Se il Sud fosse uno Stato indipendente, sarebbe il più povero dell’Unione europea?
Questa affermazione è comparsa alla fine di agosto 2005 sulla rivista scientifica internazionale Plus Medicine da una indagine statistica effettuata da due ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano, Rita Campi e Maurizio Bonati, i quali da anni raccolgono gli indici sulle condizioni socio-sanitarie di bambini e adolescenti. Costoro hanno fatto risultare che vi è una enorme disuguaglianza tra Nord e Sud e, disaggregando i dati delle singole regioni, hanno tratto la conclusione che, se si considerasse il Sud come uno Stato indipendente all’interno dell’Unione Europea, sarebbe il più povero.
I dati da cui hanno tratto le loro conclusioni riguardano però solo la mortalità infantile, che risulta quattro volte superiore al resto d’Italia, e l’ospedalizzazione: "Oltre il 22% dei piccoli pazienti della Basilicata e del Molise, e oltre il 13% di quelli calabresi e abruzzesi deve ricorrere a ospedali del Centro-Nord. Una vera e propria migrazione sanitaria". L’affermazione, presentata poi con l’immagine suggestiva di un eventuale "Sud-Stato indipendente", sembra voler accreditare ai meridionali una incapacità congenita di realizzare una sufficiente condizione socio-sanitaria. I dati esposti, invece, mostrano che lo Stato italiano - la Sanità è ancora di sua competenza e il Sud fa parte di questo Stato, almeno di nome - ha destinato al Sud meno risorse, come del resto fa con tutto, per soddisfare prima di tutto gli interessi dei gruppi finanziari del Nord.
L’idea di un Sud come Stato indipendente all’interno dell’Europa è, tuttavia, da prendere in considerazione in quanto è vero proprio il contrario: un Sud indipendente sarebbe ai primi posti in Europa. Come lo eravamo circa 145 anni fa. E vediamo perché.
Bisogna partire prima di tutto dalla definizione di Stato. Cos’è lo Stato? Al di là delle scolastiche definizioni giuridiche lo Stato altro non è che uno strumento usato per organizzare il popolo e il territorio su cui il popolo è stanziato. Lo Stato, inoltre, per poter funzionare, deve essere sovrano, non deve cioè, nelle sue scelte politiche e amministrative, dipendere né essere condizionato da altri.
Le persone che dirigono l’organizzazione dello Stato sono i politici che si qualificano in genere di "destra" o di "sinistra", termini che però non hanno alcun significato reale. I politicanti fanno basare i movimenti politici su ideali seducenti, escogitati per catturare i consensi delle masse popolari facendo prospettare miti simbolici ben collaudati da secoli: patriottismo, nazionalismo, socialismo, lotta al terrorismo ecc., oppure, con l’inganno, promettendo vantaggi futuri (posti di lavoro, aumento del reddito, previdenza, ecc.), oppure instaurando un fiscalismo opprimente con la promessa di abbassarne i prelievi, oppure con la complicità di gruppi organizzati di elettori (lobby) che, in cambio del voto, ne ricavano vantaggi illeciti.
Strumento essenziale, per lo sviluppo del popolo e per far funzionare l’apparato statale, è il denaro. Il denaro, come si sa, è fatto con carta stampata e metallo coniato. Esso ha la funzione di permettere gli scambi commerciali e di retribuire il lavoro prestato.
Attualmente è usato l’Euro che non ha alcun valore intrinseco. Il suo valore, infatti, non è basato su corrispondenti riserve di metallo pregiato o altro tipo di beni, ma semplicemente sul fatto che viene accettato e scambiato di comune accordo da tutti. Naturalmente la quantità di Euro in circolazione deve essere in armonia con la situazione dell\’economia e della produzione (PIL, cioè il Prodotto Interno Lordo) altrimenti ne scaturirebbe "inflazione" (l’eccessivo denaro in circolazione verrebbe svalutato e servirebbe più denaro per acquistare lo stesso prodotto) oppure "deflazione" (poco denaro in circolazione e relativa diminuzione dei prezzi, situazione che comporterebbe contrazione dell’economia e della produzione con conseguente disoccupazione).
Chi allora deve avere il compito di stampare e coniare denaro? Con tutta certezza non può essere che lo Stato che, come abbiamo visto, è lo strumento sovrano del popolo per organizzare la sua vita. Ovvio quindi che esso non possa essere prodotto direttamente dai cittadini: il denaro non avrebbe alcun valore perché la quantità immessa nel mercato sarebbe fuori controllo.
Il denaro è, dunque, il pilastro fondamentale per la vita di un popolo e del suo Stato. Lo Stato tra i suoi compiti deve anche prevedere la sorveglianza delle banche commerciali e di fissare periodicamente il tasso ufficiale di sconto (cioè il costo del denaro dato in prestito alle banche commerciali). Insomma, tutto e tutti dipendono dal denaro.
