Italia e Vaticano. Un solo van-gelo, quello di Mammona e di Mammasantissima: "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)

LA DISTRUZIONE DELLA SCUOLA PUBBLICA, LA SVALUTAZIONE DEL LAVORO, E LA REPUBBLICA SOTTO L’ATTACCO DEL PARTITO-AZIENDA DELL’UNTO DEL SIGNORE: "FORZA ITALIA". Una riflessione di Nadia Urbinati - a cura di Federico La Sala

La devalorizzazione del lavoro è un segno di una società che elegge l’arbitrio e il potere del più forte o del meglio piazzato nella geografia sociale a regole di vita.
lunedì 28 luglio 2008.
 
[...] Si dovrebbe per esempio chiedere al ministro Gelmini se lo stratagemma furbesco con il quale ha di fatto riportato l’obbligo scolastico a 14 anni per coloro che fanno studi professionali sia ispirato al principio di eguale opportunità che tutti i giovani indistintamente dovrebbero avere di conoscere e sviluppare i propri talenti e prepararsi ad aspirare a un lavoro che non sia solo fatica. Può lo Stato darmi una mano a incatenarmi per tutta la vita a una scelta scolastica che ho fatto a 14 anni? Può una società essere così scellerata da permettersi il lusso di decidere a priori di chiudere invece che di tenere aperte più possibilità per il più gran numero? Come fa il ministro Gelmini a sapere quello che pochissimi ragazzi di 14 anni sanno, ovvero quali sono le loro doti migliori e quali facoltà sentono di voler sviluppare? [...]

Il valore del lavoro

di Nadia Urbinati (la Repubblica, 29.07.2008)

Il lavoro è fatica. Ma non solo. È anche il veicolo attraverso il quale si riflettono e si strutturano le relazioni umane, private e pubbliche. Associato ad uno stato di necessità nella cultura classica e in quella giudaico-cristiana, nella società moderna il lavoro è stato progressivamente coniugato all’idea di piacere o realizzazione personale. «Che cosa ti piacerebbe fare da grande?» o «Ti piace il lavoro che fai?» sono domande di rito (benché risposte del tipo, "amo il mio lavoro" non lo siano affatto). Un detto americano rende bene l’idea: «Do what you love - the money will follow» (Fai quel che ti piace, i soldi arriveranno).

Dove è chiaro che è la realizzazione personale a remunerare della fatica, non il salario semplicemente. Mentre la cultura protestante ha insistito sul valore etico del lavoro, facendone non solo espiazione del peccato originale ma anche espressione e realizzazione dei talenti donatici da Dio, l’etica individualistica secolarizzata ha posto l’accento sull’aspetto della disposizione personale (la soddisfazione, la gratificazione) e generato in questo modo l’aspettativa di un lavoro "adatto" a noi, non di un lavoro semplicemente, o di un lavoro qualsiasi. È questa la molla che ci porta a fare, creare, produrre, e che inoltre ci fa sentire contenti e perfino felici del lavoro che abbiamo.

Insomma, non si lavora più solo per vivere e mantenere la prole. Si lavora anche o principalmente per noi stessi, per soddisfare la nostra ambizione e le nostre aspirazioni, soprattutto per avere dagli altri un riconoscimento che reputiamo di meritare. Se rispetto al lavoro come "necessità" il criterio di valutazione è l’occupazione e il salario (dovendo tutti lavorare, a tutti dovrebbe essere data l’opportunità di trovare un lavoro), rispetto al lavoro come professione che "piace" il criterio è quello della realizzazione. Nell’un caso e nell’altro cambia anche il senso del tempo libero, il quale è agognata fuga nel primo caso ma può essere tempo morto o tedio nel secondo. "Come" si lavora, dunque, non solo "se" si lavora è un criterio importante per valutare il carattere della società nella quale viviamo.

