Contro i boss, se non ora quando?
di ALFIO CARUSO *
Con i 3 milioni e 360 mila euro assegnati alla famiglia di Paolo Borsellino i risarcimenti giudiziari ai parenti delle vittime di mafia hanno superato quota 136 milioni. I condannati sono i boss di Cosa Nostra, ma a pagare sono le Istituzioni in virtù della legge Lo Presti-Mantovano, che prevede il ricorso al Fondo di rotazione costituito con i beni confiscati agli uomini del disonore. La Repubblica italiana terrebbe volentieri per sé il patrimonio grondante sangue dei seminatori di lutti e di lacrime. Come spiegarsi, infatti, l’opposizione dell’Avvocatura dello Stato alla richiesta della vedova e dei figli del magistrato dilaniato assieme alla scorta in via D’Amelio? Con il paradosso che in tribunale non si sono presentati i Riina e i Biondino, ma si è presentato, pur non avendone titolo, l’Avvocato dello Stato per sostenere l’insussistenza del danno biologico dei Borsellino e della conseguente riparazione pecuniaria. Il giudice ha, invece, riconosciuto anche il danno esistenziale.
A parte la clamorosa caduta di stile - chi ne risponderà? Il ministro Mastella interverrà? - stupisce che il governo non colga l’importanza simbolica di tali condanne, perfino superiore alla confisca dei beni. L’assegnare ai congiunti delle loro vittime la roba, per la quale i Riina, i Provenzano, i Bagarella, i Madonia, i Ganci, i Gambino, i Santapaola hanno sterminato senza fermarsi dinanzi a nessuna legge di natura, cancella la ragione sociale dell’associazione segreta con finalità eversive denominata mafia. Non va in frantumi solo il folle progetto dei corleonesi, va in frantumi la stessa struttura giacché negli ultimi vent’anni erano tutti diventati corleonesi, come spiega la parabola di Totò Lo Piccolo, che cominciò quale autista di Saro Riccobono, il capo mandamento di Partanna Mondello strangolato da Riina, prima di trasformarsi in alleato di Provenzano.
L’unico motore di Cosa Nostra sono i piccioli. Il resto - dal presunto onore al gusto di cumannari - è folklore utilizzato da laudatori antichi e recenti. Per soldati, capi decine, capi famiglia, capi mandamento la roba ha sempre rappresentato una fissazione molto più invadente di quella provata da mastro don Gesualdo. Nel luglio del ‘79 Boris Giuliano, lo sceriffo solitario di una Palermo indifferente se non complice, fece irruzione in un’abitazione di via Pecori Giraldi. Oltre a un piccolo arsenale furono rinvenuti otto sacchetti contenenti ciascuno mezzo chilo d’eroina: valore 3 miliardi dell’epoca. Tutto questo bendiddio apparteneva a Leoluca Bagarella al pari degli abiti su misura e delle camicie di seta con le iniziali. Da sotto il letto spuntarono un paio di stivali con le suole appena rifatte sulle quali era segnato il nome del proprietario, Sorrentino, un camionista di Altofonte sparito da alcune settimane. Nella relazione Giuliano scrisse: «I pecorai-assassini di Corleone non se la sentono mai di rinunciare al bottino, anche se sono soltanto un paio di stivali».
Nella sua storia plurisecolare mai la mafia è stata così in ginocchio: priva di un consiglio d’amministrazione, priva di una struttura militare, priva del principale bene da salvaguardare a ogni costo. Noi siciliani sapremo approfittarne? Adesso che si è incrinato pure il meccanismo delle estorsioni, troveremo la forza per una ribellione morale prima ancora che pratica? I meravigliosi ragazzi di «Addio Pizzo» proseguono nel proselitismo porta a porta; l’erede di una famosa dinastia di biscotti, Ivanohe Lo Bello, cerca di portare anche la sonnolenta associazione industriale sulla trincea di una legalità assoluta; i tribunali stanno sostituendo le assoluzioni per connivenza forzosa in condanna per concorso esterno, ma sarà tutto vano se i cinque milioni di abitanti del paradiso fin qui infestato dai diavoli resteranno a guardare. Il pericolo ha perso l’abituale fisionomia dei compari e dei picciotti, è rimasta quella molto più sfuggente dei finanzieri, dei politici, degli imprenditori, dei banchieri. Una melma in cerca di legittimazione e d’impunità. Negli Stati Uniti alle fine dell’800 banditi e avventurieri trasformati in ricconi dalla scoperta del petrolio furono associati alla classe dominante. In Italia che faremo?
