alle sole logiche di mercato.
Spero che si capirà il senso di queste mie osservazioni. Esse nascono dall’assillo di chi da tempo è dominato dalla necessità di uscire da vecchie visioni, e pensa che il problema di una nuova politica economica è creare un circolo virtuoso tra crescita e coesione sociale, tra politica ed economia. Abbiamo bisogno di un nuovo pensiero e una rivoluzione culturale. E torna in me, vecchio comunista italiano, il senso profondo della eresia gramsciana, l’idea della rivoluzione italiana intesa prima di tutto come rivoluzione intellettuale e morale. Io sogno un nuovo partito il quale faccia leva con più decisione di quanto non abbia fatto la vecchia sinistra classista sul fatto che l’avvento della cosiddetta economia post-industriale e della società dell’informazione richiede e, al tempo stesso, esalta risorse di tipo nuovo, non solo materiali: risorse umane, saper fare, cultura, creatività, senza di che la tecnologia non serve a niente; risorse organizzative senza di che è impossibile gestire sistemi complessi; risorse ambientali e relative alla qualità sociale; e quindi - di conseguenza - beni cosiddetti «relazionali», cioè rapporti sociali e istituzioni capaci di produrre fiducia, cooperazione tra pubblico e privato. Insomma un nuovo ethos civile, essendo questo il solo modo per dare ai «poveri» la possibilità di non essere messi ai margini. Far emergere, in alternativa alla ricetta neo-liberista, l’altra possibilità insita nel post-industriale, e cioè il fatto che una nuova coesione sociale può diventare lo strumento più efficace per competere.
Forse non è una grande scoperta. Ma a me sembra il solo modo per la sinistra di dare un fondamento strategico alla sua iniziativa, intendendo la strategia come la capacità di spostare i rapporti di forza e di intervenire dentro i processi reali, volgendo a proprio vantaggio la dinamica oggettiva dei cambiamenti che si producono. Abbiamo bisogno di una nuova analisi politica per capire se nella realtà effettuale, e non nei nostri desideri, sono aperte delle contraddizioni e delle linee di conflitto sulle quali si possa innestare una grande iniziativa politica.
* l’Unità, Pubblicato il: 03.07.07, Modificato il: 03.07.07 alle ore 9.03
Il Partito democratico e il mercato
di Giorgio Ruffolo *
Anche chi, come il sottoscritto, ha espresso riserve sulla scelta politica del partito democratico deve riconoscere oggi che la candidatura di Walter Veltroni conferisce a quella scelta una innegabile credibilità. Messaggi e programmi marciano sulle gambe degli uomini. E la sinistra riformista ha un bisogno disperato di leadership. Quella di Walter Veltroni è una scelta felice.
Resta il problema dell’identità del nuovo partito. Non parlo di programmi. Che tocca ai governi e non ai manifesti degli intellettuali, di formulare e di gestire. Parlo dell’identità politica. La quale si riassume nella collocazione rispetto alle grandi forze politiche esistenti in Europa. E in una chiara indicazione sulla posizione che il nuovo partito assumerà rispetto al grande confronto tra la destra e la sinistra. Non è affatto vero, come è diventato di moda affermare, che quella distinzione abbia perso significato. Mai come oggi, in tutta Europa, quella contrapposizione è stata così evidente e serrata. E così ideologica, se con questa parola si intende non un travestimento - come la intendeva Marx - ma una antitesi tra visioni opposte della realtà sociale, come la intendeva Bobbio. Certo, non si tratta più della rappresentazione della sinistra come cambiamento e della destra come conservazione. Per più di un verso questa distinzione si è rovesciata. Si tratta della contrapposizione tra chi accetta i rapporti di forza che risultano dal conflitto sociale e chi pretende di correggerli e di orientarli secondo valori e obiettivi di sostenibilità e di equità. Da questo punto di vista, la questione del rapporto tra economia e politica, tra mercato e democrazia è centrale e vitale.
Il partito democratico dovrebbe assumere una posizione non equivoca sul contrasto di fondo tra una società fondata sui rapporti di forza o su valori di solidarietà. E quindi, sulla questione cruciale del posto che il mercato deve assumere nella società.
La storia dei rapporti tra il mercato e la politica (ambedue fondati sui rapporti di forza) si è alternata, nella modernità, tra condizioni di prevalenza dell’uno o e dell’altra. Non v’ha dubbio che verso la fine del compromesso socialdemocratico la politica fosse giunta, in gran parte dell’Europa, a comprimere il mercato in una morsa tra invadenza amministrativa e pressione sindacale. E non v’è altrettanto dubbio che, tra globalizzazione e finanziarizzazione, il mercato ha ribaltato violentemente, a partire dagli anni ottanta, questo rapporto. La domanda di fondo è questa. Il partito democratico asseconderà queste tendenze alla mercatizzazione, non solo dell’economia ma della società, o si impegnerà a ristabilire un equilibrio democratico tra economia e politica, tra potenza economica e potere democratico?
Questo equilibrio non comporta affatto un recupero di invadenza dello Stato rispetto al mercato. Ci sono due terreni sui quali quel rapporto dovrebbe essere riqualificato. Il primo è che lo Stato sappia programmare, anziché gestire. Su questa linea dovrebbe essere perseguita la riforma della spesa pubblica, ispirandosi ai criteri di pianificazione strategica introdotti in Francia e negli Stati Uniti. Un’amministrazione moderna deve essere informatizzata, trasparente e fortemente finalizzata. Non si tratta di meno, ma di meglio. Il secondo è che lo Stato del benessere sia trasformato in una società del benessere (la definizione è di Gunnar Myrdal), nella quale una grande parte dei bisogni sociali sia assicurata non dalla burocrazia, ma dall’autogoverno dei cittadini organizzati in associazioni autonome.
Perché questo equilibrio sia ristabilito in queste nuove forme, il partito democratico non dovrebbe tradire il progetto democratico dell’Ottantanove, costruito sui tre fiammeggianti messaggi (libertà, eguaglianza, fratellanza) ma declinati in una tonalità ben temperata (responsabilità, merito, solidarietà) evitando che si rovescino, come è avvenuto, nel loro contrario.
Quanto al mercato, resto a quello che mi sembra uno slogan persuasivo: economia di mercato sì, società di mercato, no.
E a proposito di mercato, voglio chiudere queste note con due citazioni di due grandi uomini della Destra, insospettabili di simpatie per la Sinistra.
La prima, di un liberale autentico, Luigi Einaudi: «Il meccanismo del mercato è un impassibile strumento economico, il quale ignora la giustizia, la morale, la carità, tutti i valori umani: sul mercato si soddisfano domande, non bisogni».
La seconda è di un altro grande economista reazionario, Joseph Schumpeter: «Questo sistema di idee sviluppato nel diciottesimo secolo (parla dell’utilitarismo) non riconosce altro principio normativo dell’interesse individuale...Il fatto essenziale è questo: che sia una causa o un effetto, questa filosofia esprime fin troppo bene lo spirito di irresponsabilità sociale che caratterizzava la passione e lo stato secolare, o meglio secolarizzato, del diciannovesimo secolo. Nel mezzo di questa confusione morale il successo economico serve solo a rendere più grave la situazione sociale e politica che è la naturale conseguenza di un secolo di liberalismo economico».
L’America fatta in casa
di Gabriele Polo (il manifesto, 28.06.2007)
La «casa per l’Italia nuova» ieri proposta da Walter Veltroni trova i suoi natali in un «casa vuota»: il Lingotto di Torino, già luogo del conflitto di classe e dell’identità operaia, ora centro commercial-culturale che diffonde pillole di sapere in forma di mercato. La scelta del luogo non è stata casuale: non tanto il ritorno nella sede del congresso diessino dell’I care veltroniano, ma soprattutto il contrappasso tra due mondi, dal ’900 delle grandi contrapposizioni che nutrivano la politica e cambiavano - nel bene o nel male - il mondo, al nuovo secolo dell’amministrazione più o meno saggia, più o meno onesta, dell’esistente; dal protagonsimo delle aggregazioni di massa al governo di leadership sempre più personalizzate.