Eppure in Italia, dall’Unità fatta nel 1861, ad opera del "padre della patria" Cavour, lo Stato fu esautorato della sovranità di emettere denaro, con l’affido ad un ente privato la Banca Nazionale piemontese, cioè a quella che - attraverso vicende quasi sempre molto sporche, es. furto delle riserve in oro di dollari e sterline dei Banchi di Napoli e di Sicilia in epoca fascista - attualmente è la Banca d’Italia. I proprietari della Banca d’Italia sono banche private (85%), assicurazioni (10%) e altri proprietari minori. In pratica la Banca d’Italia, creando dal nulla il denaro con la sola stampa e conio, lo "presta" poi allo Stato che, per svolgere le sue funzioni, resta assurdamente indebitato (Debito Pubblico) con un privato. Cosa che non avverrebbe se lo Stato, per suo sovrano diritto-dovere, il denaro se lo stampasse esso stesso e lo distribuisse ai cittadini che ne sono naturalmente i proprietari.
Un assurdo così enorme, così grande, che nessuno riesce a vederlo. Una truffa gigantesca ben congegnata: essa consente agli azionisti della Banca d’Italia di arricchirsi non solo con la "restituzione" del debito da parte dello Stato, ma anche di farsi pagare gli interessi (tasso di sconto) su denaro non suo. Solo che il denaro che torna indietro alla Banca è denaro vero perché è frutto del lavoro e dei sacrifici dei cittadini.
Ma ci sono anche altri che ci guadagnano da questa assurda situazione: quelli che amministrano lo Stato. I politici, che formano i governi e i vari apparati dello Stato, maneggiando l’enorme flusso di denaro che lo Stato preleva dai cittadini con imposte e tasse, si arricchiscono anche loro concedendosi stipendi favolosi per fare concessioni ai cittadini, per comprare voti, ecc., anche a scapito dell’efficienza economica e amministrativa dello Stato. In proposito si può ricordare il governo di Aldo Moro che per istituire l’ENEL col pretesto di "dare la luce a tutti" comperò le azioni della S.I.P. (Società Idroelettrica Piemontese) per una somma pari a 100.000 miliardi di lire, un enorme esborso del tutto inutile perché le concessioni demaniali degli impianti idroelettrici stavano per scadere e, quindi, le azioni avrebbero a breve perso valore. Quell’enorme cifra fu praticamente tolta per decenni allo sviluppo e alla costruzione di infrastrutture del Sud e servì a finanziare lo sviluppo tecnologico della S.I.P. che passò alla telefonia. Risultato di tale operazione: l’energia elettrica in Italia costa più che in tutti gli altri Stati europei. L’operazione fu una delle tipiche truffe del Nord, ma nessuna formazione politica è andata al fondo della faccenda: nessuno aveva interesse a sputare nel truogolo della gozzoviglia.
Il silenzio dei politici meridionali, in proposito, è stato tombale, come sempre. Addirittura essi ritengono che se il Sud diventasse indipendente non sarebbe in grado di sopravvivere e numerosi sono quelli che si affannano a difendere l’unità, il risorgimento e osannano il Garibaldi. Eppure quando ho definito costui, in altri miei articoli, ladro, assassino e primo artefice del degrado meridionale, nessuno mi ha dimostrato il contrario. E c’è ancora qualcuno nel Sud che vuole intitolare a lui un teatro a Gallipoli. Sindrome di Stoccolma? Una cosa è certa: con gente così davvero il Sud non andrà da nessuna parte. Insomma lo Stato viene usato come esattore da parte della Banca d’Italia con la connivenza dei politici, i quali usano anch’essi lo Stato come strumento per arricchirsi. Naturalmente non tutti i politici sono consapevoli e conniventi di quanto avviene, ma certamente costoro sono di una inammissibile e colpevole ignoranza.
Con questo sistema, essendo lo Stato privo di sovranità e usato come strumento truffaldino, non si può dire, dunque, che in Italia esista uno Stato vero, ma solo il suo simulacro. Da questa colossale truffa a danno del popolo, iniziata con i Savoja per "fare l’Italia unita" e continuata con la complicità di tutti i governi fino ad oggi, si può scientificamente affermare che la Banca d’Italia (oggi la BCE) è la vera detentrice del potere, perché essa, appropriatasi della facoltà di stampare denaro, tiene sottomesso il potere politico che "non vede e non sente" pur di stare ben avvinto alla sua greppia.
Basti, in proposito, ricordare il fatto che nessun politico si permise di "chiedere la testa" del Governatore della Banca d’Italia nel 1992, per aver costui fatto perdere allo Stato, cioè a tutti noi italiani, oltre settantamila miliardi per aver ritardato di due settimane la svalutazione della lira - svalutazione ormai certa di circa il 30% - a vantaggio di speculatori internazionali. Eppure questo genio della finanza fu fatto Ministro dell’Economia (ma si era laureato in Lettere alla Scuola Normale di Pisa), Primo Ministro e Presidente della Repubblica. Naturalmente il tutto sempre ammantato del glorioso risorgimento, dell’unità della patria, dell’inno nazionale e dello sventolare di bandiere tricolori e giacobine. Che bello, che bello!
