Il valore del lavoro
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 29.07.2008)
Il lavoro è fatica. Ma non solo. È anche il veicolo attraverso il quale si riflettono e si strutturano le relazioni umane, private e pubbliche. Associato ad uno stato di necessità nella cultura classica e in quella giudaico-cristiana, nella società moderna il lavoro è stato progressivamente coniugato all’idea di piacere o realizzazione personale. «Che cosa ti piacerebbe fare da grande?» o «Ti piace il lavoro che fai?» sono domande di rito (benché risposte del tipo, "amo il mio lavoro" non lo siano affatto). Un detto americano rende bene l’idea: «Do what you love - the money will follow» (Fai quel che ti piace, i soldi arriveranno).
Dove è chiaro che è la realizzazione personale a remunerare della fatica, non il salario semplicemente. Mentre la cultura protestante ha insistito sul valore etico del lavoro, facendone non solo espiazione del peccato originale ma anche espressione e realizzazione dei talenti donatici da Dio, l’etica individualistica secolarizzata ha posto l’accento sull’aspetto della disposizione personale (la soddisfazione, la gratificazione) e generato in questo modo l’aspettativa di un lavoro "adatto" a noi, non di un lavoro semplicemente, o di un lavoro qualsiasi. È questa la molla che ci porta a fare, creare, produrre, e che inoltre ci fa sentire contenti e perfino felici del lavoro che abbiamo.
Insomma, non si lavora più solo per vivere e mantenere la prole. Si lavora anche o principalmente per noi stessi, per soddisfare la nostra ambizione e le nostre aspirazioni, soprattutto per avere dagli altri un riconoscimento che reputiamo di meritare. Se rispetto al lavoro come "necessità" il criterio di valutazione è l’occupazione e il salario (dovendo tutti lavorare, a tutti dovrebbe essere data l’opportunità di trovare un lavoro), rispetto al lavoro come professione che "piace" il criterio è quello della realizzazione. Nell’un caso e nell’altro cambia anche il senso del tempo libero, il quale è agognata fuga nel primo caso ma può essere tempo morto o tedio nel secondo. "Come" si lavora, dunque, non solo "se" si lavora è un criterio importante per valutare il carattere della società nella quale viviamo.
Prima di Marx era stato Adam Smith a mettere in luce gli aspetti di tensione impliciti nel lavoro moderno. La divisione del lavoro, prevedeva Smith, avrebbe avuto una funzione formativa sulle facoltà umane specializzandole e perfezionandole ma, nel contempo, avrebbe potuto rendere molti esseri umani più "stupidi e ignoranti", costretti a fare lavori ripetitivi e non sentire altro che fatica. Dalla separazione tra lavoro come gratificazione e lavoro come dura necessità poteva venire nuova infelicità se la distribuzione del "lavoro che piace" sarebbe stata fortemente diseguale fra i membri della società e i criteri di distribuzione fossero stati ingiusti.
Ovviamente è assurdo pretendere che il lavoro di Shakespeare sia oggetto di eguale distribuzione. Tuttavia, una società democratica non può disinteressarsi della formazione delle opportunità né della qualità del lavoro. E non può neppure tradire se stessa organizzando servizi sociali e formazione scolastica in modo da distribuire opportunità diverse a seconda della classe sociale o del ceto culturale di appartenenza, ignorando quindi le persone e quello che possono essere o fare. Si dovrebbe per esempio chiedere al ministro Gelmini se lo stratagemma furbesco con il quale ha di fatto riportato l’obbligo scolastico a 14 anni per coloro che fanno studi professionali sia ispirato al principio di eguale opportunità che tutti i giovani indistintamente dovrebbero avere di conoscere e sviluppare i propri talenti e prepararsi ad aspirare a un lavoro che non sia solo fatica. Può lo Stato darmi una mano a incatenarmi per tutta la vita a una scelta scolastica che ho fatto a 14 anni? Può una società essere così scellerata da permettersi il lusso di decidere a priori di chiudere invece che di tenere aperte più possibilità per il più gran numero? Come fa il ministro Gelmini a sapere quello che pochissimi ragazzi di 14 anni sanno, ovvero quali sono le loro doti migliori e quali facoltà sentono di voler sviluppare?
Le cronache governative di questi ultimi giorni aggiungono altri temi di riflessione, sempre e immancabilmente caratterizzati da scelte politiche di insopportabile discriminazione e ingiustizia. È davvero nell’interesse delle persone e della società che la parte più energica, attiva e naturalmente creativa della popolazione, quella giovanile appunto, sia costretta in una condizione lavorativa che è di mancanza di speranza?
