[...] Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi, probabilmente. È Saviano a ricordarlo, in Gomorra a pagina 258, quando evoca don Peppino Diana, ucciso dalla camorra nel ’94: «Pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando» [...]
di Barbara Spinelli (La Stampa, 21/12/2008)
Forse è per le cose che ha detto Gianfranco Fini il 16 dicembre - la società italiana consentì passivamente alle leggi razziali di Mussolini nel ’38; anche la Chiesa s’adattò, nonostante «luminose eccezioni» - che le parole in Italia si pervertono così facilmente e ciclicamente. Non scottano quando dovrebbero scottare, infuocano quando descrivono fatti accertati. Quel che è normale viene esagerato, quel che è irregolare o illegale vien vissuto e presentato come normalità.
Quando nel mondo delle parole si crea sì vasta confusione vuol dire che s’è smarrita la via, che si va in giro come ciechi di notte, che vero e falso si mischiano. Le parole sono un luogo: perdi le coordinate, quando non corrispondono più a nulla. Se i profeti biblici faticano tanto a dirle, se spesso addirittura le fuggono, è perché le vogliono puntuali, attendibili, non manipolabili da chi tende a «proseguire la sua corsa senza voltarsi» (Geremia 8,6).
Non dovrebbe troppo stupirsi, Fini, per l’impermalimento che ha suscitato. Non dovrebbe neppure tranquillizzarsi troppo, come se la patologia non riguardasse anche lui, anche l’oggi, anche i commentatori facili a scrutare i cedimenti passati, meno facili a scrutare i cedimenti presenti.
La «propensione al conformismo» di cui ha parlato, la «vocazione all’indifferenza più o meno diffusa», la complicità «sotterranea e oscura, negata ma presente»: sono vizi del passato che sopravvivono. Lo «stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli italiani brava gente, smontato dal Presidente della Camera, intorpidì le menti nel ’38 e ancor oggi. È quello che più colpisce, nel 2008 che si conclude riaprendo d’un tratto, a destra e sinistra, la questione morale. Se la gente continua a correre senza voltarsi, come priva di bussola, è perché l’Italia non sa guardare dentro di sé e capire quel che ognuno fa, tacendo o restando indifferente.
I tedeschi, che hanno lavorato sulla memoria, sono divenuti eminentemente circospetti, toccano i vocaboli quasi fossero oggetti puntuti e bollenti. Ci hanno messo circa quarant’anni per riavvicinarsi alla parola Vaterland, patria, memori dell’infamia che la sporcò. Tutti gli aggettivi legati a Volk, popolo, li imbarazzano. Non usano l’aggettivo sovversivo, se non in casi limite. Esitano anche davanti ai termini bellici: durante il terrorismo il figlio di Thomas Mann, Golo, parlò di guerra contro lo Stato. La classe politica si ribellò: quella non era guerra ma crimine che non giustificava, come avviene in guerra, stravolgimenti delle leggi repubblicane.
Non così in Italia, dove proprio queste parole - eversione, guerra - s’insediano come ineludibili lasciapassare che creano connivenze di gruppo e son condivise da chi ignora i disastri nati in passato da conformismo o indifferenza. Non sembra esserci ricordo né del fascismo né del terrorismo, quando ci fu eversione contro lo Stato di diritto. Eversivo e sedizioso è chi si ribella all’ordine costituzionale, sovvertendolo.
Quest’aggettivo, lo sentiamo quasi ogni giorno ai telegiornali, proferito dai governanti a proposito del modo di opporsi di Di Pietro, senza che nessuno obietti: Berlusconi non fu criticato con tanta frequenza, quando prese il potere. Di Pietro è confutabile - ogni politico lo è - ma in altre democrazie sarebbe giudicato del tutto regolare. Molto più di chi, pochi anni fa, prometteva di abolire il mercato. Si distinguono per faccia tosta soprattutto gli ex craxiani, che non furono così severi quando auspicarono il negoziato con le Brigate Rosse durante l’affare Moro.
Lo stesso accade con la parola guerra. Quando si parla di guerra tra procure, o tra magistratura e politica, si confondono e oscurano i fatti. Si dimentica quel che spetta ai vari poteri dello Stato. Si ignora che tra procure non c’è stata ultimamente guerra (allo stesso modo in cui non ci fu guerra tra etnie jugoslave, ma aggressione serba contro altre etnie): c’è stata azione legale di una procura chiamata a indagare sia su De Magistris sia su chi a Catanzaro ostacolava De Magistris (i magistrati di Catanzaro, per legge, possono esser indagati solo da quelli di Salerno da cui dipendono). Il Consiglio superiore della magistratura e lo stesso Quirinale avrebbero potuto ascoltare quel che la procura di Salerno riferì due volte al Csm, invece di chiudersi per un anno nella passività.
