[...] Umberto Bossi arriva al congresso della Liga Veneta-Lega Nord e usa toni concilianti verso i democratici: "C’è spazio, siamo pronti ad accogliere le proposte del centrosinistra sul federalismo. Da parte nostra non ci sarà una chiusura al Pd e a Veltroni". Parole che arrivano dopo che ieri il Senatur aveva dichiarato la sua piena sintonia con Silvio Berlusconi sulla riforma della giustizia. Con cui, oggi, non si è ancora sentito: "Mi sembra abbia altro da fare in questo momento".
Poi Bossi sale sul palco e arringa i delegati. Il primo affondo, accompagnato da un inequivocabile dito medio alzato, è contro l’inno di Mameli: ""Non dobbiamo più essere schiavi di Roma. L’Inno dice che ’l’Italia è schiava di Roma...’, toh! dico io". Secondo affondo contro lo Stato "fascista": "E’ arrivato il momento, fratelli, di farla finita" [...]
[..] Umberto Bossi non ha fornito ulteriori dettagli ma, quando ha attaccato i professori del Sud, ha citato anche l’episodio di un ragazzo stangato perché ha presentato una tesina su Cattaneo. Niente nomi e niente cognomi, salvo quello del nume tutelare del federalismo lumbard.
La coincidenza: Renzo Bossi, figlio del leader leghista, pochi giorni fa è stato bocciato (per la seconda volta) alla maturità scientifica: "La valorizzazione romantica dell’appartenenza e delle identità", era il titolo della tesina presentata, ispirata proprio al pensiero di Cattaneo, come lo stesso Renzo Bossi aveva confermato ai quotidiani locali [...]
Se Berlusconi vuole la riforma della giustizia, la Lega è pronta a seguirlo. Umberto Bossi si ri-allinea al suo capo e mette in soffitta i dissapori e le battaglie sull’agenda del governo («Prima il federalismo, poi nel 2009 la riforma della giustizia», aveva detto Calderoli) di questi giorni.
«Io - ha detto Umberto Bossi, ministro delle riforme - non scarico i miei alleati». Bossi ne ha parlato, in serata, a Venezia. «La riforma della giustizia - ha detto Bossi - è cosa che vuole Berlusconi e se la vuole lui va bene anche a me».
Per il ministro delle Riforme Umberto Bossi, la «magistratura è un problema» e una soluzione potrebbe essere l’elezione dei magistrati da parte del popolo. Bossi ne ha parlato a Venezia dove partecipa alla festa del Redentore.
«La magistratura è un problema - ha detto Bossi - e non solo per il nord. Non c’è un solo magistrato del nord - ha aggiunto - e questo non va bene».
«Bisognerebbe - ha concluso Bossi - far eleggere i magistrati dal popolo, così possiamo sperare che venga fuori il meglio».
Da Bossi poi arriva anche un avvertimento al presidente del Veneto, Giancarlo Galan, nel realizzare il suo progetto di Popolo delle libertà, «deve stare attento perchè lui può essere solo l’Est e non il Nord». «Galan - ha ribadito Bossi - deve stare attento: lui si proclama, come ha titolato un suo libro, il "Nordest", ma lui è solo l’Est. Lo vedo - ha concluso - rivolto più verso gli slavi che in altre direzioni». In gioco la candidatura a presidente della regione nel 2009.
Follini: a Bossi non bisognava fare la corte Per Marco Follini il ri-allineamento di Bossi era scontato e chi nel Pd ha pensato di poter far leva sul leader lumbard per far cadere l’asse con il premier ha sbagliato. «Le dichiarazioni di Bossi dovrebbero apparire ovvie anche a quanti tra di noi gli hanno fatto in questi giorni un pò troppo la corte», commenta Follini. «Giocare Bossi contro Berlusconi mi è sempre apparsa una trovata per metà troppo ingenua e per metà troppo spregiudicata».
* l’Unità, Pubblicato il: 19.07.08, Modificato il: 20.07.08 alle ore 14.44
INNO NAZIONALE ITALIANO. L’INNO DI MAMELI (Sito della Presidenza della Repubblica).
Inno di Mameli (Wikipedia)
Il leader arringa i delegati al congresso della Liga Veneta-Lega Nord
"Mai schiavi di Roma. Il Lombardo-Veneto può abbattere gli Stati"
Federalismo, Bossi apre al Pd
Gestaccio contro l’inno d’Italia
"Basta con i professori che non vengono dal nord"
PADOVA - Apre al Pd e sbeffeggia l’inno di Mameli. Poi se la prende con "i professori che non vengono dal nord". Umberto Bossi arriva al congresso della Liga Veneta-Lega Nord e usa toni concilianti verso i democratici: "C’è spazio, siamo pronti ad accogliere le proposte del centrosinistra sul federalismo. Da parte nostra non ci sarà una chiusura al Pd e a Veltroni". Parole che arrivano dopo che ieri il Senatur aveva dichiarato la sua piena sintonia con Silvio Berlusconi sulla riforma della giustizia. Con cui, oggi, non si è ancora sentito: "Mi sembra abbia altro da fare in questo momento".
Poi Bossi sale sul palco e arringa i delegati. Il primo affondo, accompagnato da un inequivocabile dito medio alzato, è contro l’inno di Mameli: ""Non dobbiamo più essere schiavi di Roma. L’Inno dice che ’l’Italia è schiava di Roma...’, toh! dico io". Secondo affondo contro lo Stato "fascista": "E’ arrivato il momento, fratelli, di farla finita".
Poi tocca al federalismo. Il leader del Carroccio si dice favorevole alla perequazione tra le regioni più ricche e quelle più povere. Ma con criteri diversi da quelli attuali: "Deve essere una perequazione giusta, non come è adesso, dove chi più spende più ha soldi dallo Stato. E’ una truffa, è uno schifo".