Con buona pace degli ideologhi della destra, che identificano incertezza e precarietà con libertà e rischio, l’incertezza per il futuro non è la stessa cosa del rischio e della libertà di scelta: è una condizione paralizzante perché non consente di fare progetti e quindi scoraggia l’iniziativa, dequalifica il lavoro, deprime la produttività. Infine, incatena alla propria condizione non meno del vituperato posto fisso.
I cittadini democratici sono lavoratori perché sono persone autonome che devono saper prendersi cura di se stesse non vivendo né sulle spalle di famiglie aristocratiche né su quelle di schiavi. Le democrazie moderne, tutte quante (anche quelle che non lo scrivono nella loro costituzione), sono fondate sul lavoro. Tuttavia, benché l’aspetto della necessità non possa essere eliminato dal lavoro, l’aspetto qualitativo o della gratificazione non può essere considerato come una questione puramente personale, un fatto lasciato al "caso" e alla "fortuna"; non può essere infine un privilegio di pochi. Diceva giustamente John Rawls che «il modo in cui gli esseri umani lavorano insieme per soddisfare i loro desideri presenti condiziona quelli che saranno i loro desideri futuri o il tipo di persone che diventeranno». Per questo, una società democratica non può accettare che esista una divaricazione come quella che esiste oggi in Italia tra lavoro come mera necessità e lavoro come gratificazione; tra lavoro come fatica senza nome e invisibile sudore ("lavoro a tempo") e come realizzazione di sé.
Una società che si preoccupa di dare ai propri cittadini gli strumenti per avere un lavoro che non sia semplicemente una dura necessità è più vivibile e giusta di una società che o se ne disinteressa o crea ad arte condizioni di costrizione alla precarietà e all’infelicità. Essere democratici significa anche credere che nessuno debba essere messo nella condizione di non avere altra scelta se non fare lavori che danno poca o nessuna gratificazione; lavori che, per ripetere Smith, rendono "stupidi e ignoranti" (con gran profitto di coloro che sull’ignoranza e la stupidità altrui costruiscono ad arte le proprie fortune politiche ed economiche).
Sceglieremmo di andare a vivere in una società nella quale il nostro destino verrà deciso in grande misura in base alla famiglia nella quale per caso siamo nati; nella quale la lotteria del venire al mondo in un anno piuttosto che un altro determinerà il nostro futuro? Più eguaglianza materiale delle condizioni di partenza e più opportunità per i bambini e i giovani di esplorare le loro potenzialità e aspirare al lavoro come a un’occupazione dignitosa e soddisfacente, non semplicemente necessaria e remunerata in qualche modo: una società democratica deve sapere aspirare a questo. Questo non è assistenzialismo o ritorno al mito del lavoro fisso. Al contrario è la condizione indispensabile per avere una società davvero competitiva e fondata sul merito.
Anche per questa ragione preoccuparsi del valore e significato del lavoro è più che mai urgente. È importante essere consapevoli e preoccupati della svalutazione generale del lavoro (e per conseguenza della formazione e della cultura) perché anche in questo caso l’esito sarà una società più diseguale, più ingiusta e meno acculturata: il lavoro come niente altro che fatica (mal) remunerata per molti, deprofessionalizzato, abbandonato al caso, invisibile e depauperato di diritti; e il lavoro come possibilità di professioni significanti per pochi (magari con mezzi poco leciti, prebende e favoritismi).
Che questa sia la traiettoria pare un sospetto più che fondato. A seguire il dibattito di questi giorni sui precari pare infatti di capire che il "diritto al lavoro" si sia tradotto in svilimento etico del lavoro: lavoro come baratto di indistinta fatica a tempo in cambio di qualche soldo a tempo. L’effetto è devastante non soltanto per chi è volente o nolente incatenato a un destino di lavoro-necessità, ma per l’intera società perché i meriti di chi lavora e l’utilità del lavoro diventano fattori sempre più irrilevanti e arbitrari (nonostante la propaganda del contrario). Anche la devalorizzazione del lavoro è un segno, purtroppo poco considerato dalla sinistra, di una società che elegge l’arbitrio e il potere del più forte o del meglio piazzato nella geografia sociale a regole di vita.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Salviamo la Costituzione
Materie e prof, così si decapita l’istruzione
Ecco il piano del ministro dell’Istruzione: via 48mila insegnanti già dal prossimo anno
di Maristella Iervasi (l’Unità, 19.09.2008)
MAESTRO unico anche alla materna, accesso all’università solo per gli studenti con maturità liceale. Tutti in classe ma solo di mattina e circa 60mila docenti «rispediti» a scuola di lingua inglese per una formazione specializzata obbligatoria. Ecco come la «cu- ra» Tremonti-Gelmini si abbatte sulla scuola pubblica. Oggi alle 15 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini illustrerà ai sindacati Flc-Cgil, Cisl e Uil scuola lo schema di piano programmatico. 24 pagine fitte fitte che stravolgono l’attuale «sistema scolastico»: dai quadri orari ai piani di studio. Uno tsunami senza precedenti per le famiglie italiane, i docenti, i precari e tutto il personale della scuola. Una contro-riforma a tutto tondo portata avanti senza mai ascoltare la voce dei diretti interessati che in tutto lo Stivale si alternano a staffetta nella raccolta di petizioni sotto gli istituti contro il piano «da restaurazione» di viale Trastevere.