Il peccato di conformismo è di ritorno perché son rari coloro che in Di Pietro scorgono un politico normale: ben più normale della Lega che ha non solo vilipendiato l’unità nazionale ma sprezzato, minacciando l’uso dei fucili, il monopolio legale della violenza. Sono rarissimi coloro che magari hanno dubbi sull’inchiesta di De Magistris e tuttavia non ritengono che essa dovesse essergli sottratta.
Quel che conformismo e passività fanno con le parole è letale: l’illegale diventa la norma, la norma desta sospetto. Nichilismo è il suo nome, nella storia d’Europa: lo denuncia l’appello del 12 dicembre di Marco Travaglio e Massimo Fini, anche se il loro giudizio sul fascismo è, a mio parere, troppo indulgente. Lo denuncia Roberto Saviano, ieri su Repubblica, quando descrive la corruzione inconsapevole di destra e sinistra; l’assenza nei coinvolti delle inchieste napoletane o abruzzesi della percezione dell’errore e tanto meno del crimine; lo scambio di favori banalizzato; il «triste cinismo» di chi dice: «Tutto è comunque marcio. Non esistono innocenti perché in un modo o nell’altro tutti sono colpevoli».
All’origine di simili vizi c’è una confusione di compiti che spiega il caos linguistico, il discredito della giustizia, infine la concentrazione dei poteri. Non si sopporta che giudici e pm agiscano in autonomia. Sentendosi assediati, essi finiscono spesso col vedere solo i propri problemi. Si vorrebbe che i magistrati non fossero più obbligati a prendere in considerazione qualsiasi denuncia: secondo il ministro Alfano, le priorità date ai procedimenti più urgenti vanno «scelte dal legislatore (cioè dalla politica, ndr) e raccolte direttamente dalla sensibilità dei cittadini». Non si sopporta che l’opposizione faccia l’opposizione, se non collabora col governo.
La confusione s’estende alla scienza, alla medicina, alle vite private. Alla fine non si sopporta neppure che una persona ridotta a stato vegetativo muoia come ha deciso. Se la magistratura ne approva le scelte, l’esecutivo cancella la separazione di competenze e anche qui accentra i poteri. Gli stessi che denunciano lo Stato etico prediletto dai totalitari oggi lo ripropongono. Il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella fa questo, quando difende i veti del ministro Sacconi all’alimentazione interrotta e la violazione di una sentenza esecutiva della Corte d’appello di Milano: il morente in stato vegetativo non ha una sua volontà. È «affidato all’altro anche se avesse testimoniato volontà diverse, anche se l’avesse lasciato scritto». Il giurista Michele Ainis vede un pericolo grande: lo Stato invadente è in realtà vacillante, cede a Antistati (lobby, Chiesa) che lo disfano e su cui il cittadino non ha più influenza.
Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi, probabilmente. È Saviano a ricordarlo, in Gomorra a pagina 258, quando evoca don Peppino Diana, ucciso dalla camorra nel ’94: «Pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando».
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Il silenzio delle sentinelle
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 22.12.2008)
Dovremmo aver imparato in questi quindici anni che, nonostante l’abitudine alla menzogna, Berlusconi non nasconde mai i suoi appetiti. Il sermone di fine anno ci ricorda che la sua bulimia non conosce argini.
Vuole il presidenzialismo come il compimento della sua biografia personale. Non si accontenta di avere in pugno due poteri su tre. Dopo aver asservito il Parlamento al governo, pretende ora che evapori l’autonomia della magistratura. Dice che la riforma della giustizia è pronta e sarà battezzata al primo Consiglio dei ministri del 2009. Anticipa quel che ci sarà scritto: i pubblici ministeri se le scordino le indagini. Diventeranno lavoro esclusivo delle polizie subalterne al ministro dell’Interno, quindi affar suo che governa in nome del popolo. I pubblici ministeri, ammonisce, diventeranno soltanto «avvocati dell’accusa». Andranno in aula «con il cappello in mano» davanti al giudice a rappresentare come notai, o come burocrati più o meno sapienti, le ragioni del poliziotto. Dunque, del governo. Con un colpo solo, si liquidano l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 della Costituzione, «Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge»); l’indipendenza della magistratura (art. 104, «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»); l’unicità dell’ordine giudiziario (art. 107, «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni»); l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 ««Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale»); la dipendenza della polizia giudiziaria dal pm (art. 109, «L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria»).