Capitolo scuola. Per Bossi è ora di dire basta "al far martoriare i nostri figli da gente che non viene dal Nord. Un nostro ragazzo è stato ’bastonato’ agli esami perché aveva portato una tesina su Carlo Cattaneo". Quindi Bossi chiama al suo fianco la parlamentare leghista Paola Goisis, della commissione Cultura della Camera, che rilancia: "Gli studenti italiani sanno tutti i sette re di Roma ma non sanno neppure un nome di un doge della Repubblica Serenissima".
Di grande effetto anche la tirata sul Lombardo-Veneto che "ha la forza di battere chiunque, di abbattere gli Stati e forse sarà necessario farlo. Ogni volta che il Lombardo-Veneto si è unito, ha vinto".
* la Repubblica, 20 luglio 2008.
In molti hanno pensato che il riferimento del Senatùr fosse al figlio
Dalla scuola confermano l’argomento ma precisano: "Una tesina vale pochi punti..."
Bossi e i prof, il figlio bocciato
portava una tesi su Cattaneo
Coincidenze. Umberto Bossi non ha fornito ulteriori dettagli ma, quando ha attaccato i professori del Sud, ha citato anche l’episodio di un ragazzo stangato perché ha presentato una tesina su Cattaneo. Niente nomi e niente cognomi, salvo quello del nume tutelare del federalismo lumbard.
La coincidenza: Renzo Bossi, figlio del leader leghista, pochi giorni fa è stato bocciato (per la seconda volta) alla maturità scientifica: "La valorizzazione romantica dell’appartenenza e delle identità", era il titolo della tesina presentata, ispirata proprio al pensiero di Cattaneo, come lo stesso Renzo Bossi aveva confermato ai quotidiani locali.
Fermo restando che quel giovane ’stangato’ evocato oggi potrebbe essere chiunque altro, è il rettore del Bentivoglio di Tradate, l’istituto religioso presso il quale il figlio di Bossi ha sostenuto da privatista l’esame di maturità scientifica, a chiarire che comunque, nel caso del maturando Bossi, quella tesina non ha creato problemi ideologici. E che le commissioni d’esame non hanno colore, nè politico nè regionale.
"Allora, come per tutti i privatisti - spiega al cronista don Gaetano Caracciolo - l’esame di maturità si compone di un tema, un compito di matematica, un test su quattro materie e poi c’è l’orale, del quale fa parte la tesina che ne è l’introduzione". Appunto, la tesina: "Non conosco il dettaglio di quella prova d’esame ma comunque il punteggio dell’orale, di cui fa parte la tesina e solo come avvio del colloquio, pesa per 35 punti rispetto ai 45 delle altre prove". Come a dire che anche una tesina eccellente non può ribaltare eventuali altre defaillance.
Per curiosità, come era composta quella commissione d’esame? Neanche don Gaetano entra in dettagli ma spiega che "è composta da 3 docenti interni, tre esterni e un presidente, esterno anch’egli. Se proprio ci tenete, i tre interni sono settentrionali mentre per il resto - dice con un filo d’ironia - la composizione è mista in tutti i sensi, ma i professori - e qui la voce del religioso torna seria - non hanno regione nè parte politica. Fanno il loro lavoro di educatori. E questo lo sa anche ogni cuore di papà".
* la Repubblica, 20 luglio 2008
Bossi, populista e servilista
di Oreste Pivetta *
Si può anche capire, musicalmente, che Umberto Bossi preferisca il Va pensiero verdiano, che sono poi gli ebrei a cantarlo in esilio a Babilonia e che in bocca ai padani indigeni fa un po’ ridere. Che poi il Gran Lombardo (in tempi migliori si sarebbe subito pensato a Carlo Emilio Gadda, il degrado oggi ci trascina dalle parti del Carroccio) continui a maramaldeggiare contro l’Inno di Mameli fa pena. Dell’allegra marcetta in passato si sono serviti in tanti. Si potrebbe ricordare, che, ad esempio, a sinistra un secolo fa lo cantavano così, nobilmente: «Vogliamo la terra/ sia patria di tutti,/ che chi la lavora / raccolga i suoi frutti/. Non più dei signori:/ ci han sempre sfruttati,/ ci han sempre rubati/ i nostri sudor».
Per compiacere i suoi sodali Berlusconi e Tremonti e per farsi riconoscere, Bossi potrebbe cantarcelo così: "Fratelli d’Italia/ l’Italia s’è desta/ ai morti di fame/ tagliamo la testa./ I nostri fratelli/ domandan mercè/ scanniamoli tutti/ nel nome del Re". Vai a capire chi sia il re. Più banalmente da tempo i patrioti del Nord ci avevano allietato, sulle note di Tutti mi chiamano bionda, con il seguente ritornello: "E noi che siamo padani/ abbiamo un sogno nel cuore/ bruciare il tricolore/ bruciare il tricolore...". E via. Tanto perché fosse chiaro come la intendessero.
Si sa che Bossi con la bandiera ci si pulisce da quelle parti. Non è una novità e il cinema leghista è ormai solo un film già visto, tra tattiche, tattichette (che comprendono anche gli omaggi al centrosinistra), minacce e insulti, tricolori da bruciare, inni di Mameli da spernacchiare...
