[...] Stanno perfettamente insieme, nel rozzo bisogno di riaggiustare l’identità della destra dopo 14 anni, l’esaltazione dell’eroismo cieco e patriottico (dunque ingenuo e storicamente "innocente") di Salò con la riduzione del fascismo ad esperimento di modernizzazione autoritaria, travolto solo da un "esito" incongruo e tragico dovuto all’errore dell’innesto nibelungico col nazismo, le leggi razziali e la guerra. Si chiarisce l’aspetto tattico della svolta di Fiuggi, per la fretta dell’arruolamento belusconiano e la necessità conseguente di un cambio rapido di parole d’ordine e di riferimenti politici: una svolta appunto politicista, nient’affatto culturale, e tanto meno morale e storica, come confermano gli esiti odierni.
È facile, sotto il mantello, i numeri e la leadership altrui, diventare ministri e presidenti delle Camere. Più difficile diventare democratici convinti: e addirittura convincenti [...]
Democrazia e fascismo ai tempi della destra
di Ezio Mauro (la Repubblica, 10.09.2008)
NON c’è proprio nulla di "vecchio" o di "nostalgico", come si sono affrettati a dire in molti, nella polemica sulla doppia sortita sul fascismo e su Salò di due uomini di prima fila della destra italiana al governo, il sindaco di Roma e il ministro della Difesa: né francamente è interessante sapere se è per fascismo istintivo, naturale, antico, che nascono queste bestemmie istituzionali, o per la nuovissima incultura repubblicana, europea, occidentale che domina il berlusconismo indisturbato e regnante.
Al contrario, quelle frasi parlano di noi e di oggi, di ciò che siamo come Paese e come classe dirigente, come cultura nazionale e come pubblica opinione. Di questo vale la pena discutere, dunque, non delle piccole beghe tra Storace ed Alemanno che secondo alcuni sono l’unico movente e la spiegazione pacifica e rassicurante di una rivendicazione congiunta fatta davanti ai simboli della Repubblica, e non a caso da due "uomini nuovi" (se così si può dire) proiettati in competizione sul dopo-Fini, nel grembo berlusconiano che tutto concede e nulla vieta.
Stanno perfettamente insieme, nel rozzo bisogno di riaggiustare l’identità della destra dopo 14 anni, l’esaltazione dell’eroismo cieco e patriottico (dunque ingenuo e storicamente "innocente") di Salò con la riduzione del fascismo ad esperimento di modernizzazione autoritaria, travolto solo da un "esito" incongruo e tragico dovuto all’errore dell’innesto nibelungico col nazismo, le leggi razziali e la guerra. Si chiarisce l’aspetto tattico della svolta di Fiuggi, per la fretta dell’arruolamento belusconiano e la necessità conseguente di un cambio rapido di parole d’ordine e di riferimenti politici: una svolta appunto politicista, nient’affatto culturale, e tanto meno morale e storica, come confermano gli esiti odierni.
È facile, sotto il mantello, i numeri e la leadership altrui, diventare ministri e presidenti delle Camere. Più difficile diventare democratici convinti: e addirittura convincenti.
Nell’immaturità della svolta, due elementi appaiono soprattutto fragili, e tra loro collegati. L’orrore e la vergogna delle leggi razziali, insieme con la necessità di un accreditamento internazionale, hanno portato Fini e tutta la classe dirigente di An a periodizzare la loro presa di distanza dal fascismo dal 1938. Tutto ciò che è avvenuto in questo senso è naturalmente doveroso e positivo, a partire dal primo incontro tra Fini e Amos Luzzatto, presidente della comunità ebraica italiana, che "Repubblica" ospitò nel 2003 su richiesta dello stesso Luzzatto, perché il leader di An non poteva andare in Israele senza prima aver fatto i conti con gli ebrei italiani. E tuttavia questo forte passo in avanti (nell’assunzione di una responsabilità storica, e nel discostarsene, condannandola) ha un limite se resta isolato.
Perché se non c’è una condanna del fascismo come regime ("antiparlamentare, antiliberale e antidemocratico" come disse Mussolini nel ’25) si disconosce la sua stessa "natura", la sua opposizione al principio di uguaglianza attraverso l’elitismo da un lato e il razzismo dall’altro, e dunque si può separare - come appunto fa Alemanno - l’esito tragico del Ventennio dalla tragedia quotidiana che nasceva dalla sua stessa essenza liberticida, dal suo "odio per la democrazia", da quella che Turati chiamò l’"anticiviltà".
Non solo: concentrando il "male" del fascismo nel ’38, la condanna di quel male si risolve in un atto di contrizione personale a Yad Vascem, come se l’orrore supremo dell’Olocausto assorbisse in sé tutti gli altri scempi della democrazia compiuti dal regime, ogni altro gesto di riparazione, ogni legittima aspettativa degli italiani che avevano subito torti, abusi, violazioni della libertà. A partire dall’assassinio di Matteotti, per il quale nessun post-fascista ha sentito il bisogno nell’anniversario, ottant’anni dopo, di esprimere una condanna dal palazzo del governo, dopo che dal palazzo del governo Mussolini aveva impartito l’ordine di ammazzare un deputato d’opposizione.
Questo limite ha tre ragioni evidenti. La prima è la mancanza di un’autonoma necessità democratica degli uomini di An a chiudere per sempre la storia del loro passato, assumendo non solo la democrazia come contesto imprescindibile della vicenda odierna, ma i costruttori della democrazia - a partire dalla Resistenza - come Padri di una Repubblica condivisa e accettata nei suoi valori e nei suoi caratteri fondanti, tradotti nella Costituzione.