Il tono è stato in sintonia con il luogo: non poteva ispirare sogni, semmai il pragmatismo di un sindaco che si è già fatto premier, incoronato dal collasso della rappresentanza che trasforma la democrazia in urgente decisionismo. Tono un po’ inedito per chi banalizza il sindaco di Roma nell’etichetta «buonista», del tutto coerente con l’esperienza amministrativa di un politico capace di contrattare con i potenti e tenere a bada gli scontenti. Cercando di non scontrarsi con alcuno, se non - chiaramente - con i peggiori pantani del berlusconismo, indicando quattro priorità - ambiente, sicurezza, patto tra generazioni, più il superamento della «politica dei veleni» - profondamente percepite dal senso comune e perciò popolari, ma sufficientemente aperte da poter tenere assieme, ad esempio, le merci da far viaggiare velocemente su Tav con la necessità di cambiare i consumi energetici; o abbastanza generiche da cancellare i conflitti del lavoro per invitare a un nuovo patto tra generazioni come soluzione alla devastante precarietà odierna.
Walter Veltroni è sicuramente l’uomo giusto per un’operazione del genere, per affrontare alcune emergenze (sociali e politiche) senza trasformarle in conflitto generalizzato e affidando il tutto alle capacità di mediazione del leader. La traduzione italiana del modello americano (quello kennedyano, non certo quello bushista), potrà avere un futuro se saprà sfuggire dai tanti agguati che gli apparati e le brurocrazie dei partiti gli tenderanno. Se l’attuale governo - da cui Veltroni non può prescindere - non devasterà con la sua litigiosità il futuro di un partito ideato solo per essere di governo. In quel caso sarà un elemento di chiarificazione del quadro politico e diventerà centrale (in senso proprio) per ogni tipo di mediazione, istituzionale e sociale. E potrà reggere ecumenicamente almeno fino a quando, alla sua sinistra, i nuovi conflitti di classe sapranno darsi una prospettiva generale, anche in versione di sponda politica. Cosa che stenta a vedere la luce. Ma questa non è certo responsabilità di Walter Veltroni.
28/6/2007
Walter di governo
di RICCARDO BARENGHI *
Non è stato un discorso da segretario, o più probabilmente da presidente di un partito che nasce. È stato un discorso da premier. Ma non di un premier che (forse) verrà tra qualche anno, di un premier di oggi o di domani, comunque del presente. Questa è l’impressione che si ricava dal lungo, anche troppo lungo, intervento che ieri pomeriggio Walter Veltroni ha pronunciato nel Lingotto di Torino.
Certo, il Partito democratico di cui lui sarà il leader non è mancato, anzi il sindaco di Roma ha spiegato con dovizia di particolari che genere di forza politica dovrà essere, nuova, aperta alla società civile, che vada oltre le rispettive storie e ideologie dei fondatori. Ma il cuore del discorso è stato il governo, anzi meglio: il programma del governo. E non quello che farà lui se e quando riuscirà a vincere le elezioni, bensì quello attuale, quello guidato da Romano Prodi (cui ovviamente Veltroni ha riservato tutti gli onori possibili, e implicitamente anche l’onore delle armi).
Stavolta Walter è stato meno Walter del solito, seppur una qualche scivolata retorica non sia mancata. Concreto, spesso addirittura pragmatico, si è rivolto a tutti quelli che sono, sono stati, o potrebbero essere i suoi elettori. Anzi, i cittadini italiani, di sinistra, di centro, di destra, senza distinzioni ideologiche. È andato dritto ai problemi che sono sul tappeto della società e della politica, ha evitato giri di parole o furberie post democristiane, ha evitato insomma di non schierarsi per tenere insieme tutto e il contrario di tutto. E ha dato le sue risposte.
Per esempio sulle tasse, che vanno diminuite senza aspettare che tutti le paghino (e questa non è stata finora la linea di Prodi e Padoa-Schioppa). Per esempio sulle pensioni, che vanno riformate e l’età va allungata, proponendo un nuovo patto tra generazioni. E sul sindacato, richiamato ad assumersi una responsabilità nazionale (proprio mentre la trattativa rischia di saltare). Per esempio sulla sicurezza, «che non è né di destra né di sinistra, ma un bene del Paese». Sugli immigrati, che vanno accolti ma anche puniti quando sgarrano. Sulla precarietà, enorme problema dei giovani che va risolto al più presto. Sui Dico, che sono un diritto di chi si ama anche se non si sposa. Sulla Tav, che va fatta senza discussioni ulteriori. Sull’ambiente, che va difeso con i sì e non con i veti. Sulla legge elettorale, che se il Parlamento non la cambia allora ci penserà il referendum. E infine, ma forse soprattutto, sulla politica: che dev’essere riformata nel senso che deve poter decidere. Il governo e il suo premier soprattutto, ancor più del Parlamento. Il quale va a sua volta riformato e ridotto nel numero di membri, snellito nelle sue procedure farraginose e burocratiche. Insomma una politica rapida, agile e decisionista (a qualcuno ha ricordato Craxi).
Semplificando, si può dire che ha messo in campo qualche idea di sinistra, qualcuna in più di destra e molte di centro. Un mix perfetto per quello che vuole essere, e che lui vuole che sia, il «suo» Partito democratico. Certo non ha fatto contenti gli alleati della Cosa rossa, che formalmente apprezzano ma sotto sotto sono preoccupati dell’esordio dell’«uomo nuovo». Il quale però ha scelto un profilo diverso dal politico normale, quello che si preoccupa innanzitutto di non scontentare nessuna delle forze politiche che lo tengono in piedi. Ci sarà modo e tempo per mediare e ricucire, il personaggio conosce il mestiere. Stavolta lui ha voluto parlare più che altro al Paese, e in particolare a quel Nord dove ha scelto di esordire. Proprio perché sa che se non ricomincia da lì, se non prova a recuperare il terreno perduto in questa enorme e fondamentale zona dell’Italia non ci sarà alcuna possibilità per risalire la china e ribaltare i rapporti di forza che oggi vedono l’Unione molto al di sotto del centrodestra (al di là degli ultimi sondaggi che Veltroni ha citato, ma che appaiono piuttosto miracolistici).
Dunque, leader nuovo, forte e combattivo. Che pensa di sapere quel che serve al Paese e come metterlo in pratica. Peccato solo che abbia un problema non di poco conto, e cioè che per attuare un programma di governo come quello che lui ha illustrato bisogna esserci al governo, possibilmente come presidente del Consiglio. Ma oggi quel posto è occupato da Prodi...
* La Stampa, 28.06.2007
Veltroni Day al Lingotto: «Paese stanco, voltiamo pagina»
«Patto generazionale anti-precarietà» *
È il suo discorso più politico, il manifesto della politica contro l’antipolitica, l’iniezione di entusiasmo tanto attesa - tanto che c’è quasi un accapigliarsi fuori dalla sala gialla del Lingotto -, un discorso il cui orizzonte non è solo il Pd, ma che a partire dalla lezione francese, più volte citata direttamente o indirettamente, proietta il Pd verso «un’ambizione culturale maggioritaria». Walter Veltroni parla a braccio, senza sembrare un politico di razza. Comincia dalla lotta al precariato - «perché la vita non può essere part time» - attraverso un patto tra generazione, e finisce promettendo l’abolizione delle leggi ad personam ma anche la fine della contrapposizione frontale tra i poli, rivendicando la laicità dello Stato e «i diritti delle persone che si amano» senza sbugiardare la costituzionalità del matrimonio.