A stabilire la cifra è stato il Tribunale civile di Palermo
I soldi verranno dal Fondo di rotazione per le vittime della mafia
Riina pagherà oltre tre milioni
ai familiari del giudice Borsellino
PALERMO - Tre milioni e 360mila euro. Tanto dovranno pagare le mogli di Totò Riina e Salvatore Biondino ai familiari del giudice Paolo Borsellino ucciso nella strage di via D’Amelio. Ad erogare materialmente il denaro, tuttavia, non saranno le due donne ma il Fondo di rotazione e solidarietà per le vittime della mafia, che attinge dai beni confiscati ai boss.
La Bagarella e la Gioè, sposate con i capimafia responsabili della strage di via D’Amelio, sono state condannate del giudice unico della prima sezione civile del tribunale del capoluogo siciliano, Luigi Petrucci in qualità di tutrici dei due boss. Ninetta Bagarella, infatti, rappresenta il marito privato di tutti i diritti e interdetto legalmente, mentre la Gioè rappresenta Biondino.
In giudizio non si è costituita nessuna delle donne dei due capimafia, mentre si è presentata l’Avvocatura dello Stato che ha sostenuto l’insussistenza del danno biologico e opponendosi alla richiesta del risarcimento. Il tribunale, però, ha però respinto questa tesi, ritenendo che del danno esistenziale "sia stata data ampia prova", assieme al danno biologico e morale subito dal magistrato ucciso e dai familiari: "Non potrà mai rimarcarsi abbastanza - scrive il giudice Petrucci - che la perdita del marito e del padre, nel modo tragico che ha sconvolto le coscienze del Paese e, a maggior ragione, quella dei parenti più intimi, non potrà mai essere ’integralmente’ compensata da una somma di denaro".
Fra i testimoni sentiti nel processo civile c’è stato anche il tenente dei carabinieri Carmelo Canale, ex stretto collaboratore di Borsellino, poi processato per concorso esterno in associazione mafiosa e assolto. "All’indomani della strage Falcone - scrive il giudice Petrucci - Paolo Borsellino aveva deciso di allontanarsi affettivamente dai figli per rendere meno traumatico il momento della sua uccisione, che intuiva essere ormai prossima. Cosa che, nello stesso momento in cui è un danno per il padre, lo è anche per i figli, privati dell’affetto del padre, e per la moglie, costretta ad assistere allo strazio interiore del marito".
La sentenza potrebbe essere impugnata dall’avvocato Lo Presti, perchèéla famiglia Borsellino aveva chiesto cinque milioni. Una richiesta che è stata accolta solo in parte: la Bagarella dovrà pagare 755 mila euro ad Agnese Piraino Leto, di 929 mila per la figlia Lucia, 815 mila per Manfredi e 861 mila per Fiammetta Borsellino.
MILANO ORDINA UCCIDETE BORSELLINO
«L’ESTATE CHE CAMBIÒ LA NOSTRA VITA»
di Alfio Caruso *
Diciotto anni dopo ignoriamo chi azionò il telecomando della strage di via D’Amelio, in cui vennero macellati Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta.
La mattanza di quel 19 luglio 1992 è stata fin qui un insieme di domande senza risposte: in che modo è sparita l’agenda rossa nella quale Borsellino segnava incontri, confidenze, ipotesi di lavoro?
Dov’era posizionato il misterioso uomo con il timer?
Fino a che punto i servizi segreti sono stati coinvolti nella trama?
Gli inquirenti hanno sbagliato per amore di carriera o per coprire pezzi dello Stato coinvolti con le cosche?
Le rivelazioni di Gaspare Spatuzza hanno, infatti, sbugiardato la ricostruzione ufficiale dell’eccidio su cui si sono basati tre processi con 47 condannati.
Oggi sappiamo soltanto che Cosa Nostra partecipò alla preparazione dell’attentato e che Borsellino non fu ucciso per il fallimento della trattativa condotta dai carabinieri con Riina attraverso la mediazione di Vito Ciancimino. Allora la minuziosa rilettura d’ingialliti verbali, le dichiarazioni di antichi testimoni, l’incrociarsi di vecchie e nuove verità aprono uno scenario rabbrividente. Sullo sfondo campeggia inquietante il Ros dei carabinieri: a che gioco giocava? Assodato che fu Provenzano a consegnare Riina, quali garanti dal gennaio ‘93 hanno protetto la latitanza di «zu Binnu», non a caso arrestato dalla polizia?