La seconda è il limite naturale del berlusconismo - una specie di autismo politico - che concepisce la sua grandezza nell’edificazione di sé e non nella costruzione di una moderna cultura conservatrice democratica e occidentale che il Paese non ha mai conosciuto, doroteo o fascista com’è sempre stato a destra. La terza è lo strabismo congenito degli intellettuali liberali e dei loro giornali, che non hanno mai incalzato la destra per spingerla a liberarsi dei suoi vizi storici e dei suoi ritardi culturali, risparmiando con avarizia ideologica evidente quel pedagogismo che per decenni hanno opportunamente dispiegato nei confronti dei ritardi e delle colpe del comunismo: e che esercitano ancora - naturalmente a senso unico - anche oggi che il comunismo è per fortuna morto ed è nata una sinistra di governo riformista.
Anzi, dovremmo dire che proprio le indulgenze della cultura italiana e del suo establishment compiacente, la permeabilità azionaria (salvo naturalmente la golden share berlusconiana) del Pdl dove contano solo fedeltà e rapporti di forza, non scommesse culturali e coraggio politico, la nuova predisposizione italiana verso il politicamente scorretto e il "non conforme", rendono possibile ciò che sta accadendo: non nel pensiero politico, che con ogni evidenza non c’è, ma nella prassi di governo della destra.
È come se il contesto italiano di oggi autorizzasse un passo indietro rispetto ai timidi passi avanti di più di un decennio fa. Oggi, in questa Italia, è evidentemente possibile onorare Salò e rimpiangerla. Oggi è possibile rivalutare il fascismo, poi incespicare in una correzione travagliata costruita con due "non" ("comprendere la complessità storica del fenomeno totalitario in Italia non significa non condannare...) per la difficoltà di dire con nettezza qualcosa di chiaro, di risolto, di comprensibile. Dire, soprattutto, cos’è oggi questa destra, in cosa credono i suoi uomini.
Bobbio aveva avvertito su questo possibile esito dello sforzo decennale del revisionismo per affermare un rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo: una nuova forma "aberrante" di equidistanza tra fascismo e antifascismo. È ciò che stiamo sperimentando in questo inizio di stagione, nella distrazione italiana del dopo-ferie, in un Paese in cui il senso comune - con i suoi pregiudizi - si è sostituito alla pubblica opinione (con la sua consapevole capacità di giudizio), la sinistra è prigioniera della sua subalternità culturale prima che politica, manca un principio di reazione perché non è in campo un pensiero alternativo al pensiero dominante: mentre si allarga ogni giorno, per conseguenza naturale, quella che i vecchi sudditi sovietici chiamavano la capacità di "digestione" della società.
Ma lo stesso Bobbio avvertiva che alla base della repubblica (e probabilmente della sua tenuta nel lungo dopoguerra) c’era un sentimento civile condiviso: un’"idea comune della democrazia". È’ ciò che oggi manca ed è la dominante della fase che stiamo vivendo. Proverei a dare questa definizione: in Italia oggi si contrappongono due diverse idee della democrazia. Non c’è bisogno di giudizi roboanti o di etichette improprie. È sufficiente guardare la realtà. Da un lato c’è un’idea repubblicana, nazionale ed europea che potremmo definire di democrazia costituzionale, che si riconosce nello Stato moderno, nella divisione dei poteri e nel principio secondo cui la sovranità "risiede" nel popolo. Dall’altro lato c’è l’idea di una democrazia che potremmo chiamare demagogica, una sorta di autoritarismo popolare continuamente costituente di un ordine nuovo, quasi una rivoluzione conservatrice che sovverte l’eredità istituzionale mentre la governa: in nome di un populismo che crea se stesso come un potere sovraordinato agli altri, nella prevalenza della decisione rispetto alla regola, anzi nella teorizzazione della nuova libertà post-politica che nasce proprio dalla rottura delle regole, perché il nuovo mondo si gerarchizza spontaneamente nella subordinazione volontaria al demiurgo.
Ce n’è abbastanza (basta pensare ai richiami impliciti ma evidenti del futurismo, del dannunzianesimo, dell’irrazionalismo, del nazionalismo, della restaurazione rivoluzionaria) perché l’istinto fascista nascosto ma conservato voglia fare la sua parte, si agiti sotto la cenere di una fiamma mai spenta, chieda di partecipare al banchetto costituente di questa "destra realizzata" che cerca una forma compiuta in Italia, una definizione che vada oltre l’orizzonte biografico berlusconiano e il limite biologico del suo titanismo. Così come si capiscono le responsabilità di tutto questo.
Si capisce meno, se questa è la partita, cosa faccia chi per definizione sta dall’altra parte del campo. Se questo, tutto questo è destra (qualcuno può ancora avere dubbi?) si può rinunciare ad essere sinistra, col Pd, sia pure sinistra finalmente risolta, e capace di parlare all’intero Paese? Non solo: quell’idea comune della democrazia - che in gran parte coincide con la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, dunque è di per sé "costituente" dell’identità civile del Paese - non si può declinare e costruire già dall’opposizione, con il rischio di scoprire magari che quel sentimento è già maggioranza nella coscienza dei cittadini?
di Gian Antonio Stella(Corriere della Sera, 10.09.2008)
Ignazio La Russa ha mai sentito parlare di Hans Schmidt? Se conoscesse la sua storia, forse ci andrebbe più cauto, prima di stupirsi per le polemiche sul suo omaggio ai soldati di Salò e di lagnarsi di «una forma di razzismo culturale» che impedirebbe addirittura di parlare (bum!) a chi è di destra.
Alberto Asor Rosa, anni fa, spiegò benissimo le cose: «Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buona fede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, chè di queste non ce ne sono. Non ce ne importa nulla che i bravi "ragazzi di Salò" non sapessero cosa difendevano, insieme con l’onore della patria. Capita, talvolta, nella storia di trovarsi dalla parte sbagliata».
In quel 1944 in cui i repubblichini affiggevano sui muri manifesti grondanti di croci uncinate («Arruolatevi nella legione SS italiana. L’Italia si riscatta solo con le armi in pugno» oppure «Operai italiani arruolatevi! La grande Germania vi proteggerà! »), Schmidt morì nel nome della democrazia, della libertà, della resurrezione dell’Italia occupata dai nazisti.