Ieri, appena lo si è visto a fianco del Gobbo, sindaco di Treviso, s’è capito che il Bossi ingrassava nel suo brodo e poteva spararle di ogni genere. L’assalto con il dito indice teso (manifestazione non proprio della tradizione padana, direi gestualità più terrona o romanesca) all’Inno di Mameli, peraltro con una lettura assai singolare del testo, dopo tanti sforzi del presidente Ciampi perché tutti lo imparassero a memoria come si deve, lo si può attribuire alla cialtronesca accondiscendenza del leader nei confronti del suo popolo, che apprezza immagini forti. Si divertono così. Goffredo Mameli, fervente mazziniano repubblicano e paroliere, non si sarebbe mai azzardato a scrivere che siamo schiavi di Roma. Se mai pretendeva trionfalmente che la vittoria fosse schiava di Roma: un’altra cosa (anche se dobbiamo riconoscere col senno d’oggi che si trattava di una retorica stupidata). La notizia politica del giorno sarebbe invece l’apertura al partito democratico sul federalismo, contro la stato "fascista", cui peraltro si potrebbe pensare che lo stesso Bossi appartenga, circondato come si ritrova dai vari Gasparri, Fini, Alemanno, più altre controfigure. Se poi Bossi ci comunica che "è arrivato il momento, fratelli, di farla finita", non resta che attendere una mossa in coerenza: mandi al diavolo statalisti, opportunisti, berlusconisti (che hanno da pensare alla giustizia) e prenda la sua strada, che dovrebbe conoscere perché il federalismo si potrà impiantare traendo giovamento dalla lettura della tesina che il buon figliolo riccioluto Renzo ha dedicato a Carlo Cattaneo, un altro Gran Lombardo (questo autentico): la si dia alle stampe, per giudicare. Anche perché gli esaminatori della scuola privata alla quale il nostro Renzo s’era presentato per gli esami l’hanno giudicata male, bocciando il ragazzo (impreparato, han spiegato gli insegnanti, soprattutto sul resto del fronte didattico, distratto com’era dai mondiali calcistici etnici in Lapponia). Siccome cuor di padre non mente, il Bossi ha attribuito la bocciatura dell’erede ("bastonato") a uno sgarbo di esaminatori terroni, ostili al federalista Cattaneo.
Tirando le conclusioni, il Bossi ha quindi spiegato che i figli dei lombardi non si faranno più martoriare da gente che non viene dal Nord, non studieranno più i nomi dei sette re di Roma, ma quelli dei dogi di Venezia (e a Genova o a Milano o a Brescia che nomi dovranno mandare a mente?). Siamo già a una impronta chiara del futuro stato padano: tutti a casa loro.
Non piacerà, ma si sappia che ci sono quindici milioni di uomini disposti a battersi per la loro libertà: i fucilieri bergamaschi, i carristi veneziani (quelli del tank sotto il campanile), i bravi montanari carichi di schioppi e pallottole, quelli delle quote latte, il Calderoli, il Cota e gli altri poltronisti pronti a mettere da parte le loro poltrone.
Naturalmente gli analisti e Berlusconi attribuiranno le avventure tra i tricolori in fiamme e le barricate scoppiettanti di Umberto Bossi alla sua verve cabarettistica oppure agli estri del condottiero che incanta le sue camicie verdi. Nessuno discute che Bossi sia un astuto politicante: con il suo carroccio ha dato da mangiare a una infinità di gente, persino a dei ministri, è pure riuscito a far salire alla terza carica dello Stato la signorina Pivetti, roba da catalogo dell’horror. È stato capace di indicare qualche sintomo del mal di pancia del Nord. È pure riuscito a imporre il tema del federalismo, di cui nessuno sentiva il bisogno, carichi come siamo di regioni e di regionalismo. Ma un uomo così, a parte le astuzie e un bilancio politico (di riforme, cioè) uguale a zero, quanto vale?
Potessimo rispondere con il linguaggio schietto di cui è maestro diremmo a Bossi che ci ha rotto le scatole con il suo populismo, con il suo servilismo (a Berlusconi), con le sue baggianate contro il tricolore e contro l’Inno di Mameli (che non sono al primo posto nei nostri pensieri, distratti dalle necessità del vivere quotidiano), con i suoi lunedì di Arcore, con i suoi ministri che sono peggio della Confindustria o di un commissario di pubblica sicurezza dello Zimbawe, con i suoi avanti e indietro. Anche lui, dopo tanto movimento, s’è ridotto a recitare per il potere e per Berlusconi da modesto e inattendibile e impresentabile uomo di potere in virtù di quattro idee sbilenche sul federalismo (dimenticando Cattaneo).
* l’Unità, Pubblicato il: 21.07.08, Modificato il: 21.07.08 alle ore 8.11
Intervista al presidente emerito sull’ultima sparata di Bossi "La spiegazione? Bisognerebbe chiedere a lui, chissà se ne ha una"
Lo sconcerto di Ciampi
"Che errore colpire i simboli"
"Rilanciai l’inno, in tanti mi scoraggiavano"
di GIORGIO BATTISTINI *
ROMA - L’uomo che ha fatto risvegliare negli italiani i valori patriottici, l’inno di Mameli, la bandiera tricolore, la sfilata ai Fori imperiali per il due giugno, il Vittoriano, l’invito a "fare sistema" per potenziare il senso nazionale ben oltre il solito tifo calcistico, Carlo Azeglio Ciampi, è sconcertato, infastidito dall’ultima boutade di Umberto Bossi. Quel beffardo, oltraggioso, dito medio esibito per mandare a quel paese, e anche oltre, l’inno di Mameli quando parla dell’Italia "schiava di Roma". Un greve "toh" destinato a galvanizzare i leghisti veneti e i loro capi rinfrescandoli nell’afa estiva, disturbando gli italiani veri.
Presidente, la scandalizza un’uscita del genere da parte del capo leghista che già in passato, a Venezia, esibì "sentimenti" analoghi verso il tricolore?