Inizia: «Il Partito democratico è la grande forza riformista che l’Italia non ha mai avuto». E finisce con Torino come simbolo dell’unità nazionale e della trasformazione, con un saluto a Chiamparino e a Fassino.
Veltroni evidenzia che «il Pd nasce dalla confluenza di grandi storie politiche». Ma che il cammino fatto fin qui «non è ancora concluso perché il Partito democratico deve essere un partito nuovo dove uno deve essere uguale all’altro e per questo abbiamo voluto il principio “una testa un voto”». Perchè si deve guardare al futuro senza nostalgie. Lasciandosi alle spalle i veleni, «di cui il Paese è stanco», e il meccanismo dei veti.
Il Partito democratico sarà «il partito del nuovo millennio e della libertà, che sfiderà i conservatorismi di destra e di sinistra», comincia Veltroni. E chiarisce subito: «Il primo compito del partito democratico è il pieno e coerente deciso sostengo all’azione del governo Prodi».
Veltroni individua nel principio di «democrazia» una delle novità del Partito democratico. «Sono convinto - afferma - che il 14 ottobre sarà una giornata importante per la democrazia italiana». Ma si augura che solo se ci saranno piattaforme diverse, ci siano candidature diverse.
Poi Veltroni passa in rassegna quella che sarà la sua agenda se diverrà segretario del Pd, un’agenda ricca che riguarda la parte centrale e più contenutistica del suo discorso.
Precariato. «La lotta alla precarietà è la grande frontiera del Partito democratico», dice il sindaco. Per Veltroni «è soprattutto la precarietà dei giovani e delle ragazze ciò che dobbiamo combattere», perché «in un momento fantastico della loro vita gli viene chiesto di aspettare: un mutuo, la possibilità di lavorare, di fare una famiglia. La vita non può essere saltuaria, non può essere part-time».
Patto generazionale.L’innalzamento dell’età anagrafica «non è una disgrazia» e il futuro partito democratico lavorerà per «un nuovo e solidale patto generazionale», che «modificherà profondamente» le politiche e gli strumenti previdenziali.
Crescità dell’economia. Altro punto è l’impegno per la crescita dell’Italia. «Dobbiamo combattere la precarietà dei giovani» e far crescere il paese perché «l’Italia ha bisogno di crescita e le cifre stanno confortando gli sforzi fatti dal governo Prodi che, nonostante una eredità pesante, in un anno è riuscito a portare avanti un grande risanamento».
Pensioni. «Il Partito democratico che vorrei deve lavorare al buon esito del confronto in corso sull’ammorbidimento dello scalone», dice il sindaco di Roma affrontando il tema della riforma delle pensioni. Il candidato a segretario del Partito democratico richiama il discorso del governatore di Bankitalia, Mario Draghi, per sottolineare come in un Paese in cui la vita si allunga, la politica deve adeguare i suoi strumenti per garantire a tutti «solidarietà e uguaglianza». «Il Partito democratico che vorrei è un partito che lavora per un ammorbidimento dello scalone e al tempo stesso orienti gran parte degli sforzi per colmare le disuguaglianze dovute ad un mancato adeguamento dello stato sociale».
Lotta all’evasione fiscale. «Voglio un Partito Democratico che in tema di lotta all’evasione fiscale bandisca ogni pregiudizio classista», dice Veltroni. «Un Pd - ha aggiunto - che consideri egualmente esecrabile l’imprenditore che evade, l’impiegato nella pubblica amministrazione che non fa il suo dovere, chi utilizza lavoro nero: sono tutti egualmente esecrabili». «La pressione fiscale complessiva per il Partito democratico deve diminuire o no?». Veltroni se lo domanda perché quello che è realistico fare, su questo tema, è «una consistente riduzione della pressione fiscale nei prossimi tre anni» grazie al lavoro di risanamento fatto fin qui dal governo Prodi. Per Veltroni «uno Stato che abbassa gradualmente le aliquote» aumenta il «livello di fedeltà nelle dichiarazioni dei redditi» dei cittadini. Un rapporto di fiducia tra Stato e cittadini, quindi, che può portare a far crescere anche in Italia «un clima di condanna sociale nei confronti di chi evade». Ci vorranno tre anni almeno per ridurre la pressione fiscale senza intaccare il risanamento.
Sicurezza e immigrazione. Non è una bandiera della destra. Ma mette i puntini a posto. I criminali sono criminali, indipendentemente dalla nazionalità e ci vuole severità nella pena. Ma la convivenza civile si basa anche sanche sul multiculturalismo e su un’accoglienza vera verso le persone che vengono a lavorare nel nostro paese. «L’Occidente finora è stato troppo egoista e avido con loro».
Riforma della politica. L’obiettivo, più volte citato, è quello della «coesione», nazionale e sociale. Prerequisito della modernizzazione. Se si vuole battere la frammentazione, il corporativismo, l’egoismo esasperato, la paura nei giovani, la paralisi delle istituzioni e la conseguente corruzione, se si vuole tutto questo per Veltroni bisogna abbandonare le incrostazioni «barrocche». La politica deve non parlare solo a sè stessa, attraverso i talk show o i titoli sui giornali, deve essere «trasparente e netta», deve essere «improntata alla sobrietà e al rispetto dell’avversario». Non si deve smontare ogni volta tutto quello che è stato fatto dal governo precedente. Bene dunque la legge sul risparmio, ma da buttare restano le leggi ad personam. La filiera delle decisioni deve essere meno tortuosa e lunga. Propone dunque: meno parlamentari, no al bicameralismo imperfetto, «un governo che possa governare e un Parlamento che controlli ma che non pretenda di avere il ruolo di governo assembleare». Non si addentra invece nel come di una nuova legge elettorale pur giudicandola «urgente e necessaria».
* l’Unità, Pubblicato il: 27.06.07, Modificato il: 27.06.07 alle ore 19.20
VELTRONI A BARBIANA: IL MIO VIAGGIO COMINCIA QUI
dell’inviata Chiara Carenini *
BARBIANA (FIRENZE) - Per Dario Franceschini é la prima volta, per Walter Veltroni no: per il sindaco di Roma, la cui storia "é cominciata qui, con la lettura di Lettera ad una professoressa", don Milani e la sua scuola sono stati "l’inizio di un cammino". Barbiana, 23 giugno, un paese formato da un’idea e da una chiesa, è, con la visita privata di Veltroni e Franceschini, la metafora di una politica che nasce. Non si parli di ticket, nemmeno di leadership di Partito democratico.
Di questo Veltroni parlerà a Torino mercoledì (al PalaFuksas, all’ex Moi o in piazza San Carlo, è tutto ancora da decidere) dopo il viaggio in Romania. Oggi si parla di don Milani, per una visita congiunta di due protagonisti della politica che hanno, dice Veltroni, "molte cose in comune, soprattutto queste radici e queste origini". E’ protagonista di questa giornata il prete che ha rivoluzionato la società del dopoguerra, la scuola e, in un certo modo, anche la Chiesa.
La sua scuola di Barbiana "é un luogo gigantesco - osserva Veltroni - da cui sono partite cose gigantesche" dove tutto è cambiato: "Per quei ragazzi è cambiata la vita, il modo di pensare il relazione agli altri, il modo di fare scuola". Lo chiama "profeta" Veltroni: grazie a don Milani "e al lavoro di questi ragazzi, molto è cambiato". Parla Veltroni, ma mai di politica: parla di don Milani e delle due frasi che "da anni mi ronzano nella testa: il riconoscimento che il tuo problema è il mio e che la scuola deve servire a includere e non ad escludere", come "la società".