Hans era un giovane di trent’anni di Treptow-Köpenick, un municipio berlinese e aveva militato giovanissimo nel partito operaio socialista e socialista era rimasto. Sua moglie si chiamava Else, la figlioletta Eva. I nazisti ne diffidavano. Ma ormai, a guerra persa, mettevano in divisa tutti.
Arruolato come marconista, nel 1944 era a Albinea, a una decina di chilometri da Reggio Emilia, dove l’esercito hitleriano aveva un centro di trasmissioni. Fin dal primo giorno, quel ragazzo che portava il più tedesco di tutti i nomi tedeschi, non aveva avuto dubbi sulla parte con cui stare. Era riuscito a mettersi in contatto con i partigiani italiani, aveva passato loro armi, munizioni, informazioni. Finché, nell’agosto di quel penultimo anno di guerra, aveva messo a punto con altri quattro soldati anti-nazisti un piano per consegnare la postazione militare alla Resistenza.
Non si sa chi li tradì. Fatto sta che poche ore prima del colpo di mano, Hans Schmidt, Erwin Bucher, Erwin Schlunder, Karl-Heinz Schreyer e Martin Koch furono arrestati. Hans ed Erwin furono torturati per ore e ore prima di essere finiti con una pistolettata in faccia.
I loro amici vennero fucilati. «La domenica del 27 agosto fu una giornata silenziosa», avrebbe raccontato don Alberto Ugoletti, parroco di Albinea, «Nessuno poteva avvicinarsi al Comando. Si tendevano le orecchie, si guardava... Alle sei e mezzo del pomeriggio si udirono tre scariche di mitraglia. (...) Scendevano le tenebre quando si posero i cadaveri nella fossa. Prima di ritirarmi mi sono avvicinato al comandante chiedendo se potevo avere i nomi. Mi rispose seccamente di no. Uscendo un soldato mi si avvicinò: domattina ritorni sulla tomba e sotto le zolle troverà dei biglietti col nome. Sono figli di un dio ignoto, prete».
Così morì, insieme coi suoi amici, Hans Schmidt. Il «nostro » Hans Schmidt. In tutta la guerra non aveva sparato un colpo. Un po’ dell’onore tedesco, però, lo salvò lui. E a nessun ministro della difesa di Berlino verrebbe mai in mente di onorare chi, pensando di difendere la Germania, lo torturò a morte.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA SVOLTA DI SALERNO... E LA LOTTA PER LA LIBERTA’ E LA DEMOCRAZIA, OGGI!
DIO PATRIA FAMIGLIA *
L’onnipresente Ministro Tremonti, tuttologo e tuttofare, in un dibattito organizzato dai giovani di AN ha confessato: "Non ho ideologia ma se mi si chiede dico: Dio, Patria e Famiglia"!
Sic!
E questa non sarebbe ideologia?
Cosa sarebbe questa parola d’ordine del Ventennio?
Nutella spalmatutto o una sorta di protesi per handicappati mentali?
E allora, con Adriana Zarri dico a chiara lettere che "Dio mi sta bene, e anche la patria e la famiglia; ma il trilogismo Dio-Patria-Famiglia non mi sta più bene. Dico no a quel dio usato come cemento nazionale, a quella patria spesso usata per distruggere altre patrie, a quella famiglia chiusa nel proprio egoismo di sangue. Non mi riconosco tra quei cittadini ligi e osservanti che vanno in chiesa senza fede, che esaltano la famiglia senza amore, che osannano alla patria senza senzo civico"!
Pace e bene a tutti!
Aldo [don Antonelli]
Da Helsinki il presidente lamenta la scarsa sensibilità verso la nostra Carta
e verso quella europea. E poi dice: "L’Italia ha bisogno della crescita"
Napolitano: "In Italia non tutti
si identificano nella Costituzione" *
HELSINKI - "Da noi c’è chi non si identifica nella Costituzione": lo ha detto, oggi, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla conferenza stampa che ha chiuso la sua trasferta di due giorni in Finlandia. Parlando della situazione del nostro Paese, il capo dello Stato ha anche detto che "serve un grande sforzo per rilanciare la crescita".
Ecco il ragionamento di Napolitano: "Credo che in Italia - ha detto - sia ancora una questione aperta la piena identificazione che ci dovrebbe essere da parte di tutti nei principi e nei valori della Costituzione repubblicana che sono rispecchiati nella Costituzione europea richiamata nel Trattato di Lisbona". Il presidente lo ha dichiarato rispondendo a una domanda dei giornalisti sulla caduta di tensione che c’è in vari paesi europei, rispetto ai motivi originari che furono alla base della costruzione europea, come strumento per mettere fine agli orrori creati dalla guerra e dal nazifascismo.
Sulla necessità di una ripresa della crescita economica, il capo dello Stato ha spiegato che "è essenziale puntare su fattori fondamentali come la debolezza della capacità di concentrarsi sulla ricerca e la formazione. E’ una questione che deve essere affrontata anche dalle politiche pubbliche".
Napolitano ha poi espresso "non solo un sentimento di solidarietà al giudice Giacomo Montalbano (la cui villa è stata bersaglio di un’attentato incendiario, ndr) ma una riaffermazione dell’importanza dell’impegno di tutti magistrati che, come lui, lottano per l’impegno alla legalità anche con sacrificio personale e gravi rischi". Convinzioni, queste, da lui riportate anche al procuratore antimafia Piero Grasso, che ha incontrato proprio nella capitale finlandese.
* la Repubblica, 10 settembre 2008.
Né fascisti, né fascistini
di ANDREA RICCARDI (la Stampa, 11/9/2008)
In questi giorni i nostri ragazzi tornano a scuola. Settant’anni fa - dovremmo ricordarlo - ci furono ragazzi a cui fu impedito di ritornarci: erano ebrei. Tanti di loro hanno raccontato l’umiliante esclusione ordinata dai «provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista». Fu un fatto drammatico. Forse non approvato all’unanimità dagli italiani. Taluni mormorarono. Ma ormai il Paese era imbavagliato da più di quindici anni di dittatura e i provvedimenti, con la firma del re, passarono.