"Come ben si sa io sono orgoglioso di essere italiano. Sento molto il peso e il ruolo delle istituzioni, e l’inno nazionale è parte integrante di queste. Poi, si sa, gli inni nazionali non sono opere d’arte... ".
Nel senso che le parole dell’inno di Mameli hanno tratti oggi discutibili?
"Beh insomma, sono le parole di un giovane morto oltre due secoli fa, riflesso delle emozioni e dei valori di quella stagione della storia d’Italia. Se qualcuno scrivesse oggi certo userebbe altre parole. Schiava di Roma per intendere che l’Italia è al servizio della grandezza secolare della sua capitale".
Per un partito che usa come simbolo il Carroccio, le ampolline del Dio Po e quant’altro e che sogna a giorni alterni un’Italia del nord separata dal resto (Roma inclusa) l’idea d’una storica "schiavitù" può risultare pesante?
"Ma l’inno nazionale rispecchia sempre le condizioni del Paese nel momento stesso in cui è stato scelto e scritto. L’inno di cui si parla è stato composto due secoli fa. Certo, il tempo passato può aver lasciato qualche segno, ma nulla che meriti la contestazione dei leghisti".
Trova eccessivo il gesto fatto da Bossi nei confronti dell’Italia creata da Dio schiava di Roma?
"Più che altro mi pare controproducente".
Lei lo conosce bene, le pare sensato quel l’aver "sfregiato" così un simbolo dell’unità Nazionale, simbolo peraltro che la lega ha sempre esplicitamente snobbato, preferendogli il Va pensiero del Nabucco di Verdi?
"Conosco Bossi come persona politicamente avvertita, sono sorpreso".
Pensa che si sia trattato d’un gesto ingenuamente provocatore, una strizzata d’occhio alle truppe leghiste senza ulteriori significati?
"Questo ho qualche difficoltà a crederlo. In politica sprovveduto posso esserlo io, non loro...".
E quindi come spiegare una bravata del genere?
"Bisognerebbe chiederlo a lui, chissà se ha una risposta valida. Credo invece che sia necessario per tutti fare i conti con la propria storia, difendere la storia comune. Penso ad esempio al 2000, a quando decisi di valorizzare il 2 giugno riprendendo la sfilata militare (alleggerita rispetto al passato) in via dei Fori imperiali, a Roma. Una parata di forze armate come simbolo di pace. Ricordo bene che non pochi erano freddi, addirittura contrari e tentarono di dissuadermi. La gente no, invece. La gente era entusiasta, rivedo gli applausi, i volti allegri della folla su su fino al Quirinale".
Intende dire che gli italiani sono realmente affezionati alla simbologia della loro storia patria? E dunque non ci sono da temere forti adesioni alle uscite dei leghisti?
"Io credo che occorre avere rispetto delle istituzioni nelle loro forme. Sempre. Penso al Vittoriano. E’ vecchio, sì. E allora? A molti piace molto. Ad altri niente. E allora? Vogliamo buttarlo giù? Sarà appena il caso di ricordare che della tour Eiffel, quando nacque, si disse che era brutta ma provvisoria (per l’Esposizione universale), sarebbe stata presto abbattuta. Poi invece con gli anni è piaciuta sempre di più. E adesso nessuno saprebbe immaginare la capitale francese senza la torre".
E l’Italia senza Mameli?
* la Repubblica, 21 luglio 2008
La giustizia come intrusa
di Furio Colombo *
Il problema giustizia viene avanti in molti modi e molti episodi, quasi sempre per dire che la giustizia circola fuori posto, come un guidatore che - per ragioni non accertate - invade la corsia opposta.
Altri episodi, pur avendo peso e drammatica risonanza nella storia (non di una provincia italiana, nel mondo) sono ignorati del tutto.
Al momento solo Marco Pannella - fra l’indifferenza generale - sta facendo lo sciopero della fame nel tentativo di salvare una vita (si veda l’intervista di Umberto De Giovannangeli su l’Unità del 18 luglio). Impegno meritevole e irrilevante, direte voi, perché dove è ancora in vigore la pena di morte non fanno caso a Pannella. O forse - diranno altri - perché perdere tempo a occuparsi di una storia lontana, con tutte le gatte da pelare che abbiamo qui?
Il fatto è che, con un certo istinto, Pannella ha visto qualcosa che forse merita attenzione: l’imminente condanna a morte di Tariq Aziz, unico non islamico nel cerchio di Saddam, ultimo a venire a Roma e a vedere il Papa (Giovanni Paolo II) un giorno prima della guerra che quello stesso Papa ha supplicato in tutti i modi di evitare, seppellirebbe per sempre una fonte essenziale di fatti veri. Per esempio: è vero che Saddam stava per accettare l’esilio?
Qualcuno forse ricorda la follia radicale dello slogan «Iraq libero». Proponeva una di quelle cose semplici e assurde che a volte evitano le catastrofi: rimuovere Saddam (che voleva un miliardo di dollari per andarsene) e lasciare intatto e libero dal dittatore il Paese, in cui la distruzione, a un costo immenso, dura ancora. Ma qui non si tratta di rimpiangere, visto che almeno la storia ha corretto i suoi verbali, e si sa con certezza (testimone chiave l’ex primo ministro spagnolo Aznar) che una guerra così spaventosa era davvero evitabile.
Si tratta di fermare un processo finto, di invocarne uno vero, in nome dei princìpi in cui crediamo (o diciamo di credere) e impedire l’esecuzione dell’ultimo membro di governo colpevole, certo, ma anche ultimo testimone. E fermare un’altra esecuzione capitale in un mondo già spaventosamente insanguinato.