Soltanto un effetto autoinibitorio può impedire di udire, nelle "novità" di Berlusconi, una vibrazione conosciuta e cupissima. Anche a rischio di indispettire il suo alleato decisivo (Bossi), il mago di Arcore rimuove ? per il momento ? il federalismo dalle priorità del 2009 per rilanciare il castigo delle toghe e la nascita della repubblica presidenziale. Sarà un gaffeur o un arrogante, sarà per ingenuità o per superbia, Berlusconi propone la necessità di una riforma costituzionale con le stesse parole ? e per le stesse ragioni ? di Licio Gelli.
Se non lo si ricorda, davvero «le memorie deperiscono e i fatti fluttuano», come ripete nel deserto Franco Cordero. Appena il 4 dicembre il «maestro venerabile» della P2, intervistato da Klaus Davi, ha detto: «Nel mio piano di rinascita prevedevo la creazione di una repubblica presidenziale, perché dà più responsabilità e potere a chi guida il Paese, cosa che nella repubblica parlamentare manca». Berlusconi, 20 dicembre: «Sono convinto che il presidenzialismo sia la formula costituzionale che può portare al migliore risultato per il governo del paese. L’architettura attuale non permette di prendere decisioni tempestive e non dà poteri al premier».
Fa venire freddo alle ossa il farfuglio dell’opposizione di fronte a questo funesto programma da realizzare presto (si annotano soltanto parole che dicono d’altro). E’ un silenzio che lascia temere o lo stato confusionale di opposizioni ormai assuefatte al peggio o un’altra letale tentazione di quella commedia bicamerale che, senza sfiorare il conflitto di interessi, concesse al mago di Arcore l’impero mediatico e, in nome del primato della politica sulla giustizia, la vendetta sulla magistratura. Dio non voglia che, con il prepotente ritorno al proscenio di qualche campione di quel tempo, la stagione si rinnovi. In una giornata di sconcerto, sono così un balsamo le parole di Giuseppe Dossetti, padre della Costituzione e dello Stato poi fattosi monaco (le ha ricordate ieri Filippo Ceccarelli). Vale la pena tornarci ancora su.
In memoria del suo grande amico Giuseppe Lazzati, e in coincidenza della prima vittoria delle destre, Dossetti pronuncia un discorso famoso. Il titolo lo ricava da un salmo di Isaia (21,11) «Sentinella, quanto resta della notte?». In quei giorni del 1994, egli vede affiorare un male diagnosticato con molti anni di anticipo: la supremazia di una concezione individualistica, in cui il diritto costituzionale regredisce a diritto commerciale (il primato del contratto, l’eclissi del patto di fedeltà); il dissolversi di ogni legame comunitario, mascherato dietro l’appello al "federalismo" (il "politico" diventa pura contrattazione economica); il rifiuto esplicito di una responsabilità collettiva in ordine alla promozione del bene comune (la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole sino alla riduzione al singolo individuo). Non si può sperare, dice Dossetti e parla ai cattolici, che si possa uscire dalla «nostra notte» «rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la Chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (la politica familiare, la politica scolastica)».
Dossetti non nega la necessità di cambiamenti. Elenca: riforma della pubblica amministrazione; contrasto alle degenerazioni dello Stato sociale; lotta alla criminalità organizzata; valorizzazione della piccola e media imprenditoria; riforma del bicameralismo; promozione delle autonomie locali. Teme però riforme costituzionali ispirate da uno «spirito di sopraffazione e di rapina». «C’è ? avverte ? una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Questa soglia sarebbe oltrepassata da ogni modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dalla Costituzione. E così va pure ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per l’avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo ancorché fosse realizzato attraverso referendum che potrebbero trasformarsi in forma di plebiscito».
I referendum, segnati da «una forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore», possono trasformarsi infatti «da legittimo mezzo di democrazia diretta in un consenso artefatto e irrazionale che appunto dà luogo a una forma non più referendaria ma plebiscitaria». Il "padre costituente" denuncia senza sofismi quel che vede dietro la «trasformazione di una grande casa economico-finanziaria in Signoria politica». Vede la nascita, «attraverso la manipolazione mediatica dell’opinione», di «un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea». Dossetti chiede allora ai cristiani di «riconoscere la notte per notte» e di opporre «un rifiuto cristiano» ritenendo che «non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa».
Nessuna trattativa. Per trovare queste parole che aiutano a sperare ancora in una via diurna, si deve ricordare Dossetti. Dove sono le "sentinelle" a cui si può chiedere oggi: «Quanto resta della notte»?