Il 5 settembre 1938, il regime disponeva: «Alle scuole di qualsiasi ordine e grado... non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica». Quello stesso giorno fu costituita la Direzione Generale per gli Affari razziali, incaricata della politica razzista. La discriminazione razzista isolò la comunità ebraica; favorì poi, con la collaborazione della Repubblica Sociale Italiana, lo sterminio nazista degli ebrei. È la storia italiana della Shoah: le razzie, il campo di Fossoli, le tradotte verso il Nord, l’eliminazione di tanti.
Nel 2008 ricorre il settantesimo delle leggi razziste, fondate sull’idea che «le razze umane esistono» e che ebrei, africani, appartengono a un’altra razza. Era una politica priva di base culturale e di ragionevolezza.
Ma fu attuata, perché il Paese, come mai nella breve storia nazionale, era nelle mani di un dittatore. Quelle leggi furono il prodotto folle di un sistema di potere. Non l’unico frutto amaro del regime: si pensi all’ingresso in guerra. Ma il fascismo non fu solo un insieme di gravi errori, bensì un sistema che distruggeva la libertà.
Si è tornati, nei giorni scorsi, a discutere di fascismo e Shoah. Non si tratta tanto di dibattere attorno all’idea di «male assoluto», che è categoria di ordine teologico (come ha notato ieri Massimo De Angelis su Il Foglio), quanto di riconoscere l’orizzonte politico e nazionale comune: quello della Repubblica che, sin dalla sua Costituzione, si è voluta totalmente altra dal fascismo, ripudiandolo. Questa è la linea su cui ci siamo mossi, sin dal 1945, e nel cui alveo si collocano le istituzioni repubblicane.
Questa via fu confermata anche nell’opposizione al comunismo, che De Gasperi volle come lotta democratica, senza cedere a strumenti autoritari (come gli era proposto in Italia e all’estero). Il voto del 18 aprile 1948 sancì il consenso nazionale all’Italia democratica, che aveva voltato le spalle al fascismo e che non sceglieva il comunismo. La collocazione nella Nato e in Europa consentì in particolare al Pci di potersi allontanare dal cono dell’influenza sovietica. Nell’Europa di allora pesava la minaccia sovietica, che ingabbiava i paesi dell’Europa dell’Est. Molti ricordano la tragica estate del 1968, quando il sogno di un socialismo dal volto umano fu schiacciato a Praga.
Mi sembra necessario rifarsi con chiarezza all’orizzonte della nostra cultura politica e istituzionale. Questa chiarezza è preziosa in un tempo in cui si fa tanto bricolage di numi ispiratori, mescolando pezzi di passato alla rinfusa e secondo l’estro del momento. Le genealogie ideali non si improvvisano. La memoria di un’Italia che ripudia il fascismo è parte integrante della nostra identità. Infatti, tra l’Europa e la globalizzazione, l’Italia va ridefinendo in questi anni la sua identità e la sua funzione nel mondo.
L’antifascismo del dopoguerra, anche nella ricaduta storiografica, ha conosciuto una stagione enfatica, eco di battaglie appena finite. Talvolta si è esecrata la storia del regime più di quanto la si sia compresa. Ma tanta strada si è fatta. Renzo De Felice - non lo si dimentichi - cominciò ad interessarsi al fascismo partendo dalla storia degli ebrei sotto il regime. Ha storicizzato la vicenda fascista, notando cambiamenti, articolazioni, consenso popolare. Il fascismo fu diverso dal totalitarismo nazista. Emilio Gentile ne parla come di «cesarismo totalitario». Si può discutere su totalitarismo, regimi autoritari e populisti. La storiografia è un campo sempre aperto a nuove acquisizioni. Non è un caso, però, che il fascismo finì per collaborare all’attuazione della Shoah in Italia. Il dibattito storiografico non cancella il fatto che la nostra vita politica e istituzionale si è costituita a partire dal ripudio di metodi, sistemi e idee, che hanno fatto il regime fascista.
C’è poi il capitolo dei fascisti e dei combattenti di Salò. È anche la storia di memorie familiari. La pietas davanti alla morte e alla sofferenza è un valore, che spero sempre più condiviso. Si cita spesso l’intervento di Luciano Violante a proposito dei «ragazzi» di Salò. Il valore del dolore umano fu sentito dalla Chiesa negli anni della guerra. Ho trovato questo passo del giugno 1944, dopo la Liberazione, nella cronaca del monastero romano di San Gregorio, che aveva nascosto ebrei e ricercati dai nazisti, come molte case religiose: «È l’ora dei gerarchi fascisti che per sottrarsi all’ira popolare o agli arresti del nuovo governo d’Italia domandano asilo alle case religiose e sebbene non se ne condivida i principi di rovina loro, carità ci obbliga ad aprire le porte».
Oggi si discute di scuola, di educazione civica, di identità nazionale. È allora opportuno richiamare al senso di una «storia comune», quella dell’Italia democratica, che è la nostra. Non si tratta di demonizzare nessuno. Né di coltivare odio. Né di imbavagliare la ricerca storica e la diversità di opinioni. Ma tutto non si può confondere. C’è bisogno di dire che questa è la nostra storia comune che nasce dal ripudio del fascismo. Così racconteremo ai ragazzi che stanno rientrando a scuola quanto accadde nel 1938 agli ebrei della loro età. Lo faremo, ricordando che non ci sono razze. Diremo anche che la politica può fare tanti errori, ma distruggere la libertà non è un errore bensì l’inizio della fine.