Su tutta questa questione non si muove una foglia negli illustri e storici parlamenti europei. È attivo, vivo e nervoso, invece, il Congresso americano. La Speaker (Presidente della Camera) Nancy Pelosi ha dato il via libera alla Commissione giustizia del suo ramo del Parlamento. In quel Paese la Commissione giustizia di una Camera non si occupa di bloccare il tentativo di un padre disperato di porre fine all’orrore della morte di una figlia che dura da 16 anni. In quel Paese la Commissione giustizia si riunisce per ascoltare il deputato Kucinich che, sulla base di una sua dettagliata inchiesta, vuole confrontare il Presidente degli Stati Uniti con l’accusa di avere dirottato stampa e opinione pubblica usando fatti non veri pur di cominciare la guerra che non finisce.
Un libro americano appena uscito in Italia ("The Italian Letter" di Peter Eisner e Knut Royce, distribuito in edicola dalla rivista "Il Mucchio") racconta l’intera storia e la parte italiana della vicenda (visto che politica e servizi americani non si prestavano).
Pannella però punta più alto, con il rischio di colpire nel vuoto, ma anche con un pragmatismo davvero di tipo americano. Dice: «Intanto salviamo la vita di Tariq Aziz e sentiamo che cosa ha da dire, ora che è senza potere ma non senza memoria». Ecco dunque una questione di giustizia che in luogo del silenzio meriterebbe un forte attivismo giornalistico e politico. Invece, silenzio. Capisco i media, che non possono montare retroscena. Ma le Commissioni Giustizia ed Esteri di Camera e Senato?
* * *
Domina invece, dai titoli agli editoriali, dalle interviste alle ricostruzioni cronistiche, il rapporto politica-giustizia in Italia. Non parlo di uno specifico evento, come quello del Presidente della Regione Abruzzo Del Turco, per il quale è doveroso l’augurio che possa dimostrare la sua estraneità ai fatti, la sua innocenza, nella più limpida delle inchieste, e nella più persuasiva delle difese possibili.
La questione italiana è unica e segnata da una profonda diversità rispetto al resto del mondo. Quella italiana non è una discussione tra esperti o un dibattito tra politici competenti su aspetti e modalità del rapporto fra i due poteri.
Vantare l’indipendenza del potere giudiziario di un Paese è privilegio delle democrazie. Dovunque, scorrendo i giornali del mondo, dalla Scandinavia all’India, trovate notizie del ministro sotto inchiesta (di solito dimissionario) del parlamentare indagato, di azioni probabilmente indebite compiute nell’ambito di uno degli altri due poteri, legislativo ed esecutivo, e perseguite dai procuratori e dai giudici del potere giudiziario. Poiché nel mondo del diritto la responsabilità penale è personale, ciascuno risponde in proprio, ci sono assolti e condannati (pochi, molto pochi restano o rientrano nella politica) e nessun Paese si spacca, nessun lavoro parlamentare si ferma, nessuno si esporrebbe al ridicolo di dichiararsi perseguitato, e anzi di esibire il numero delle inchieste e dei processi che lo riguardano come se fossero le decorazioni commemorative di valorose battaglie.
L’idea stessa che qualcuno manovri i giudici per i fini politici di un partito o di un gruppo, quando quell’idea torna ad essere dichiarata, come una denuncia rivelatrice, per decenni successivi, mentre intanto tutte le forze politiche (e il peso di quelle forze politiche) sono profondamente cambiate, è una denuncia malata. Oppure è la denuncia di un attentato, di un golpe. Va dimostrato con fatti, nomi, date, circostanze. Non è ammesso, non dal diritto e non dalla psichiatria, di dire: "Ce l’hanno con me".
Un momento di particolare, stridente contraddizione con la realtà, di nuovo in ambito dubbio sulla tenuta psichica o almeno la buona fede di chi fa la dichiarazione, viene raggiunto quando un inquisito assolto dichiara la sua assoluzione non la prova della giustizia che funziona, ma la prova del complotto. «Vedete? Mi perseguitano, tanto è vero che sono stato assolto».
Il lettore ha già capito che stiamo parlando sempre e solo di Berlusconi. Si può anche non nominarlo, ma la maledizione non se ne va. E’ lui che dichiara, in un mondo in cui si stanno incrinando le travi di sostegno di grandi Banche, in cui la paura è un ghibli che attraversa le Borse, in cui prezzi e inflazione salgono di giorno in giorno e anche di ora in ora, in cui il Governatore della Banca centrale americana non esita dichiararsi: «molto preoccupato», lui - Berlusconi - dichiara e ripete: «Nessuno mi fermerà; la priorità è la giustizia». Sentite i suoi rimedi alla crisi che scuote il mondo dalla City a Pechino:
«1. Ritorno all’immunità per i parlamentari (segue smentita, seguirà conferma).
2. Carriere separate per i giudici.
3. Frantumazione del Consiglio superiore della magistratura.
4. Misurare la produttività dei giudici (notare la parola da Confindustria applicata alla giustizia, ovvero la sovrapposizione di un potere sull’altro).
5. Vietare e punire tutte le intercettazioni eccetto per mafia e terrorismo» (con il problema di stabilire quando e dove una questione di mafia o terrorismo comincia o finisce).
* * *
Il problema si fa più grave quando illustri commentatori di grandi giornali seguono scrupolosamente il percorso indicato dal Capo che dice: se si verifica una interferenza, per qualsiasi ragione, fra giustizia e politica, il solo rimedio è “riequilibrare i poteri” ovvero tagliare le unghie alla giustizia.
Sentite l’opinione autorevole (e osservate lo snodo logico) espresso in un editoriale di Angelo Panebianco: «L’inchiesta su presunte tangenti nella sanità (dell’Abruzzo, ndr) ricorda a tutti che i problemi fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi». E anche (sentite bene): «È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di essere di nuovo forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia che non si limiti a essere fotocopia di quella dell’Associazione magistrati?». (Corriere della Sera, 15 luglio).