Un filo rosso lega via D’Amelio a Capaci. Falcone e Borsellino puntavano su Milano, da oltre vent’anni vera capitale della mafia. All’interno dei suoi insospettabili salotti i boss avevano trovato i complici ideali per riciclare e moltiplicare le centinaia di miliardi guadagnati con il traffico internazionale degli stupefacenti. L’appoggio di banchieri, imprenditori, finanzieri aveva consentito alle «famiglie» siciliane di trasformarsi in un impero economico capace di condizionare la vita del Paese: molti, dunque, volevano stoppare i due magistrati palermitani. Nei suoi cinquantasette giorni di corsa contro la morte Borsellino aveva capito il complesso meccanismo di quattrini e di complicità nel quale persino Riina e Provenzano agivano spesso da pupi anziché, da pupari. Ma lo Stato, nel cui nome Paolo sfidava il Male, fece ben poco per proteggerlo.
Questo libro vi racconta come e perché.
...Borsellino mostrava di conoscere determinate vicende; mostrava soprattutto di non avere alcuna ritrosia a parlare dei rapporti tra mafia e grande imprenditoria del Nord, a considerare normale che le indagini dovessero volgere in quella direzione; non manifestava alcuna sudditanza psicologica, anzi una chiara propensione ad agire con gli strumenti dell’investigazione penale senza rispetto per alcun santuario e senza timore del livello al quale potessero attingere le sue indagini, confermando la tesi degli intervistatori che la mafia era non solo crimine organizzato, ma anche connessione e collegamenti con ambienti insospettabili dell’economia e della finanza.
(Dalla sentenza d’appello del processo Borsellino bis, Caltanissetta 18/3/2002)
guarda la presentazione su youtube
* Fonte: ALFIO CARUSO
Convocate le aziende citate nei "pizzini" del boss Lo Piccolo
Lo Bello: chiarezza subito, troppo lunghi i tempi dei giudici
Sicilia, ultimatum di Confindustria
"Imprenditori chiarite o siete fuori"
dal nostro inviato EMANUELE LAURIA *
CATANIA - "È il momento della verità. Chi collabora resta dentro, chi tace va fuori". Per due mesi, dopo l’annuncio dell’esclusione da Confindustria di chi continua a pagare il pizzo a Cosa nostra, i vertici degli industriali hanno atteso di conoscere la reale entità del coinvolgimento della classe economica siciliana. Ma ora, davanti al silenzio assordante, allo "zero" assoluto di denunce e soprattutto davanti alle centinaia di nomi di imprenditori e commercianti sul libro mastro del boss Salvatore Lo Piccolo pubblicati la scorsa settimana da Repubblica, la Confindustria siciliana passa dalle parole ai fatti. Convocando, subito, davanti ai vertici di Assindustria Palermo gli imprenditori citati nei "pizzini" del capomafia. Una sfilata di titolari di aziende e imprese, alcune delle quali molto note e persino con cariche in Confindustria, chiamati a spiegare, chiarire la loro posizione, a scegliere, in sostanza, se rimanere dentro o fuori.
L’annuncio dato dal presidente degli industriali siciliani Ivan Lo Bello a Catania nel corso della cerimonia di consegna del premio intitolato al giornalista Giuseppe Fava, ucciso dalla mafia, ha scatenato una standing ovation nella platea. "Dobbiamo rompere gli indugi. Non è più il momento di attendere. Chi decide di collaborare è dentro, chi sceglie di restare dall’altra parte va fuori", dice Lo Bello dopo che nelle scorse settimane il presidente di Assindustria Palermo Nino Salerno aveva fatto sapere che già una decina di associati erano stati "invitati" a lasciare l’associazione vista l’incompatibilità a proseguire sul percorso segnato dai vertici di Confindustria con l’approvazione del nuovo codice etico. Ma allora il lungo elenco dei nomi segnati accanto alle cifre del pizzo pagato alla cosca di Salvatore Lo Piccolo non era ancora noto e adesso i vertici degli industriali non ritengono di poter attendere i tempi lunghi della magistratura.
"Ovviamente - spiega Lo Bello - il ritrovarsi citati in quei "pizzini" non equivale affatto ad una prova di responsabilità, ma noi dobbiamo sapere ora. Per questo abbiamo deciso di convocare tutti coloro che sono citati. Perché ci spieghino, perché non abbiano più alibi, perché diano prova di accettare nei fatti quel codice etico che ci siamo appena dati. Fino ad ora, per quel che abbiamo letto, il fenomeno ci tocca in minima parte. L’elenco è costituito per lo più da commercianti. Ma aspettiamo di sapere quali altre imprese sono coinvolte, a cominciare da quelle della zona industriale di Carini che ricadono in pieno nel territorio controllato da Lo Piccolo".
* la Repubblica, 7 gennaio 2008.