Perché stupirsi?
di Marco Revelli (il manifesto, 09.09.2008)
C’è una qualche ragione di stupore nel fatto che alla celebrazione della difesa di Roma l’8 settembre - l’8 settembre!, nel giorno in cui quelli come lui, i nostalgici della Patria Littoria e, insieme, i ministri della difesa, dovrebbero, per decenza, chiudersi in silenziosa meditazione -, il ministro La Russa non abbia trovato di meglio che tessere l’elogio dei combattenti di Salò? Ignazio La Russa è un fascista (può sembrate anacronistico, ma è così). Era fascista trent’anni fa, quando bazzicava piazza San Babila. Ha continuato a essere fascista per tutto il tempo in cui ha ricoperto alte cariche in un partito, il Msi, che aveva nel proprio simbolo il sacello del duce e che ostentava come un onore la discendenza dalla Repubblica sociale. E’ rimasto fascista nonostante la riverniciatura di Fiuggi. E’ fascista culturalmente. Politicamente. Anche antropologicamente, lasciatemelo dire, tanto da sembrare una caricatura del fascista. Lo è allo stesso modo di Alemanno, di Gasparri, di Storace... Quello che ha detto a Porta San Paolo lo aveva già detto, in forma certamente più cruda, prima del ’94, nelle sezioni del suo partito dove troneggiava di solito il testone di Mussolini e pendevano ai muri i gagliardetti della «decima mas». E lo avrà ripetuto chissà quante volte ai raduni reducistici della Divisione Littorio o della «Ettore Muti» (quelli, per intenderci, che rastrellavano con i tedeschi le nostre valli e bruciavano le borgate ribelli).
Quello che colpisce e indigna, nei fatti di ieri, è che ora lo dica non più da «uomo di partito», ma da ministro - e non un ministro qualunque -: da Ministro della Difesa, uno che rappresenta il braccio armato della nostra nazione, e che decide della vita e della morte sia dei nostri soldati che di quelli che se li trovano davanti. Quella «lettura» della storia italiana viene dal cuore del potere governativo, dal suo nucleo più duro, e inquietante, perché preposto «all’esercizio della forza». Ma anche questo è un segno dei tempi. Della profonda trasformazione - e degenerazione - del nostro sistema politico. Del mutamento strutturale - di «regime», potremmo dire - dell’assetto istituzionale italiano.
Se il fascista La Russa può permettersi di usare, da quel podio, «istituzionalmente», un linguaggio che negli ultimi anni aveva dovuto moderare e mascherare, se può dire quello che pensava e che pensa, è perché avverte che se lo può permettere. Che si sono abbassate le difese immunitarie del paese rispetto a quella retorica e a quelle argomentazioni. Che nel senso comune prevalente, la memoria di quegli eventi è ferita, neutralizzata, in ampia misura azzerata. Sembra che, interpellato, il ministro abbia risposto di aver «detto cose molto meno impegnative di quelle che disse Violante sui ragazzi di Salò, o di quello che ha detto lo stesso Veltroni». E purtroppo colpisce un punto dolente, perché lo strappo di Porta San Paolo avviene su un terreno già preparato da tempo.
Si insinua in un vuoto di consapevolezza e di coscienza storica lasciato da chi, per rincorrere mode mediatiche e troppo facili riconoscimenti dall’avversario politico, ha bruciato troppi ponti. Cancellato troppe linee identitarie. Giocato troppo spregiudicatamente con la propria e l’altrui storia. I «regimi» nascono, e soprattutto si manifestano, anche così: non solo con i fatti, ma con le parole. E se dei fatti (e misfatti) di questo governo le vittime sono gli «ultimi», quelli su cui è facile maramaldeggiare (i migranti, i rom, i precari, i senza voce...), delle parole vittima sono i «primi»: i fondatori di questa Repubblica che si appanna e svanisce. Quelli che l’8 settembre, in solitudine, nel naufragio della patria, scelsero. Un’Altra Italia, da allora non certo maggioritaria, ma autorevole, capace di voce e di memoria. Ostacolo e limite a ogni tentativo di ritorno. E’ quella la vittima sacrificale di Porta San Paolo. Il segno che, sessantacinque anni dopo, Roma è caduta. Lo misureremo nei prossimi giorni, dall’intensità della risposta, quanto profonda sia la caduta. Ma se quelle parole dovessero «passare». Se venissero archiviate come cronaca nel gossip dominante. Se la pur dignitosa e autorevole replica del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dovesse restare la sola, e non si materializzasse - di contro - una ferma, diffusa, condivisa e forte risposta, allora dovremmo concludere che il cerchio si chiude. E l’autobiografia della nazione si ripropone, nel suo eterno ritornare
Intervento del presidente della Camera alla festa di Azione giovani ’Atreju 08’ a Roma
Replica alle polemiche sorte dopo le dichiarazioni del sindaco di Roma Alemanno
Fini: "La destra si riconosca nei valori antifascisti"
"I repubblichini stavano dalla parte sbagliata"
Nella commemorazione dell’8 settembre il ministro La Russa aveva sostenuto
che chi aveva combattuto per la Repubblica di Salò comunque aveva difeso la Patria
ROMA - Chi è democratico "è a pieno titolo antifascista" e la destra deve riconoscersi nell’antifascismo. Lo ha detto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ospite della festa di Azione giovani ’Atreju 08’ a Roma. Il presidente della Camera ha anche affrontato la questione della Repubblica di Salò, sollevata qualche giorno fa in occasione della cerimonia di commemorazione dell’8 settembre dal ministro della Difesa Ignazio La Russa. "I resistenti stavano dalla parte giusta, i repubblichini dalla parte sbagliata", ha detto Fini. Subito dalla platea si sono levate grida di contestazione: "Sei stato chiaro ma non coerente, presidente".
Subito la replica: "A Salò c’è stata buona fede, riconoscerla è in molti casi doveroso ma è altrettanto doveroso dire che non si può equiparare chi stava da una parte e dall’altra. Onestà storica e compito di una destra che vuole fare i conti con il passato è dire che non è equivalente chi combatteva per una parte giusta e chi, fatta salva la buona fede, combatteva dalla parte sbagliata. La destra deve ribadirlo in ogni circostanza non per archiviarlo ma per costruire una memoria che consenta al nostro popolo di andare avanti".