Il senso di questo ammonimento è piuttosto offensivo per il nuovo Pd. L’editorialista sta dicendo: «Come pensate di governare se lasciate liberi i giudici di indagare?».
Credo di poter dire che, offensive o no, le frasi fin qui citate siano intraducibili per il New York Times. I due candidati dei due grandi partiti americani non hanno alcuna “posizione sulla giustizia” salvo le garanzie e i diritti umani e civili di tutti i cittadini. Non l’hanno e non devono averla perché tutto è già stato stabilito dalla Costituzione. E inoltre perché i candidati delle elezioni americane sono in corsa per ottenere il potere esecutivo, non quello giudiziario. Quando il Presidente e la signora Clinton sono finiti sotto inchiesta per bancarotta (una piccola proprietà dell’Arkansas gestita insieme con soci infidi), l’America non si è fermata un istante, non c’è stato alcun convegno e il Presidente ha fatto la spola fra la Casa Bianca e il Gran Jury (organo istruttorio) senza denunciare persecuzioni. Quando i Clinton sono stati assolti nessuno ha parlato di “teorema svuotato come una bolla di sapone” (sto citando l’estroso portavoce Bonaiuti). Si è limitato a dire: «È finita bene». I due Clinton, Presidente e First Lady, si sentivano protetti, come tutti i cittadini, dalla loro Costituzione.
Anche noi lo siamo dalla nostra. Ma c’è ansia e allarme quando un personaggio che ha peso, storia, rilievo politico come Massimo D’Alema dice al Corriere della Sera (15 luglio): «Sulle riforme serve un colpo di reni. Sì a ragionevoli convergenze». Convergenze con chi? Non sarebbe meglio tentare, tutti insieme, di salvare la vita a Tariq Aziz?
L’ex ministro degli Esteri sa che valore non solo simbolico avrebbe quel salvataggio.
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 20.07.08, Modificato il: 20.07.08 alle ore 14.58
La spazzatura di Napoli e quella del governo
di EUGENIO SCALFARI *
NAPOLI restituita all’Occidente è uno slogan enfatico che Berlusconi ha usato per celebrare lo sgombero dei rifiuti dopo 56 giorni dall’inizio dell’operazione. Un po’ enfatico ma tuttavia adatto alla circostanza. Erano infatti sette od otto anni che il problema dei rifiuti, con alti e bassi, affliggeva la città e la provincia. I responsabili sono molti: il governo di centrodestra 2001-2006, il governo Prodi 2006-2008, il sindaco Russo Jervolino, il presidente della Regione Bassolino, la società Impregilo, alcuni dei commissari che si sono succeduti, Pecoraro Scanio ministro dell’Ambiente. E soprattutto la camorra.
Ma il culmine del disastro è avvenuto nel biennio prodiano e il centrosinistra ne porta la responsabilità. Berlusconi da quel grande comunicatore che è l’ha capito al volo, ci ha impostato la campagna elettorale e poi i primi atti del suo governo. Dopo due mesi ha risolto il problema. Non era poi così difficile ma segna la linea di confine tra chi privilegia il fare sul mediare, tra chi ha carisma e chi non ce l’ha.
Dopodiché Berlusconi resta quello che è, un venditore al quale il successo ha dato alla testa, un egocentrico, un populista, un demagogo. Ma se non gli riconosciamo i pochi meriti che ha e soprattutto i demeriti dei suoi avversari su questo specifico tema diventa difficile criticarlo come merita di esserlo e con la durezza che la situazione richiede.
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Quanto a tutto il resto, dare consigli al nostro presidente del Consiglio su come dovrebbe governare è tempo perso: lui, come scrisse Montanelli quando lasciò la direzione del "Giornale", si ritiene un incrocio tra Churchill e De Gaulle. Dare consigli a Tremonti è addirittura patetico: il pro-dittatore della nostra economia pensa e dice che Berlusconi gli è spesso d’impaccio.
Tra i due s’è aperta negli ultimi tempi una gara di megalomania di dimensioni patologiche che dovrebbe seriamente preoccupare i loro collaboratori, i loro alleati e soprattutto i cittadini da loro sgovernati. Personalmente credo che la cosa più utile sia quella di filmare, fotografare, raccontare alcuni passaggi significativi dei due "statisti" con l’intento di risvegliare la pubblica opinione; tentativo che ha già avuto qualche successo se è vero che i più recenti sondaggi registrano un calo di dieci punti nei consensi del capo del governo tra giugno e luglio.
Per quanto riguarda il pro-dittatore dell’economia non si hanno ancora dati ma il mugugno cresce e si diffonde. La polizia di Stato scende in piazza, famiglie e lavoratori sono sempre più incattiviti, tra gli imprenditori grandi e piccoli preoccupazione e malcontento si tagliano a fette, i leghisti scalpitano, Regioni e Comuni sono sul piede di guerra. Non è propriamente un bel clima e molti segnali dicono che peggiorerà.
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La fotografia più tragica di Berlusconi (tragica per il Paese da lui rappresentato) ci è arrivata dal G8 di Tokyo. Terminate le riunioni di quell’ormai inutile convegno di impotenti, il nostro "premier" ha dato pubblicamente le pagelle agli altri sette protagonisti come fanno i giornali sportivi dopo le partite di Coppa e di Campionato. Con i voti e le motivazioni. Il nostro ha dato le pagelle sul serio. Poi, con appena un pizzico di ironia, l’ha data anche a se stesso concludendo che il migliore era lui.