Prima di Marx era stato Adam Smith a mettere in luce gli aspetti di tensione impliciti nel lavoro moderno. La divisione del lavoro, prevedeva Smith, avrebbe avuto una funzione formativa sulle facoltà umane specializzandole e perfezionandole ma, nel contempo, avrebbe potuto rendere molti esseri umani più "stupidi e ignoranti", costretti a fare lavori ripetitivi e non sentire altro che fatica. Dalla separazione tra lavoro come gratificazione e lavoro come dura necessità poteva venire nuova infelicità se la distribuzione del "lavoro che piace" sarebbe stata fortemente diseguale fra i membri della società e i criteri di distribuzione fossero stati ingiusti.

Ovviamente è assurdo pretendere che il lavoro di Shakespeare sia oggetto di eguale distribuzione. Tuttavia, una società democratica non può disinteressarsi della formazione delle opportunità né della qualità del lavoro. E non può neppure tradire se stessa organizzando servizi sociali e formazione scolastica in modo da distribuire opportunità diverse a seconda della classe sociale o del ceto culturale di appartenenza, ignorando quindi le persone e quello che possono essere o fare. Si dovrebbe per esempio chiedere al ministro Gelmini se lo stratagemma furbesco con il quale ha di fatto riportato l’obbligo scolastico a 14 anni per coloro che fanno studi professionali sia ispirato al principio di eguale opportunità che tutti i giovani indistintamente dovrebbero avere di conoscere e sviluppare i propri talenti e prepararsi ad aspirare a un lavoro che non sia solo fatica. Può lo Stato darmi una mano a incatenarmi per tutta la vita a una scelta scolastica che ho fatto a 14 anni? Può una società essere così scellerata da permettersi il lusso di decidere a priori di chiudere invece che di tenere aperte più possibilità per il più gran numero? Come fa il ministro Gelmini a sapere quello che pochissimi ragazzi di 14 anni sanno, ovvero quali sono le loro doti migliori e quali facoltà sentono di voler sviluppare?

Le cronache governative di questi ultimi giorni aggiungono altri temi di riflessione, sempre e immancabilmente caratterizzati da scelte politiche di insopportabile discriminazione e ingiustizia. È davvero nell’interesse delle persone e della società che la parte più energica, attiva e naturalmente creativa della popolazione, quella giovanile appunto, sia costretta in una condizione lavorativa che è di mancanza di speranza?

Con buona pace degli ideologhi della destra, che identificano incertezza e precarietà con libertà e rischio, l’incertezza per il futuro non è la stessa cosa del rischio e della libertà di scelta: è una condizione paralizzante perché non consente di fare progetti e quindi scoraggia l’iniziativa, dequalifica il lavoro, deprime la produttività. Infine, incatena alla propria condizione non meno del vituperato posto fisso.

I cittadini democratici sono lavoratori perché sono persone autonome che devono saper prendersi cura di se stesse non vivendo né sulle spalle di famiglie aristocratiche né su quelle di schiavi. Le democrazie moderne, tutte quante (anche quelle che non lo scrivono nella loro costituzione), sono fondate sul lavoro. Tuttavia, benché l’aspetto della necessità non possa essere eliminato dal lavoro, l’aspetto qualitativo o della gratificazione non può essere considerato come una questione puramente personale, un fatto lasciato al "caso" e alla "fortuna"; non può essere infine un privilegio di pochi. Diceva giustamente John Rawls che «il modo in cui gli esseri umani lavorano insieme per soddisfare i loro desideri presenti condiziona quelli che saranno i loro desideri futuri o il tipo di persone che diventeranno». Per questo, una società democratica non può accettare che esista una divaricazione come quella che esiste oggi in Italia tra lavoro come mera necessità e lavoro come gratificazione; tra lavoro come fatica senza nome e invisibile sudore ("lavoro a tempo") e come realizzazione di sé.

Una società che si preoccupa di dare ai propri cittadini gli strumenti per avere un lavoro che non sia semplicemente una dura necessità è più vivibile e giusta di una società che o se ne disinteressa o crea ad arte condizioni di costrizione alla precarietà e all’infelicità. Essere democratici significa anche credere che nessuno debba essere messo nella condizione di non avere altra scelta se non fare lavori che danno poca o nessuna gratificazione; lavori che, per ripetere Smith, rendono "stupidi e ignoranti" (con gran profitto di coloro che sull’ignoranza e la stupidità altrui costruiscono ad arte le proprie fortune politiche ed economiche).