Barbiana, incastonata sotto il sole tra le colline del Mugello, è l’esempio, la via da seguire: lunga, forse, e difficile come la strada sterrata che porta alla chiesa dove Franceschini e Veltroni ascoltano attenti il racconto del presidente della Fondazione don Milani, Michele Gesualdi, ex allievo del prete di Barbiana. Una via necessaria, come necessaria è la formazione, "il grande problema del nostro tempo". Veltroni e Franceschini, maniche di camicia e "uguale sentire" in questi luoghi. Insieme scendono il prato per salutare il luogo dove riposa don Milani, insieme entrano nella cappella e nella scuola, dove ancora si trova l’astrolabio costruito dal prete, la sua rappresentazione della società, le mappe geografiche disegnate a mano libera. Insieme perché "io e Dario - spiega Veltroni - abbiamo molte cose in comune da molto tempo".
Una di queste è Barbiana, la sua filosofia, la sua semplicità, la sua politica dirompente. E’ talmente pregnante la presenza di quel prete che Franceschini si ritrova a dire: "Penso che don Milani da noi non voglia solo il suo ricordo, ma ci chieda di rimboccarci le maniche contro le ingiustizie e le ineguaglianze". Barbiana, 23 giugno: in questo luogo nato attorno a una chiesa e a un’idea, Veltroni e Franceschini sono d’accordo ancora una volta: "Servono idee per influenzare la società e la politica; servono la passione, il disinteresse - dicono - la voglia di stare con gli altri e di essere per gli altri".
* ANSA » 2007-06-23 19:24
Partito e popolo
di Furio Colombo *
Il partito a cui si riferisce il titolo di questo articolo è il Partito democratico. Come tutti i lavori in corso crea una immensità di inconvenienti per coloro che eventualmente beneficeranno della nuova costruzione: non vedono, non sanno, non partecipano. E certo non li rappresentano alcune decine di persone per bene detti i «garanti» per il solo fatto di essere quadri di partito oppure nominati oppure cooptati senza che esistano indicazioni per la nomina e la cooptazione o istruzioni per l’uso (poteri e doveri). Le porte per ora sono chiuse, i percorsi sono al di là delle impalcature, le regole un atto di fede.
«Popolo» è una parola grossa (ricordate quando Alberto Asor Rosa poteva usare questa parola nel titolo del suo libro Scrittori e popolo per intendere, i creatori e i frequentatori di idee?). Bene, io non mi illudo che un’immensa folla prema ai cancelli chiusi del Partito democratico che non è pronto. Ma certo c’è un’attesa, sempre meno tollerante e paziente, che le ultime elezioni non vinte hanno indicato in due diverse tabelle: quelli che ancora hanno votato centrosinistra, e quelli che, per il momento, non hanno votato. Ecco, questo è il popolo di cui sto parlando, gli uni e gli altri, coloro che tengono ancora stretto il filo della fiducia. E coloro, forse meno indifferenti e più appassionati, che hanno battuto il tremendo colpo di gong delle schede bianche e del non voto, nel disperato intento di farsi sentire di là dalle impalcature, dentro il cantiere da cui sono esclusi i «non addetti ai lavori».
Dunque c’è un partito in corso di costruzione (evento arduo e difficile nella storia delle democrazie, con una tradizione simile a quella dei nuovi ristoranti: ne nascono cento, se ne afferma uno). E c’è, presumibilmente, un popolo in attesa. È fatto in parte di gente che sta già sgombrando le sedi, anche psicologiche, interiori, mentali, dei partiti che abitava prima.
E in parte da persone che - pur non essendo militanti di un partito - sono rimaste ostinatamente legate ai grandi valori democratici portati in Italia dall’antifascismo e dalla Resistenza (legalità, scuola pubblica, legge uguale per tutti, lotta alla malavita in tutte le sue incarnazioni, diritti umani, diritti civili) che vorrebbero ritrovare, ma non sono sicuri dove.
C’è anche la separazione nitida e rispettosa tra Chiesa e Stato, in questo elenco di valori dei cittadini che non sono in casa né in piazza, ma non sanno ancora con sicurezza dove dirigersi. C’è anche la separazione tra giornalisti e notizie da una parte e potere dall’altra. Sanno con sicurezza dove non c’è, e anzi viene negata e irrisa, questa separazione. È la casa del conflitto di interessi. Ma molti stanno ancora cercando un nuovo indirizzo.
E c’è la separazione fra i legittimi interessi dell’impresa e il legittimo diritto di difendere il lavoro. In una economia brada il lavoro è affidato all’esito di un continuo scontro e vinca chi può fare più profitto o più danni. In una buona democrazia, e in un buon partito che voglia fare da sostegno e da trave a quella democrazia, ti dedichi alla difesa di chi lavora non perché vuoi la lotta di classe ma, al contrario, perché sai di essere in un mondo moderno ed efficiente in cui si lavora insieme alla pari, non gettando il lavoro tra le scorie di cui la cosiddetta modernità vuole liberarsi. E poi il mercato chiede confronto fra parti altrettanto forti. Se no che mercato è?
Sarà vero che ognuno deve vedersela col nuovo mondo da solo e da bravo, secondo il merito. Ma resta il fatto che all’adunata dei giovani imprenditori, che si celebra come sempre a Santa Margherita Ligure, tutti i partecipanti - a cominciare da Michela Vittoria Brambilla - sono figli e nipoti di imprenditori. E nelle loro fabbriche tutti gli operai (se non sono immigrati) sono figli di operai.
Ovvio che questa è una questione che deve stare molto a cuore a un Partito democratico agile e nuovo. Di partiti in cui tutte le teste televisive parlanti sono pronte a cori di esultanza quando parlano Draghi e Montezemolo (sempre molto apprezzata l’ammonizione al taglio delle pensioni, sempre un po’ di stizza per quei perdigiorno conservatori annidati in fabbrica che vorrebbero, dopo anni, smuovere la barriera perenne dei mille euro al mese e quella "moderna" del contratto a progetto) ce ne è una quantità imbarazzante.
Il problema non è affatto uno scivolare, a seconda degli umori, o un po’ più a destra o un po’ più a sinistra. Però è inevitabile che un Partito democratico moderno si ispiri per forza a grandi voci nella cultura del mondo industriale avanzato, come Amartya Sen che ci ha narrato il cambiamento del poverissimo Stato indiano del Kerala attraverso il cambiamento della condizione delle donne, che sono passate, in una generazione, da nove a due figli (e difficilmente sarebbero state festeggiate all’italianissimo "Family day") che sono andate a scuola, che sono diventate dirigenti e amministratrici anche senza quota rosa. Come Joseph Stieglitz che, da grande economista, non andrebbe mai in giro a dire che la ripresa di un Paese «è merito esclusivo delle imprese». Come John Nash, che dalla sua cattedra di matematico a Princeton ha calcolato «il punto di equilibrio» fra investimento di capitali e investimento di lavoro (e la relativa equa retribuzione) e l’ha definito «l’equazione del socialismo». Come Paul Krugman che, dalla stessa Università di Princeton, calcola e pubblica ogni settimana sul New York Times «lo spreco americano di vite, destini, talenti, lavoro gettati nel buco nero di un precariato senza fine, mentre il punto più basso e quello più alto dei compensi di chi lavora sopra e sotto l’impresa sono mille volte più lontani che dieci anni fa». "Mille volte" non è un modo di dire ma il risultato di un calcolo. Nella visione di Krugman, il mondo dei manager diventa un club di cooptati lungo percorsi di favore, e quello del lavoro diventa polvere. Ho citato premi Nobel per l’economia per restare non fra i sogni ma nei fatti, anzi tra i numeri. Una solida ispirazione, no?
Mi chiederete perché mi impiccio dei lavori in corso per un nuovo partito che non mi ha chiesto niente né dato alcuna notizia, a parte quelle che tutti apprendiamo in televisione (come la curiosa proposta secondo cui il presidente del nuovo partito nomina il segretario del nuovo partito, motu proprio.