Tre giorni dopo, parlando ai parlamentari del suo partito, ha ricordato che quello di Tokyo era il terzo G8 cui partecipava e saranno quattro l’anno prossimo. "Non merito un applauso?" ha detto ai suoi deputati. Naturalmente l’ha avuto.
Come si fa a giudicare un uomo così, che arriva al punto di tirare in ballo Maria Goretti quando parla della Carfagna? Che ha immobilizzato la politica per sfuggire ad un suo processo? Che per bloccare il prezzo del petrolio propone una riunione dei paesi consumatori per determinarne il livello massimo? Che accusa di disfattismo tutti quelli sono pessimisti sull’andamento dell’economia internazionale e italiana? E il pessimismo di Tremonti allora? Non è il suo superministro dell’economia? Siamo nel più esilarante e tragico farnetico.
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Di Giulio Tremonti, tanto per cominciare, voglio ricordare tre recentissimi passaggi. Il primo riguarda i condoni da lui effettuati durante la legislatura 2001-2006. Qualche giorno fa la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Italia per il condono sull’Iva del 2002 e per il condono "tombale" del 2004. La motivazione è durissima: "Richiedendo il pagamento di un’imposta assai modesto rispetto a quello effettivamente dovuto, la misura in questione ha consentito ai soggetti interessati di sottrarsi agli obblighi ad essi incombenti.
Ciò rimette in discussone la responsabilità che grava su ogni Stato membro di garantire l’esatta riscossione dell’imposta. Per questa ragione la Corte dichiara che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli articoli..." eccetera eccetera. Stupefacente il commento di Tremonti con una nota ufficiale del suo ministero: "Messaggio ricevuto. Per il futuro c’è un esplicito impegno del governo ad evitare nuovi condoni".
Bene. I lettori ricorderanno che in tutto quel quinquennio la politica economica di Tremonti fece dei condoni lo strumento principale insieme ad altri trucchi della cosiddetta finanza creativa. La ragione di questa bizzarra e bislacca strategia fu quella di invogliare i contribuenti disonesti a patteggiare su una base minimale che procurasse tuttavia entrate capaci di far cassa fino al mutamento congiunturale che Tremonti dava per imminente.
Ma poiché quel mutamento tardava, l’evasione aumentava e il debito pubblico anche, il risultato fu che nel 2006 Tremonti consegnò a Padoa-Schioppa un’economia a crescita zero, un deficit del 4,6 del Pil, l’Italia sotto inchiesta europea per infrazione degli accordi di stabilità e l’avanzo primario tra spese e entrate annullato. Spettò a Padoa-Schioppa e a Visco di raddrizzare quella catastrofe, cosa che riuscirono a fare in meno di un biennio senza imporre alcuna nuova tassa né aumentare alcuna aliquota ed anzi abbassando di 5 punti le imposte sulle imprese e sul lavoro. Messaggio ricevuto, dice oggi Tremonti. Il quale ovviamente sapeva di violare con i suoi condoni le regole della Comunità europea e di fare contemporaneamente un enorme favore agli evasori.
Secondo passaggio. Tremonti ha presentato lo sgravio dell’Ici indicando una copertura di 2.600 miliardi. Successive analisi della Commissione bilancio e del servizio studi del Senato hanno accertato che il costo di quella misura era di un miliardo e mezzo in più. Un ministro-statista del calibro di Tremonti non dovrebbe presentare provvedimenti scoperti per oltre un terzo. Adesso comunque la copertura è saltata fuori. Da dove non è chiaro. Perciò domando: da dove? Mi si dice: nelle pieghe del bilancio c’è sempre qualche riserva. Qualche tesoretto? O che cosa?
Terzo passaggio. Polizia e Carabinieri stanno facendo il diavolo a quattro per i tagli al ministero dell’Interno e della Difesa. Hanno ragione. Anche Berlusconi, anche Maroni, anche La Russa stanno strepitando. Ed ecco la brillante idea: ci sono caserme e immobili del demanio da vendere. Vendiamole e col ricavato diamo un po’ di soldi alla Polizia e ai Carabinieri. In realtà quando si vende un bene del demanio, cioè del patrimonio dello Stato, il ricavato dovrebbe andare a diminuzione del debito pubblico.
Non è così, onorevole ministro? Non a spese correnti, tanto più che i ricavi di una vendita sono "una tantum" e allora? Tre passaggi, tre fotogrammi, un personaggio. Un po’ bugiardino. Con poca coerenza e molta "volagerie" negli atti e nelle opinioni. A lui sono affidati i nostri destini economici, mi viene la pelle d’oca al solo pensiero.
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Tralascerei il capitolo che i giornali hanno intitolato: "Brunetta e i fannulloni". Se non per dire che gran parte delle regole sulle visite fiscali e le sanzioni contro gli assenteisti risalgono al 1998. Non furono applicate perché per effettuare seriamente i controlli previsti ci voleva (e ci vorrà) un apparato organizzativo più costoso dei vantaggi di efficienza da conseguire.
Brunetta però ha ragione: lo sconcio dell’assenteismo e ancor più del doppio lavoro dovrebbe esser represso. Ma la faccia feroce serve a poco. Ci vuole un approccio appropriato. Per esempio la responsabilità dei dirigenti. Basterebbe controllarli da vicino e stabilire per loro premi o sanzioni sulla base dei risultati. Quanto all’idea di azzerare i premi esistenti incorporati negli stipendi, tutto si può fare salvo schierare un ministro contro al categoria da lui amministrata. Si finisce con lo sbatterci il muso e farsi male.
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Scusatemi se torno su Tremonti ma il personaggio merita attenzione. Dice che quella che stiamo attraversando è la crisi internazionale più grave dal 1929 e forse peggio di allora. Dice che fu il solo ad averlo capito fin dal giugno 2007. Veramente in quegli stessi giorni lo scrisse anche Stiglitz, premio Nobel per l’economia, lo scrisse anche Nouriel Roubini, docente alla New York University e, assai più modestamente, anche il sottoscritto.