La terza carica dello Stato ha sottolineato che "la destra politica italiana e a maggior ragione i giovani devono senza ambiguità dire alto e forte che si riconoscono in alcuni valori della nostra Costituzione, come libertà, uguaglianza e solidarietà o giustizia sociale. Sono tre valori che hanno guidato il cammino politico e ribadire che la destra vi si riconosce è un atto doveroso".
"Se in Italia - ha aggiunto Fini - non è stato così agevole, è perché non c’è stata una destra in grado di dire che ci riconosciamo in pieno nei valori antifascisti". Giorni fa hanno fatto molto discutere le dichiarazioni del sindaco di Roma Gianni Alemanno, secondo il quale "il fascismo non fu un male assoluto", mentre lo furono senza dubbio le leggi razziali.
"Quando ci si confronta con la storia - ha ribadito Fini - serve la consapevolezza che un periodo storico va giudicato nel suo complesso, e il giudizio complessivo da parte della destra del periodo del fascismo storico, dal 1922 al 1945 deve essere negativo, in ragione della limitazione e poi della soppressione della libertà. Non possiamo prescindere dai dati storici, il passato non lo possiamo nè ignorare, nè mistificare". Il presidente della Camera ha scandito a chiare lettere che non solo le leggi razziali sono state la colpa grave del fascismo, ma anche "la soppressione della libertà, la negazione dell’uguaglianza e infine la dichiarazione della guerra, una catastrofe che i nostri padri non hanno dimenticato".
* la Repubblica, 13 settembre 2008.
Uno strappo solitario
Il gelo dei colonnelli. Alemanno aspetta ore prima di rilasciare un gelido comunicato: «Tutto il gruppo dirigente di An ha elaborato le tesi di Fiuggi»
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 14.09.2008)
Stavolta lo strappo di Fini col fascismo c’è stato. Impossibile negarlo. Con tutto il fascismo, e non solo con le pagine legate alla Rsi. Netti infatti sono apparsi ieri i giudizi pronunciati dal Presidente della Camera davanti, ai giovani di An. Primo: «La destra deve riconoscersi nell’antifascismo». Secondo, di qui viene una Costituzione fondata su «libertà eguaglianza e giustizia sociale», da assumere in pieno come «valori antifascisti». Terzo, a parte la buona fede di chi scelse la Rsi, «i resistenti stavano dalla parte giusta, i repubblichini dalla parte sbagliata». Già, e Fini usa proprio il termine dispregiativo «repubblichini», per indicare gli adepti di Salò, lo stesso termine contestato da quanti a destra hanno sempre rivendicato alla Rsi la dignità di un’idea statale e di patria.
Certo ne ha fatta di strada quel Fini che a fine anni ‘80 parlava di «fascismo del 2000». Nei primi anni ‘90 di Mussolini come «del più grande statista del 900». E ne ha fatta anche rispetto alla svolta Fiuggi, del 1995. Quando l’antifascismo veniva da lui definito «momento necessario di passaggio, negativo e non valore in positivo». Come pure c’è uno «stacco netto rispetto alla distinzione finiana in Israele tra «male assoluto» nazifascista, e pagine fasciste anteriori, non tutte negative. No, stavolta c’è stato molto di più in Fini. Un vero capovolgimento di Fiuggi: l’antifascismo come valore fondante e positivo. Condito da un’altra, decisiva notazione storiografica, sull’intero fascismo stavolta. E cioè, ha detto Fini, non si possono isolare nel regime alcuni «fotogrammi», ma va dato un giudizio di insieme. E quel giudizio nel Presidente della Camera è globalmente negativo. Per la dittatura, la violenza, la guerra e l’alleanza con nazismo.
Di più. Accennando alla «memoria condivisa», Fini ha citato Ciampi e la sua pedagogia civile. Che privilegia la memoria costituzionale antifascista (non la marmellata delle memorie). All’insegna di una patria democratica, e non del «nazionalismo», che per Fini è male. Dunque occorre dare atto a Fini di onestà e di coerenza. In una col tentativo di ritagliarsi un ruolo decente di leader della destra democratica europea. Anche sotto lo stimolo di una polemica «antirevisionista» contro le ambiguità post-fasciste, che qualche frutto lo ha dato. Senonché qui nascono i problemi. Dentro An e guardando al futuro Pdl di Berlusconi. Tanto per cominciare già ieri Fini è stato contestato da uno di quei giovani ai quali parlava. Gli stessi ragazzi che portarono fiori sulle tombe dei saloini a Nettuno. «Sei stato chiaro ma non coerente!», ha gridato uno di loro. Mentre altri dissentivano e abbandonavano la sala. Poi, ai lati di An, sono arrivate le proteste furiose di Storace, di Fiore di Fn e di Donna Assunta: «Fomenta le divisioni tra italiani, dà la stura all’antifascismo, ha gettato la maschera, se ne vada se crede...».
Ma il vero punto è un altro. Sono le reazioni sbigottite e compresse di due dei colonnelli contro i quali è diretto lo strappo di Fini. Vale a dire Alemanno e La Russa, protagonisti di esternazioni che avevano oltremodo irritato Fini in questi giorni. Il primo - che aveva rivalutato un fascismo «buono» contro Salò - se l’è cavata nel pomeriggio con una dichiarazione che ribadisce il «percorso di Fiuggi». Condiviso ed «elaborato da tutto il gruppo dirigente di An compreso il sottoscritto (Alemanno, n.d.r)». Quasi a voler chiudere in anticipo illazioni e sospetti di dissenso, in realtà per troncare e sopire scontri col leader. La Russa invece, dopo aver dato segni di stupore ed essersi rifiutato di commentare a caldo, ha precisato con disagio che il suo ultimo discorso dell’8 settembre davanti a Napolitano, era solo un intervento sulla «memoria condivisa». E che perciò non c’è alcun problema con Fini. Dunque una questione aperta c’è in An, a parte l’adesione «convinta» di altri colonnelli come Gasparri e Bocchino. E non mancherà di palesarsi, sia rispetto alla fusione annunciata con Fi, sia rispetto agli equilibri interni, di An. Sia infine rispetto a una platea di militanti ed elettori che già facevano fatica a condividere la timida svolta di Fiuggi. Sicché non è infondato dire, come ha fatto Veltroni a Cortona, che le parole di Fini sono un «grande passo avanti», ma «rientrano in un’evoluzione personale», se raffrontate alla posizioni di Alemanno e La Russa.