Risponderò che nel mondo libero tutti si impicciano, che la speranza è l’ultima a morire e che chi vivrà vedrà. Tre luoghi comuni utili e pertinenti in questo caso. Visto che il partito non c’è ancora, perché non sperare in un mondo più grande, più libero, più creativo dei chiusi e litigiosi vertici notturni di cui siamo spettatori indiretti e lontani, simpatizzanti per sentito dire?
Sul "chiuso" che è tipico dei cantieri, ricorderò una piccola idea geniale di Donald Trump, il grande costruttore americano sospetto di molte scorciatoie legali nel suo Paese, ma non privo di fantasia. Notando che i suoi cantieri incombevano su New York come astronavi aliene e impenetrabili, ha avuto la trovata di inventare i "cantieri aperti". Così adesso tutti possono vedere i lavori da grandi aperture nei recinti di legno o metallo degli scavi. L’ingombro resta ma diminuisce il fastidio perché - volendo - tutti possono seguire ciò che avviene e constatare, di giorno in giorno, il cambiamento nel cantiere.
Nella vita pubblica tutto ciò si chiama comunicazione. Forse spiriti liberi ed esperti di comunicazione come Gad Lerner potrebbero suggerire di rubare un’idea a Radio Radicale. Meglio, di chiedere a Radio Radicale di trasmettere, quando si può in diretta, e se no in differita, ogni seduta, confronto, discussione, litigio del costituendo Partito democratico. Di colpo l’atmosfera si farebbe diversa, la partecipazione meno impossibile, la fiducia più alta. O almeno un’attesa meno depressa, sottomessa e remota. Non è poco.
Vorrei raccomandare caldamente questa piccola trovata del cantiere aperto, attraverso l’espediente della trasmissione. Occorre ricordare che sono in corso due sgomberi, già di per se disorientanti, ognuno nel territorio dell’altro ma con un pesante bagaglio di cose proprie, cose di prima e progetti di dopo, che non sarà facile ricollocare. Ma mentre avvengono i due sgomberi e gli scambi di territorio, eventi di per sè disorientanti (specie se i leader parlano solo tra loro e spesso in codice) arriva - o potrebbe arrivare - il corteo di coloro che prima non c’erano e che ora esitano sulla soglia del voto, i cittadini senza gerarchie di partito detti, con un po’ di fastidio, "la società civile". Ma se ne potrebbero andare di brutto (e andare per sempre) se trovano le porte sbarrate e sono destinati a ricevere notizie solo dai "panini" dei telegiornali o dagli umilianti talk show che riproducono per sempre un’Italia immobile nel passato, come un brutto museo delle cere.
Intanto incombono, promettenti o minacciosi, nuovi eventi che chiedono nuova politica.
Propongo un parziale elenco di materie incombenti, che preoccupano tanti davanti alle porte chiuse perché il partito non è pronto ma le vecchie case sono state smontate ed è cominciata una lunga attesa. Coloro che aspettano sono carichi di oggetti smarriti e bagagli che ancora non sanno se e dove depositare. Per esempio.
Il costo della politica. Mentre scrivo mi passano rasenti sopra la testa nel centro di Roma, gli aerei militari che partecipano alla parata del 2 giugno, la parata dei settemila "soldati del futuro" con cui gli italiani sono invitati a celebrare la festa della Repubblica. E di colpo mi viene in mente una immensa parte sommersa dei costi della politica. Sono i costi delle grandiose spese di forma e di rappresentanza di questo Paese antico e barocco che si svena per questioni di forma. Ricordate il summit, realizzato con i fondi della Protezione civile, nel set teatrale di Pratica di Mare che, credo, data la stravaganza e l’incredibile eccesso di spesa, nessuno dei partecipanti ha dimenticato?
Giusto andare a vedere con comprensibile astio il costo di un cappuccino alla bouvette di Montecitorio. Ma intanto un mare di auto blu circola su tutte le strade e a tutti i livelli (i tre poteri e poi lo Stato-istituzione, e poi lo Stato-politica, e poi lo Stato-burocrazia con tutte le sue agenzie e poi Regione, Provincia, Comuni moltiplicato per tutti i suoi ambiti territoriali e poi tutte le authorities). E una flotta di aerei di Stato attraversa i cieli. E, alle scadenze dovute, le risorse non grandi della Difesa italiana vengono bruciate per fare bella figura, con costi difficili da immaginare, che infatti le corrispondenti autorità di altri Paesi europei si guardano bene dall’organizzare, tenendosi fuori dal costo dello spettacolo.
È solo un modo per dire che tutto ciò che furiosamente e sarcasticamente si elenca come dissipazione pubblica, quando arriva la brutta stagione per la parte visibile della politica, non è che una scheggia di un immenso oggetto sconosciuto e, in parte, impenetrabile.
Scuola, nella confusione del momento, partito di prima, partito di dopo, laici, credenti e valori condivisi, qualcuno si è accorto che i versamenti alla scuola privata (scuole religiose, non asili) sono improvvisamente aumentati (dunque a danno della scuola pubblica); e che, per la prima volta, con una grande violazione costituzionale, il voto di religione farà media con greco, latino, storia, geografia e matematica negli scrutini di fine anno del 2007? Forse i due partiti che arrivano a incontrarsi provenendo dal polo laico e da quello religioso, si scambiano doni, in occasione dello storico incontro. Ma "scambiare" non è la parola giusta. Noi vediamo i doni fervidamente offerti alla Chiesa. Ma lo "scambio" avviene in un modo curioso. Coloro che dicono di rappresentare la Chiesa, ora che ci mettiamo insieme, chiedono di più, molto di più di quando erano "partito cristiano". Il grido sessantottino immortalato dal libro di Balestrini "Vogliamo tutto" è diventato il motto del nuovo militantismo religioso che si insedia nel centrosinistra, fra inchini, saluti e cenni severi che ti dicono «bisogna tener conto della sensibilità cattolica». Ho capito, ma delle sensibilità estranee alle preferenze del Papa non dobbiamo tenere alcun conto?
Infatti dei Dico non si sente più parlare. Il "Family day" ha emesso la sua fatwa e non si deve irritare la sensibilità religiosa ai valori della famiglia che noi, non credenti, non possiamo neppure immaginare.
Quanto al testamento biologico, che vuol dire decidere in anticipo sulle cure che vorrai o non vorrai ricevere quando non sei più in condizione di decidere da solo (una legge che esiste in tutto il mondo libero), si tratta di un progetto preparato con meticolosità e competenza dalla Commissione Sanità del Senato presieduta da Ignazio Marino, medico noto e scrupoloso legislatore. Nella sua commissione sono stati sentiti gli esperti del mondo, scienza, legge, religione. Non importa. La "sensibilità" è scontenta.
Riusciremo a portare questo oggetto, simbolo della civiltà contemporanea, di là dalle porte chiuse del partito in costruzione quando quelle porte saranno aperte e chi vorrà potrà entrare? Che segno sarà se oggetti simboli di un Paese nuovo saranno lasciati fuori, per esempio abbandonandoli nelle insondabili dilazioni delle procedure parlamentari?
Un incubo è la legge Mastella sulle intercettazioni giudiziarie.
In essa ogni colpa, responsabilità e pena (pesantissima) sono esclusivamente a carico dei giornalisti. Con quella legge un governo e una maggioranza di centrosinistra metterebbero una pietra tombale sul diritto-dovere di informare e perfino sulla possibilità materiale di farlo. È chiaro, è ovvio che quella legge non si può votare. Ma la domanda è: che messaggio manda il nuovo partito lasciando sulla porta del suo nuovo insediamento la testa tagliata della libera stampa?
Infine vorrei scuotere i fondatori nominati o cooptati del nuovo partito da una curiosa indifferenza che sembra averli colti. La difesa e la liberazione di Ramatullah Hanefi, dovrebbe essere la causa del nuovo partito.