Comunque Tremonti capì e me ne rallegrai a suo tempo con lui. Ma visto che aveva capito, sapeva fin da allora che soldi da buttar via non ci sarebbero stati. Perciò avrebbe dovuto fermare la mano di Berlusconi quando promise in campagna elettorale l’abolizione dell’Ici e l’effettuò nel suo primo Consiglio dei ministri. Avrebbe risparmiato 4 miliardi di euro, un vero tesoretto da destinare alla detassazione dei salari. Invece non l’ha fatto.
Quattro miliardi buttati al vento. Non va bene, onorevole Tremonti. So che lei ha in mente di utilizzare la Cassa depositi e prestiti, il risparmio postale e le Fondazioni bancarie per finanziare le infrastrutture. E’ un progetto ardito, soprattutto ardito usare il risparmio postale.
Comunque, di quali infrastrutture si parla? Quelle disegnate col gesso da Berlusconi nel 2001 sulla lavagna di Vespa e rimaste al palo? Vorremmo un elenco, le priorità, il rendimento e l’ammontare delle risorse. Si tratta comunque di progetti ad almeno tre anni. Nel frattempo dovranno intervenire le banche. Sempre le banche. Per Alitalia, per le infrastrutture, per gli "swap", per i mutui immobiliari. Intanto i tassi salgono, gli oneri per il Tesoro aumentano, la pressione fiscale non diminuirà. La sua Finanziaria è piena di buchi e dove non ci sono buchi ci sono errori di strategia. Lei ha gratificato D’Alema con l’appellativo di statista.
D’Alema se lo merita immagino l’avrà ringraziata. Ma non s’illuda con questo di averne fatto un suo "supporter". D’Alema è amabile ma molto mobile, cambia spesso scenario. E poi, se lei ha bisogno dell’opposizione per discutere di federalismo fiscale, non le basterà D’Alema. Ci vorrà tutto il Partito democratico, ci vorranno le Regioni e Comuni, ci vorranno le parti sociali. Non credo che il vostro federalismo diventerà legge in nove minuti e mezzo.
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Giorni fa ho rivisto dopo cinquant’anni sulla tv "La7" il film "Accattone" di Pier Paolo Pasolini che fu presentato a Venezia suscitando allora vivaci discussioni. E’ un film di un’attualità sorprendente e sconcertante. Racconta di un "magnaccia" che ne fa di tutti i colori fino al punto di rubare la catenina d’oro dal collo di suo figlio, un bambinetto di quattro anni, per sedurre una ragazza e poi avviarla sulla strada della prostituzione.
Il tutto sullo sfondo delle baraccopoli della Roma degli anni Cinquanta, una desolazione e un degrado senza limiti tornato oggi di tremenda attualità, campi nomadi e povertà straniera e nostrana.
Il ministro Maroni dovrebbe vederlo quel film, ne trarrebbe grande profitto. Fa bene a preoccuparsi dei bambini "rom", che rappresentano tuttavia una goccia nel mare delle violenze contro bambini e donne all’interno delle famiglie. Delle famiglie italiane, quelle degradate ma anche quelle apparentemente non degradate.
Comunque, prendere impronte a bambini è violenza. Magari a fin di bene ma sempre violenza. Uno stupro dell’innocenza. Maroni l’ha promesso ai suoi elettori ma questo non lo assolve perché uno stupro è pur sempre uno stupro. Stuprare l’innocenza d’un bambino è un fatto gravissimo. Questo sì, è un tema che vale una piazza, cento piazze, mille piazze.
* la Repubblica, 20 luglio 2008
Il senatur torna sul gesto dell’indice alzato relativo all’inno di Mameli
"Non mi piace la schiavitù. La canzone del Piave è meglio"
Camera, Bossi attacca Fini
"Era meglio se non parlava"
MILANO- "Poteva non intervenire". Umberto Bossi boccia così le parole di Gianfranco Fini che, alla Camera, ha appena finito di condannare il dito medio del Senatur contro l’inno d’Italia. "Solo strumentalizzazioni, visto che nell’inno di Mameli c’è scritto pure che i bambini si chiamano Balilla" taglia corto il ministro leghista.
In mattinata Bossi era tornato sull’argomento. Tornando a spiegare la sua avversità all’inno di Mameli: "A me non è mai piaciuto, fin dai tempi della scuola, preferisco la canzone del Piave. Quella è una canzone di popolo, è più vicina alla Marsigliese". Non piace al Senatur la frase "..schiava di Roma". "Noi siamo per abolirla la schiavitù in ogni sua accezione - continua il leader del Carroccio - Il nord, la Lombardia, il Veneto mica possono essere schiavi di qualcuno".
Nel frattempo, alla Camera, la polemica esplode. Il Pd annuncia che da stasera fino al 27 luglio, serata di chiusura, alla Festa dell’Unità di Roma risuoneranno le note dell’Inno di Mameli. Alessandra Mussolini, nel corso della seduta, accosta un piccolo registratore al micofono del suo e fa sentire l’inno di Mameli in aula: "E’ un omaggio a Bossi, è bello farlo sentire qui".
Nel tardo pomeriggio il ministro leghista arriva a Montecitorio. Ascolta le parole di Fini e replica secco: "Meglio se non interveniva..". E a chi gli dice che la condizione posta dal presidente della Camera per il federalismo è l’unità nazionale, replica secco: "Il federalismo non è la seccessione, la Lega rispetterà l’unità nazionale".
* la Repubblica, 21 luglio 2008.