Per il duetto Tremonti-Gelmini la scuola è vista come un capitolo di bilancio. Il decreto legge 112 prevede esplicitamente che siano tagliati nel triennio 2009-2012 circa 87mila 341 posti docenti e 44.500 posti di personale Ata (collaboratori scolastici, amministrativi e assistenti tecnici). Così ecco pronto il calcolo dello strumento contabile a scapito della qualità: nell’anno scolastico 2009-2010, ad esempio, verranno tagliati 42.105 posti docenti e 15.166 di personale Ata. Dalle prime anticipazioni solo a partire dal prossimo anno ci saranno 15.740 maestri in meno nella scuola elementare; 16.431 prof in meno alle medie; 12mila nella scuola superiore e 15.166 posti in meno tra collaboratori scolastici, amministrativi e assistenti tecnici. Tagli agli organici e alla didattica, solo per risparmiare circa 8 miliardi di euro nel prossimo triennio. Tra le regioni più penalizzate la Campania di Bassolino e la Lombardia di Formigoni, quest’ultima è in testa anche per l’impiego di classi a tempo pieno (oltre 9mila). Enrico Panini, segretario generale della Flc-Cgil, prende in castagna la Gelmini: «Non è vero che la spesa per la scuola non è fuori controllo.
Non è vero che aumentano i docenti e diminuiscono i bambini: dal 2001 al 2008 gli alunni sono costantemente cresciuti mentre i docenti sono diminuiti del 4-5%. Non è vero - insiste il sindacalista - che il 97% della spesa della scuola è destinata agli stipendi. La spesa è così composta: 42 miliardi dello Stato, 10 miliardi da regioni ed enti locali. Un totale di 52 miliardi. Per gli stipendi del personale si spendono 40 miliardi circa».
E Massimo Di Menna della Uil-scuola, avverte: «L’incontro non si può ridurre a un’informativa. La via maestra non può essere l’ossessione del risparmio. Il maestro unico non è una ascia ideologica da abbattere sulla scuola primaria. Gli aspetti legati al piano non devono mettere in ombra la questione centrale: le basse retribuzioni e il personale precario. Aumenti retributivi da subito nel contratto, altrimenti forte mobilitazione». Un faccia a faccia insomma per niente facile, viste le premesse della vigilia. Con la Gelmini che ripete a mo’ di litania le stesse parole: «Liberare risorse per garantire libertà di scelta alle famiglie». Una mossa politica che la Flc-Cgil sintetizza così: «Si vuole chiudere con il peso economico della scuola statale per tutti, per svenderla ai privati».
MATERNE «L’orario obbligatorio delle attività educative si svolge anche solamente nella fascia antimeridiana, impiegando una sola unità di personale docente per sezione» - si legge nello schema piano programmatico Gelmini-Tremonti. Oggi il rapporto nelle scuole materne è di 2 maestre ogni 25-28 bambini con orario prolungato fino al pomeriggio e non tassativo alle 12.30. Con la maestra unica i piccoli dai 3 ai 5 anni non potranno più andare neppure in giardino, visto che per le «uscite» didattiche il rapporto previsto per legge è di un docente ogni 15 bambini.
ELEMENTARI «Va privilegiata l’attivazione di classi affidate ad un unico docente e funzionanti per un orario di 24 ore settimanali», è l’aut-aut della bozza-programmatica. Il piano Gelmini-Tremonti ipotizza anche una articolazione del tempo scuola su 27-30 ore di insegnamento tutta da inventare e a carico delle scuole. Mentre l’attuale tempo pieno verrebbe cancellato per far posto agli inevitabili doposcuola-parcheggio.
LINGUA INGLESE L’insegnamento verrà «affidato» ad un docente di classe «opportunamente specializzato». Gli attuali oltre 11mila docenti specialisti di lingua straniera verranno «progressivamente» eliminati nel tempo. Oltre 60mila insegnanti verranno quindi obbligati a seguire una formazione linguista di 150/200 ore. Verrebbe cancellata la norma contrattuale sull’aggiornamento come attività non obbligatoria.
TECNICI E PROFESSIONALI Meno orari, meno indirizzi e meno discipline. Di fatto, passo sbarrato per l’accesso all’università. Se ne discuterà nei prossimi giorni in un tavolo tecnico.