Salvate il soldato Fini in An? Vedremo. Al momento però i giochi sono abbastanza incerti, sul destino dell’identità post-fascista in attesa di finire nel Pdl. E, quanto a quest’aspetto, resta aperto un altro tema. Anzi due: il rapporto Fini/Berlusconi. Se il primo, con la sua «revisione», entra alla grande nel Ppe e può aspirare concorrere da Premier, il secondo, proteso al Quirinale, si candida ormai di fatto a vero leader post-fascista. Vanno in tal senso gli umori «anti-antifascisti» del Cavaliere. La sua ostilità alla Costituzione da lui definita «sovietica», il disamore per la Resistenza, la descrizione del fascismo come innocua dittatura. E da ultimo, anche l’esaltazione del genio italico coloniale e dello squadrista Italo Balbo. Regalata guarda caso da Berlusconi proprio ai giovani di An. Fini antifascista moderato e Berlusconi post-fascista e presidenzialista? Sarebbe l’ennesima giravolta dell’Italia di destra vecchia e nuova. Giravolta trasformista. E pericolosa.
Un brutto segnale
L’ex presidente della Camera: Fini è più avanti del resto del partito
Ingrao: "Svolta più netta del ‘95 ma la pancia di An è ancora indietro"
Le uscite di Alemanno e La Russa sono un brutto segnale, la conferma che certe radici con il fascismo non sono state ancora recise
di Concetto Lo Vecchio (la Repubblica, 14.9.08)
ROMA - È sabato pomeriggio e Pietro Ingrao, il Grande vecchio della sinistra italiana (93 anni), legge e rilegge le dichiarazioni di Fini sui dispacci delle agenzie.
Presidente Ingrao, ha letto le dichiarazioni sul fascismo di Fini? Sono una svolta più netta di Fiuggi?
«Mi pare proprio di sì, ma soprattutto quel che colpisce è la presa di distanza da Alemanno e La Russa».
Come se Fini fosse più avanti rispetto al resto del partito.
«Questo è probabile. Con quest’uscita mi sembra che abbia voluto dare un monito, e dire alla sua parte che non è più tempo di traccheggiamenti».
La platea ha accolto con freddezza le sue parole.
«E questo è grave, perché per quanto lodevole, per quanto positiva, la critica di Fini è pur sempre parziale, nel senso che non iscrive il fascismo italiano dentro la tragedia del nazifascismo. Ci faccia caso, non cita mai Hitler, che di Mussolini fu un alleato stretto se non un duro comandante».
Da Fiuggi sono passati tredici anni eppure è come se in An non tutti avessero fatto sino in fondo i conti con il fascismo.
«È un brutto segnale, il segno che certe radici non sono state ancora recise, e che sono più radicate di quel che si pensi, considerate le uscite di Alemanno e La Russa degli ultimi giorni».
Fini dice anche che non tutti gli antifascisti erano democratici.
«Può darsi sia così, può darsi... Non dico che tutti della mia parte fossero santi ed eroi, ma l’antifascismo italiano è pieno di storie, vicende e figure di un’emozione e di un fulgore straordinari. Pensi alla tragica grandezza di Primo Levi, che finisce per uccidersi oppresso da quel che ha vissuto nei lager».
"Non si può equiparare chi stava da una parte e combatteva per una causa giusta di uguglianza e libertà e chi, fatta salva la buonafede, stava dalla parte sbagliata", ha detto il presidente della Camera. Sono parole che Fini avrebbe pronunciato anche da leader di An?
«Non saprei cosa risponderle, ma non sono stupito di queste parole mi pare che già negli anni passati Fini avesse espresso una volontà di riflessione autocritica. E tuttavia mi colpisce il silenzio che permane tuttora sul grande movimento di popolo che in Italia è stata la Resistenza. E forse sull’epopea che è stata la Resistenza italiana, c’è una debolezza anche nella scuola italiana».
È un caso che le uscite di Alemanno e La Russa siano giunte adesso, che la sinistra è stata pesantemente sconfitta?
"Purtroppo non è una stagione felice per la sinistra, c’è stata una riscossa conservatrice, le abbiamo buscate, diciamolo chiaramente. E anche il governo Prodi non è valso a fermare l’arretramento. Ancora adesso non si è sviluppata a sinistra né una riflessione critica adeguata e nemmeno una ripresa del collegamento con le masse. Questa è la questione centrale da affrontare. E c’è l’urgenza di ripartire presto».
Lo storico «Le frasi del presidente della Camera chiudono il percorso avviato nel ’96 dall’infausto discorso di Violante su Salò»
di Al. T. (Corriere della Sera, 14.9.08)
C’è una netta contraddizione tra le parole di Fini e quelle dei suoi colonnelli. Resto preoccupato perché con la rivalutazione di Balbo e di altri esponenti fascisti, Forza Italia, che è un partito populista, si sta spostando sempre più a destra. E non solo quanto a nostalgia, ma per le politiche che sta attuando Biografia Lo storico Nicola Tranfaglia ha scritto la biografia di Giorgio Almirante, pubblicata a puntate dall’Unità: il cammino del leader del Msi dall’antisemitismo a Salò, fino al passaggio di testimone a Fini
ROMA - Le origini fasciste della destra le conosce bene. Non solo perché è uno storico di fama, ma anche perché è stato proprio lui, Nicola Tranfaglia, a scrivere la biografia di Giorgio Almirante, pubblicata a puntate a giugno dall’Unità. Una storia nella quale ripercorre il cammino del leader del Msi, dall’antisemitismo alla Repubblica di Salò, fino al passaggio di testimone a Gianfranco Fini. Ora Tranfaglia è soddisfatto dalle parole del presidente della Camera. Ma se da una parte tira un sospiro di sollievo, dall’altra si dice ancora preoccupato.