Sceglieremmo di andare a vivere in una società nella quale il nostro destino verrà deciso in grande misura in base alla famiglia nella quale per caso siamo nati; nella quale la lotteria del venire al mondo in un anno piuttosto che un altro determinerà il nostro futuro? Più eguaglianza materiale delle condizioni di partenza e più opportunità per i bambini e i giovani di esplorare le loro potenzialità e aspirare al lavoro come a un’occupazione dignitosa e soddisfacente, non semplicemente necessaria e remunerata in qualche modo: una società democratica deve sapere aspirare a questo. Questo non è assistenzialismo o ritorno al mito del lavoro fisso. Al contrario è la condizione indispensabile per avere una società davvero competitiva e fondata sul merito.

Anche per questa ragione preoccuparsi del valore e significato del lavoro è più che mai urgente. È importante essere consapevoli e preoccupati della svalutazione generale del lavoro (e per conseguenza della formazione e della cultura) perché anche in questo caso l’esito sarà una società più diseguale, più ingiusta e meno acculturata: il lavoro come niente altro che fatica (mal) remunerata per molti, deprofessionalizzato, abbandonato al caso, invisibile e depauperato di diritti; e il lavoro come possibilità di professioni significanti per pochi (magari con mezzi poco leciti, prebende e favoritismi).

Che questa sia la traiettoria pare un sospetto più che fondato. A seguire il dibattito di questi giorni sui precari pare infatti di capire che il "diritto al lavoro" si sia tradotto in svilimento etico del lavoro: lavoro come baratto di indistinta fatica a tempo in cambio di qualche soldo a tempo. L’effetto è devastante non soltanto per chi è volente o nolente incatenato a un destino di lavoro-necessità, ma per l’intera società perché i meriti di chi lavora e l’utilità del lavoro diventano fattori sempre più irrilevanti e arbitrari (nonostante la propaganda del contrario). Anche la devalorizzazione del lavoro è un segno, purtroppo poco considerato dalla sinistra, di una società che elegge l’arbitrio e il potere del più forte o del meglio piazzato nella geografia sociale a regole di vita.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

-  COSTITUZIONE, SCUOLA, E CASTA POLITICA. UN TRADIMENTO STRUTTURALE DELLA FIDUCIA. A "Regime leggero", avanti tutta...
-  CATASTROFE DELLA SCUOLA ITALIANA?!
-  DOPO ANNI DI BERLUSCONISMO (DI DESTRA E DI SINISTRA) E RUINISMO DILAGANTE ("Forza Italia" - ancora uno sforzo!!!) SI SCOPRONO I COLPEVOLI.
-  MINISTERO ISTRUZIONE E BANKITALIA LI HANNO "FOTOGRAFATI": SONO GLI INSEGNANTI. Una schedatura

-  Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Salviamo la Costituzione

-  SINODO DEI VESCOVI 2008: L’ANNO DELLA PAROLA DI DIO - AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
-  Fatto sta che la prima enciclica di Papa Benedetto XVI (Deus caritas est, 2006) è per Mammona.
-  Gesù "Cristo, che non era schizofrenico", non si travestiva da imperatore e pontefice romano e non predicava il van-gelo del Dio-Mammona.

-  LA COSTITUZIONE, LE REGOLE DEL GIOCO, E IL GIOCO SPORCO (1994-2008) DEL MENTITORE ISTITUZIONALE - CONTRO L’ITALIA!!!
-  LA CRISI ITALIANA, LA STELLA POLARE E GIORGIO NAPOLITANO. L’IMPARZIALITA’ DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E’ BEN AL DI SOPRA DELLA PRESENZA MINACCIOSA DEL PARTITO CHE LO HA ESPROPRIATO DELLA STESSA POSSIBILITA’ DI DIRE ED ESCLAMARE: FORZA ITALIA!!!


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