E in questi giorni la bandiera dovrebbe essere la moratoria mondiale contro la pena di morte da votare subito alle Nazioni Unite e per cui Marco Pannella rischia di nuovo con lo sciopero della sete iniziato ormai da sei giorni. È vero che il governo italiano ha tenuto fede, finora, al suo impegno per ottenere la moratoria. Ma una bandiera contro la pena di morte è un bel simbolo per un nuovo partito. Meglio che discutere di nomine, autonomie e cooptazioni. Altrimenti si impone e domina il grigio del vecchio mondo partitico. Ad esso tanti cittadini italiani hanno già voltato le spalle.
* l’Unità, Pubblicato il: 03.06.07, Modificato il: 03.06.07 alle ore 12.27
Il partito guida
di Furio Colombo *
Sarà il partito democratico americano il modello di cui va in cerca il nascente partito democratico italiano nel futuro invocato a Firenze e presentato a Cinecittà? Se dovessimo accettare il principio, spesso proposto dagli esperti, secondo cui i partiti sono il ritratto e lo specchio del sistema elettorale, dovremmo opporre un drammatico e risoluto no.
E infatti il peggior sistema elettorale ora disponibile in Italia (a cura della stessa gente e dello stesso governo che ha dato al Paese le leggi vergogna e le leggi ad personam di cui ha parlato tutta la stampa internazionale) ha dato come frutto il peggior Parlamento: nessun rapporto con i cittadini, candidature che sono nomine, e una premeditata mancanza di governabilità di una delle Camere.
Non so perché alcuni al congresso Ds hanno voluto dire a Silvio Berlusconi che “tutto è perdonato”, con quel che è costato a tanti italiani cominciare appena a risanare una parte del disastro finanziario causato dal suo governo. Resta il fatto che, tra i suoi danni - alcuni così gravi che governo e maggioranza non vi hanno potuto finora mettere mano, nonostante l’attesa diffidente e ansiosa dei cittadini - c’è ancora l’orrenda legge elettorale. Se resta, o se viene solo un poco corretta dal referendum volonteroso ma dagli effetti minimi, o se continuano ad accatastarsi, come in un museo in disordine, pezzi di altri sistemi elettorali lontani e sconnessi, per alimentare discussioni senza fine sul modello di Cogne, allora il sogno di due grandi partiti, destinati a contrapporsi e a reclamare la guida del Paese, pur in presenza (o con l’alleanza) di forze minori, rispettabili e rispettate, è destinato a restare sogno.
Berlusconi, che con i sogni ci sa fare e che di frantumazione politica di una maggioranza ha fra le mani una bella esperienza, ha subito detto, con uno di quei bei sorrisi che scaldano il cuore, che al Partito democratico si iscriverebbe anche lui (al 95 per cento, ha detto; confidiamo in quel cinque per cento che non gli va bene). E che - in ogni caso - sta lavorando a un suo grande partito della destra. Auguri a Fini. Ma occupiamoci intanto di questo paesaggio. Un po’ vero e un po’ finto, un po’ speranza, un po’ verità per vedere che cosa ci aspetta.
Parlo del “migliore dei casi” seguendo il percorso della evocazione-promessa di un futuro meno minaccioso e tormentato dal presente italiano. Come se la legge elettorale, con il civile sistema maggioritario, le primarie e tutto fossero già il presente, come se l’augurio di Prodi ai due congressi e le promesse di Fassino da Firenze e di Rutelli dal set di Fellini, si fossero avverate mentre scriviamo.
* * *
Parlo per un momento di tutti e due i partiti americani, repubblicano e democratico, sia perché Berlusconi, nel suo momento concitato di ridente apparizione in mezzo ai Ds (dai quali aveva, in un recente passato, annunciato di aspettarsi “miseria, dolore e morte”) ha detto che “il grande partito” lo fa anche lui; sia perché c’è bisogno, come molte altre democrazie in crisi organizzativa in Europa, di sapere come ritrovano casa e che cosa scrivono di sé, sulla porta, le destre e le sinistre del mondo. E sia perché è importante sapere se vorranno trarre ispirazione dai modelli americani.
Cominciamo dalla destra. Sono ovviamente e notoriamente tendenzioso nel giudizio che sto per proporre, ma ritengo che il percorso peggiore e quasi impraticabile riguardi proprio la destra. Di qua, sul versante di Berlusconi, si tratta di un aggregato d’affari antico, paternalistico, che fa capo a un mega padrone che si affida a eccellenti modelli di comunicazione e nient’altro. Infatti non ammette e non tollera neppure la libera concorrenza fra barbieri e non ha alcuna idea delle regole che guidano, nel bene e nel male il capitalismo, se il capitalismo non sono affari privati del gruppo Berlusconi o viaggi d’affari a San Pietroburgo con Putin. E infatti la pretesa modernità della destra italiana temo molto che assomigli a un’Italia vecchia, tradizionale, abituata a distinguere fra la facciata lustra e il retro un po’ losco del palazzo sul quale è ragionevole e umano chiudere un occhio.
Di là dall’oceano, George W. Bush ha agganciato tutto il suo partito della destra tradizionale americana a quello che lui definisce “governo di guerra”.
Berlusconi conta sulla memoria corta e finge di non essere mai stato parte della tragica avventura in Iraq e di avervi lasciato trenta giovani soldati italiani morti senza un perché. Ma George W. Bush è ostinato, continua a dire di sé “sono un presidente di guerra”. E mentre la tragedia in Iraq - che non è un possente esercito contro un possente esercito ma la dissoluzione di un Paese - aumenta, lui aumenta i soldati, dunque i morti americani, i morti iracheni e lo strano destino del suo partito, che non riesce, con Bush, a districarsi dalla guerra come presente, la guerra come futuro e l’economia - che si presenta soprattutto con le imprese che fanno capo al vicepresidente Cheney - come economia di guerra. Assicuro i lettori che sto parafrasando economisti americani, da Paul Krugman al premio Nobel Joseph Stiglitz, senza aggiungere nulla di mio.
* * *
Per avere un’immagine del partito democratico, ovvero della sinistra americana oggi (immaginando che possa diventare un modello o almeno un riferimento per il Partito democratico italiano) prendiamo un evento esemplare appena accaduto.
Il giorno 18 aprile la Corte suprema degli Stati Uniti (che adesso è di destra perché quasi tutti i giudici a vita che ne fanno parte sono stati nominati da Reagan, da Bush padre o da Bush figlio) ha posto fine a una lunga vicenda giudiziaria, dichiarando illegale il cosiddetto “aborto tardivo” anche se necessario per salvare la vita di una donna. Come si vede la grande svolta del mondo in cui i conservatori tradizionalmente laici, del capitalismo e della ricchezza, diventano anche i custodi dei valori religiosi cari a masse di elettori che - altrimenti - non voterebbero a destra, continua e si espande.
I democratici? Come è noto essi sono la più vasta e diversificata aggregazione di culture, gruppi etnici, religioni, tradizionali e anche fasi diverse di immigrazione e generazioni di nuovi arrivati. li accomuna il legame fortissimo ai diritti civili dei cittadini, prima di tutto i diritti delle donne e dei diversi stili di vita di cui l’intero partito ha fatto bandiera. E infatti l’intera prima fila del Partito democratico, e tutti i suoi candidati presidenziali (dunque Hillary Clinton e Barak Obama) hanno denunciato e condannato la sentenza della Corte suprema. Ma non lo hanno fatto in quanto la Corte repubblicana ha fatto un favore al Partito repubblicano, così male assortito al momento, quanto a candidati alla presidenza. Hanno detto: «È un attacco alle libertà civili e un rovesciamento di 40 anni di giurisprudenza americana» (Hillary Clinton). «È una decisione che abolisce tutte le salvaguardie per la salute delle donne incinte» (Barak Obama). Come si vede, non hanno ceduto. Hanno detto no, senza neppure sognarsi di riaprire il dibattito.