Sollievo perché?
«Perché le dichiarazioni di Fini possono essere interpretate come un decisivo passo avanti sulla strada dell’acquisizione dell’antifascismo come criterio fondamentale per stabilire la democrazia».
Di recente qualche «colonnello» di An si era espresso diversamente.
«E infatti le sue parole mi sembrano in aperta polemica sia con La Russa sia con Alemanno ».
Preoccupato perché?
«Con la rivalutazione di Balbo e di altri esponenti fascisti, Forza Italia, che è un partito populista, si sta spostando sempre più a destra. E non solo quanto a nostalgia, ma anche per le politiche che sta attuando».
Cominciamo da Fini: il suo giudizio sul fascismo è nettamente negativo.
«Già nel 2003, allo Yad Vashem, disse cose in oggettivo contrasto con quelle che aveva detto fino ad allora. Parlare di male assoluto riferendolo solo alle leggi razziali non tiene conto della natura dispotica del regime, che fece uccidere Gramsci e Matteotti e picchiò fino alla morte Amendola. Ora Fini fa un passo avanti importante».
E Salò? La Russa ha rivalutato chi «combattè in difesa della patria».
«Si trattò di un regime satellite del Terzo Reich che combattè fino alla fine per difendere gli ideali nazisti di Hitler. Bene ha fatto Fini a prendere le distanze».
Ma il fatto che Fini debba intervenire ancora una volta, per sconfessare i suoi, qualcosa significherà.
«In effetti c’è una contraddizione netta tra lui e gli altri dirigenti. Mi sembra che siamo nel caso di un leader che si trova molto più avanti rispetto alle convinzioni della base e ai funzionari».
La Destra di Storace potrebbe avvantaggiarsene?
«Non credo. Sono residui di una destra ormai tramontata che non trova spazio nel Paese. La reazione di Storace è un giusto sigillo alle dichiarazioni di Fini: è l’ennesima speranza di riscossa di un estremismo che però è condannato dalla storia».
Quella di Fini invece è una destra ormai moderata.
«Sì. Mi sembra che ora sia Forza Italia ad aver scavalcato a destra Alleanza nazionale».
C’è ancora qualche resistenza o reticenza da abbattere per Fini?
«Non credo. Mi sembra decisivo riconoscere che l’antifascismo è indispensabile. È il passo fondamentale per uscire dal limbo: finalmente il fascismo non è più la base della destra in Italia. Mi lasci dire un’ultima cosa su Fini».
Prego.
«Le sue dichiarazioni in qualche modo concludono, perché vanno in direzione opposta, il percorso avviato da Luciano Violante nel ’96, con l’apertura ai "ragazzi di Salò". Un discorso infausto. E’ significativo che ci sia questo rovesciamento di ruoli e che, dopo dieci anni, arrivi la smentita di Fini alle parole di Violante».
I giovani di An replicano a Fini: «Noi non siamo antifascisti»
Picierno (Pd): messaggio preoccupante *
I giovani di An non possono che essere fascisti. È in sostanza questo il messaggio che Federico Iadicicco presidente di Azione Giovani Roma, ha scritto in una lettera pubblicata sul sito www.azionegiovaniroma.org. Il rappresentante dell’organizzazione giovanile di An prende così le distanze dalle ultime dichiarazioni del Presidente della Camera Gianfranco Fini che, dopo le polemiche scatenate dalle dichiarazioni di La Russa e Alemanno, aveva chiaramente invitato gli esponenti di Alleanza Nazionale a riconoscersi nei valori dell’antifascismo.
Ma evidentemente, il suo messaggio non ha fatto breccia. Iadicicco parte da una constatazione: «Circa due anni fa, non nel 1943, il più importante sito della rete antifascista italiana, Indymedia, pubblicò un articolo di commento a una iniziativa di Azione Giovani di Roma e ritenne utile mettere vicino al mio nome anche il mio indirizzo di casa, con l’evidente intento di puntare l’indice contro di me e di indicarmi come bersaglio da colpire». Da questa constatazione il presidente di Azione Giovani Roma arriva a questa ironica domanda: «Come potrei dichiararmi antifascista?». Insomma, la sua è una questione personale.
Ma non solo: «Sono andato un pò indietro nel tempo fra gli anni Settanta e Ottanta, comunque non nel 1943, e mi è venuto alla mente che alcune decine di ragazzi come me, che facevano quello che faccio io oggi, sono stati uccisi dall’odio degli antifascisti e francamente a quel punto sono crollato» continua la lettera. Iadicicco arriva a questo punto alla sua conclusione: «Ce l’ho messa tutta per trovare un motivo valido per essere antifascista ma non l’ho proprio trovato anzi ne ho trovati molti per non esserlo».
Ma quella di Iadicicco non è solo la lettera di un giovane nostalgico. È la lettera di chi parla a nome dei giovani di An, per i quali chiede a tutti comprensione: «Ti prego di capirmi - dice ai lettori - e con me tutti i ragazzi di Azione Giovani» perchè «noi non possiamo essere, non vogliamo essere e non saremo mai antifascisti».
Pina Picierno, ministro ombra delle Politiche giovanili, dopo aver definito «preoccupante» il documento di Iadicicco afferma: «Non è che l’ennesima testimonianza del fatto che, purtroppo, le coraggiose affermazioni di Fini alla festa dei giovani di An non sono condivise dalla stragrande maggioranza del partito». Soprattutto da quella parte giovane, quella chiamata a costruire il futuro. Evidentemente ancora ancorata al passato.
* l’Unità, Pubblicato il: 16.09.08. Modificato il: 16.09.08 alle ore 18.22