S’intende che il Partito democratico non vuole uno scontro sull’aborto, come stanno disperatamente tentando di fare i repubblicani per cambiare il gioco dal terreno politico (sul quale stanno perdendo) a quello religioso.
Ma, vista la decisione non nobile di agitare l’immagine del piccolo feto sugli spalti della campagna elettorale, il Partito democratico reagisce compatto sapendo benissimo che lo scontro interno incrinerebbe subito il forte vantaggio elettorale che li divide dalla destra di Bush.
E qui forse vale la pena di tentare un identikit dei democratici americani che sembrano destinati ad essere il “partito-guida” (ma solo nel senso di partito modello) dei democratici italiani. O almeno, speriamo che lo siano.
Radici? Tutte le radici. Se i democratici ne dichiarassero una perderebbero le altre. Infatti in quel partito ci sono cattolici, protestanti di tante Chiese diverse, ebrei, islamici, fedeli di varie religioni asiatiche, non credenti.
Riformismo? Con Roosevelt i democratici hanno preferito dire “New deal”, i kennediani “nuova frontiera”, Bill Clinton “nuova protezione della salute”. Che vuol dire: avere un progetto economico che indica un traguardo più avanzato dello stato delle cose, uno spostarsi in avanti che, per i democratici, deve avere questa caratteristica: coinvolgere tutti. E anche: per quanto si lavori, in apparenza, su un tema solo (come la riforma sanitaria di Clinton, purtroppo fallita perché definita “comunista” e combattuta con immense risorse economiche, dalla destra) quel tema, se risolto, cambia tutto.
Avversari o nemici dell’altro partito? Gli opponenti politici, in una normale democrazia, non sono mai nemici. Ma la linea di demarcazione è netta e costante, arriva fino alle istituzioni. Il presidente deve dichiarare ogni volta che intende avere a sua disposizione le televisioni, se parla al Paese per ragioni istituzionali o da capo di partito. Varie volte le televisioni americane hanno rifiutato a Reagan, una volta a Bush padre, le reti unificate, dopo avere letto la scaletta del discorso preannunciato, con la pubblica dichiarazione: «Spiacenti ma si tratta di un discorso partitico e non presidenziale. Se crede, lo trasmettiamo a pagamento».
Avrebbero i Democratici americani invitato Bush alla loro “Convention” o i Repubblicani invitato Obama o la Clinton? Non è mai avvenuto nella Storia americana. Gli Usa sono un Paese fondato su notizie e segnali chiari e nessuno apprezza la confusione di luoghi e di ruoli. Ognuno compare sul suo palcoscenico.
Giustizia? Niente esenta un presidente degli Stati Uniti dal normale potere giudiziario, salvo che il giudice decida di astenersi fino alla fine del mandato. Bill Clinton è stato investigato varie volte da un “Grand Jury” (una sorta di organo investigativo composto di magistrati e giuria popolare) e ha testimoniato, giurato di dire la verità, rischiato l’incriminazione come qualunque cittadino.
Conflitto di interessi? Non è ammesso, non è accettato, non è tollerato e deve essere risolto prima e non dopo l’assunzione di una carica. Si immagina che se l’autorità interviene dopo che un presidente è insediato, nessuna autorità avrà forza sufficiente.
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Perché parlare di questi argomenti dal lato dei democratici come se questioni tipo la giustizia e il conflitto di interessi coinvolgessero una sola parte politica, quella repubblicana? Infatti non è così, normalmente. Ma da quando George W. Bush ha scelto di definirsi “presidente di guerra”, il suo partito ha smesso di garantire alcuni criteri sacri per tutti in nome dell’emergenza. Per esempio, il vice presidente Cheney si è preso, per la ricostruzione dell’Iraq, tutti gli appalti. Ora i democratici di Clinton e Obama puntano a ristabilire la normale legalità del Paese.
Che cosa farebbe il partito democratico americano se - come il nascente Pd italiano - dovesse decidere di aderire o no al Partito socialista europeo? Semplice. Al prossimo congresso ascolterebbero tutte le ragioni. Poi si vota. Poi si va tutti dove dice il voto. Passerà fino a noi questa semplice lezione di vita in comune, di tante anime e storie e radici diverse e libere? È importante saperlo, perché di qui, dal voto, passano anche le decisioni sul che fare tutti insieme di fronte alla grandi questioni morali. Sono tanti i cattolici fra i democratici americani, in certe aree sono la maggioranza. Ma non spaccano il partito ad ogni sentenza della loro Corte suprema o ad ogni prescrizione delle Chiese americane. Votano. E, di conseguenza, fanno, capiscono, si orientano e votano gli elettori.
Partito contenitore? Se il Partito democratico americano lo fosse, sarebbe una immensa burocrazia. Invece, salvo un piccolo ufficio a Washington e l’attivismo di deputati, senatori ed eletti locali (contee, municipi, città) tutto il lavoro politico è volontario. Un grande girotondo anima la vita pubblica americana (eccezionalmente anche le piazze) quando grandi scadenze si avvicinano. E persino le scuole, le case, gli appartamenti privati diventano luoghi di incontro e di dibattito. Se c’è una guida da seguire (o almeno a cui ispirarsi) è certo questa. Il Partito democratico è un vorace partito di contenuti, pronto a impossessarsi di ciò che tormenta, spaventa o sta a cuore ai cittadini. È un partito di sinistra perché raccoglie le indicazioni di orientamento e di percorso dal lato dei cittadini-elettori, non dalle prescrizioni del mercato. E, naturalmente, dal leader, che dura finché si fa capire e seguire.
furiocolombo@unita.it
*l’Unità, Pubblicato il: 22.04.07, Modificato il: 22.04.07 alle ore 9.22
Mussi: «Compagni, buona fortuna. Noi ci fermiamo qui»
di Wanda Marra *
Un grandissimo applauso accoglie Mussi, il più atteso. La platea ascolta attentissima le parole del leader della sinistra Ds, e lo applaude calorosamente ad ogni passaggio fondamentale. . «Cari compagni e care compagne. Giorni fa D’Alema ha detto spero che Mussi ci risparmi saluti drammatici. Dopo 40 anni dedicati a questo partito credo di avere il diritto di parola. Anzi il dovere di parlare prima di tutto a voi». «Un voto quasi unanime e un’astensione, dichiara, hanno deciso della nostra scelta», spiega. E racconta: «Il mio, il nostro dissenso data dal 2001, quando candidammo Giovanni Berlinguer a Pesaro alla guida del partito». Ricorda l’amicizia verso Fassino e gli altri militanti dei Ds, «un’amicizia che ancora vale». Ma ribadisce i suoi motivi di dissenso.
«Ora il nostro primo dovere è governare». Lo dice e lo ribadisce Fabio Mussi: «Penso che sia essenziale, qualunque cosa accada sul terreno più propriamente politico, garantire la tenuta della maggioranza di centrosinistra, la stabilità del Governo. Tra di noi deve esserci, comunque, questo patto di ferro». Ribadisce nel contempo la sua convinzione che il Partito Democratico non rafforzi il Governo. «In verità, complica il quadro, non lo semplifica».
Pone alcune questioni al centro del suo intervento. Parla di «questione morale», che «torna a dialogare in ogni campo della vita civile, economica e politica». E il suo inciso su Enrico Berlinguer provoca una vera ovazione nella platea: «Non esiste nuova buona politica che non abbia la questione morale come sua stella polare: forse conviene tenersi stretto questo pensiero di Enrico Berlinguer, piuttosto che giocare a metterlo e toglierlo dal Pantheon».
Fa affermazioni forti, appassionate: «La fine del socialismo è una cianfrusaglia ideologica» E ribadisce: «La lotta per affermare il principio di legalità e una legge sul conflitto di interessi sono urgenti».
Sono rimasto a «una grande sinistra in un grande Ulivo», dichiara Mussi, contestando l’assimilazione della svolta che si fa a Firenze con quella della Bolognina. «Non discuto la legittimità della proposta di Fassino, ma penso che si stia commettendo, sia pure a larga maggioranza, un errore di vasta portata, che si stia imboccando una strada che porta la sinistra non a rinnovarsi, come pure e’ radicalmente necessario, ma a perdersi».
È il rischio che paventa Mussi, nel suo intervento all’ ultimo congresso dei Ds. «Sinistra - attacca Mussi - non è un bagaglio che i dirigenti si portano dietro. Sono valori, programma fondamentale, identità. La retorica dell’ oltre, oltre i partiti, oltre le tradizioni, oltre il socialismo, non dice nulla se non è chiaro dove si va». E pone una questione: «Vedo che si chiede a noi della minoranza dove andate. Io chiedo a voi della maggioranza: Voi dove andate, esattamente?». Denuncia ancora: la costituente del Partito Democratico «si apre al buio e la piattaforma è costituita da un manifesto debole, pasticciato, confuso».
E fa un’analisi spietata: «Siamo precipitati nel Partito democratico senza aver chiarito nulla. Non certo la sua collocazione internazionale. Non potrà far parte integrante del Pse. Non abbiamo chiarito nulla dei grandi temi. Sul sindacato non si dice parola o si dicono parole sbagliate. Altri temi sono immersi nella più grande confusione, come la laicità. C’è tra i costruttori del Pd, chi ha partecipato a manifestazioni di sostegno ai Dico, e chi parteciperà al Family Day». E nella sua difesa della laicità la platea del Mandela Forum si spella le mani per applaudire: «Laicità è lo spazio di libertà di tutti. Non ce n’è una sana e una insana, come ritiene Papa Ratzinger. Senza libertà religiosa non esiste libertà. La laicità dello Stato è un principio non negoziabile».
Mentre arriva alle conclusioni la voce di Mussi si fa sempre più bassa. Non piange. Ma il viso che è tutta un’occhiaia e la passione controllata con la quale ribadisce la sua scelta di uscire dai Ds, dicono la sua commozione più di tante lacrime. «Confermo qui - afferma Mussi a voce bassa- con animo non leggero l’indisponibilità della minoranza che rappresento a partecipare alla costituente del Pd. Noi ci fermiamo qui».
Poi parla del progetto, il suo progetto, di «costituire un movimento politico autonomo, che si propone di aprire un processo politico nuovo, più a sinistra del Partito Democratico». Si aprono, dunque, dice, con la voce sempre più strozzata, «due fasi costituenti. Sarebbe bello un doppio successo». E conclude, tra la commozione generale: «Buona fortuna compagni». Mentre scoppiano gli applausi, e la platea è in piedi per salutare Mussi che se ne va, Fassino sale sul palco, lo abbraccia, lo accompagna mentre scende. I leader del partito gli si fanno incontro, lo baciano e lo abbracciano. Lui cammina lentamente. Poi, la ressa dei giornalisti lo raggiunge.
* l’Unità, Pubblicato il: 19.04.07, Modificato il: 20.04.07 alle ore 13.22
Angius: riscriviamo il manifesto del Pd
di w.m. *
«Pensavo ci sarebbe stata una nuova iniziativa politica nella relazione di Fassino. Francamente non è stato così. Non riesco a cogliere cosa è stato accolto delle nostre proposte. Non condivido il carattere del nuovo partito che si profila, e il percorso attraverso cui ci si è arrivati». Comincia con una forte critica all’intervento di Fassino, Gavino Angius, leader della terza mozione, prendendo la parola al Congresso di Firenze. È rilassato, ma fermo. Sicuro della sua posizione di dissenso rispetto al Pd e di attesa sul cosa fare, insieme alla sua mozione. «Si scioglie - rincara - la più grande forza della sinistra italiana. Ho sentito tante parole: andiamo avanti, facciamo in fretta. E mi ha ferito soprattutto un’espressione: andiamo avanti anche se si perdono pezzi. Come se i compagni e le compagne che se ne vanno siano pezzi».
Critico Angius anche rispetto al lavoro del governo Prodi: «Le distanze politiche nella coalizione sono troppo spesso troppe». E si chiede: «Crediamo di poter arginare le incontinenze e le ossessioni teodem della Margherita?» Poi, parla di «troppa confusione». E si scaglia contro il Family Day: nell’affannosa ricerca si costruisce un Pantheon e 24 ore dopo lo si demolisce. E non è accettabile che il Governo vara la legge sui Dico, e subito dopo si scopre la famiglia e si organizza una manifestazione contro il Governo»
Poi Angius critica il manifesto fondativo del Pd, sottolineando come lo stesso Prodi abbia detto che il nuovo partito si vada a porre «al centro del riformismo». E avanza una proposta: «Procediamo a una radicale riscrittura di quel testo. Il dispositivo congressuale finale di Ds e Dl approvi che il manifesto fondativi sia redatto non solo da noi e dai Dl, decidano di redigere un nuovo manifesto chiamando a concorrere tutte le forze del riformismo italiano alle quali Fassino ha fatto riferimento. Questo permetterebbe a tutte le forze riformiste di essere protagoniste». Conclude facendo riferimento alle «idealità socialiste», e dichiarando che la terza mozione non è intenzionata a uscire dal campo del socialismo e della sinistra. «Aspetteremo la fine dei congressi di Ds e Margherita e poi decideremo che fare», avverte.
* l’Unità, Pubblicato il: 20.04.07, Modificato il: 20.04.07 alle ore 13.24
Il leader della terza mozione non entrerà nel Partito Democratico
Al congresso di Firenze disse: "Stiamo sbagliando percorso"
Ds, Angius lascia la Quercia
"Caro Fassino non condivido nulla"
"Nessuna risposta su Pse e laicità, me ne vado"
ROMA - Il primo ad annunciare l’addio era stato Fabio Mussi. Il leader del Correntone aveva scelto il palco del congresso diessino di Firenze per dire no al futuro Partito democratico e lasciare la Quercia in via di scioglimento. Gavino Angius, invece, non aveva portato lo strappo elle estreme conseguenze.
Alle assise di Firenze Angius e i suoi non avevano votato il dispostivo finale che prevede l’inizio della fase costituente per la nascita del Partito democratico. Oggi, invece, il leader della terza mozione ha deciso di lasciare i Ds. E lo ha fatto con una lettera a Piero Fassino e un’altra per i suoi compagni e compagne. Nella lettera Angius scrive di non condividere le caratteristiche e il profilo del nascente Partito Democratico e per questo annuncia la sua "non partecipazione". Per Angius il congresso non ha dato risposte "soddisfacenti" sul tema della laicità e sulla collocazione internazionale del Pd: "Restando il dissenso su punti essenziali della linea politica non resta che lasciare il partito".
Con Angius se ne andrà anche il portavoce della terza mozione Alberto Nigra mentre parteciperanno alla fase costituente gli altri esponenti di spicco della corrente: Massimo Brutti, Mauro Zani e Sergio Gentili.
Già dal palco congressuale Angius era stato critico nei confronti della svolta diessina. "Penso che si sta sbagliando il percorso, anche se convengo con Fassino che separarsi non è la soluzione. Ma non è sbagliato chiedersi su che cosa ci si unisce - aveva detto il leader della terza mozione - Si scioglie la più grande forza della sinistra italiana. Ho sentito tante parole: andiamo avanti, facciamo in fretta. E mi ha ferito soprattutto un’espressione: andiamo avanti anche se si perdono pezzi. Come se i compagni e le compagne che se ne vanno siano pezzi".
* la Repubblica, 24 aprile 2007.