Con l’istituzione dell’Euro, la Banca d’Italia stampa ancora carta moneta, ma su concessione della Banca Centrale Europea con sede a Francoforte, anch’essa privata (azionisti sono i soci privati delle varie banche nazionali, anche dell’Inghilterra che, pur non essendo entrata nel sistema Euro, detiene tuttavia il 14% delle azioni, e, quindi, degli utili). La concessione comporta ovviamente un elevato addebito non motivato. Contro il costo di stampa di 0,03 centesimi la BCE pretende 2,50 Euro ogni cento, ovviamente scaricati sullo Stato italiano, pagatore finale, cioè su tutti noi.
L’Unione Europea, è, in sostanza, una unione di banche senza un Governo supervisore. Uno Stato europeo, infatti, non esiste. Cosicché i governanti dei vari Paesi europei usano ora il loro Stato nazionale come esattore della Banca Centrale, la cui greppia è ben più abbondante di quella nazionale e con meno vincoli per l’assenza di un Governo centrale di tutela.
Tra l’altro la BCE consente continuamente di emettere più denaro del necessario (circa il 5% all’anno), cosicché questo surplus, innescando un processo inflattivo, fa diminuire il valore della moneta. Questo ha l’effetto di una tassa indiretta per i popoli e arricchisce silenziosamente i soci della BCE perché i cittadini e le imprese, causa la forzata svalutazione strisciante, sono spinti a chiedere più denaro alle banche in un’infernale spirale senza fine. Se la BCE non stampasse una quantità eccessiva di Euro non esisterebbe inflazione. L’inflazione è causata di proposito.
Fazio, rimasto attaccato alle concezioni "nazionali" della Banca d’Italia ancorate al periodo della Lira, è stato allontanato perché dava fastidio: "non aveva capito" che era passato il tempo di fare gli "interessi" nazionali, bisognava ora fare quelli "europei".
Una truffa talmente enorme che si fa fatica a vederne i contorni. Il popolo infatti non se ne accorge, anche perché nessun politico ne parla. Se ne guardano bene. Costoro, interessati a mantenere questo sistema truffaldino, mentono nei pubblici dibattiti in modo spudorato: così la gente crede e si adatta alla situazione ritenendola reale e legittima. Da tutti si ritiene, infatti, giusto pagare il debito pubblico e che partecipare alle elezioni sia doveroso per poter scegliere al meglio i politici e i partiti onde "essere meglio amministrati per lo sviluppo della vita nazionale". Nessun programma televisivo è più seguito di quelli in cui c’è un dibattito politico: ma gli spettatori non si rendono conto che è solo una messa in scena (magari anche "combinata" tra gli opposti schieramenti). Un ben collaudato meccanismo psicologico, il cosiddetto "teatrino della politica", che cattura le passioni e il consenso popolare col risultato di nascondere l’enorme truffa dietro celata.
I popoli europei sono ormai ridotti a semplice gregge, particolarmente quelli del Sud-Italia, da tosare il più possibile per far arricchire i gruppi finanziari che dominano i governi. Questi, servi delle banche, aumentano tasse e tributi con l’ingannevole pretesto dell’inflazione. Invece è vero esattamente il contrario: l’aumento dei balzelli serve solo a produrre deflazione (cioè a far diminuire la quantità di denaro circolante che causa l’aumento dei costi). Così gli imprenditori sono costretti a chiedere denaro in prestito alle banche, che si arricchiscono ancora di più, mentre aumentano fallimenti e povertà. Per questo, il cosiddetto Debito Pubblico non verrà mai cancellato. È un collaudato meccanismo che fa guadagnare la BCE e i politici (Destra, Sinistra o Centro non fa alcuna differenza: sono tutti d’accordo).
Prima che arrivassero i "liberatori" piemonteso-savojardi il Regno delle Due Sicilie aveva una economia del tutto diversa. Il denaro veniva stampato (fedi di credito) e coniato direttamente dallo Stato. Non esisteva un "Debito Pubblico" inquinato dal pagamento di tasse a favore di una Banca privata. Il Banco delle Due Sicilie era una banca di Stato e il suo "Debito Pubblico" era fisiologico, dovuto in genere alle pochissime tasse che servivano solo a pagare i servizi che lo Stato effettivamente forniva al popolo. Il Regno delle Due Sicilie era la terza potenza economica in Europa, situazione resa visibile dall’elevata rendita sulla piazza di Parigi.
Il sistema attuale è dunque così organizzato: a) lo Stato italiano è privo di sovranità (tra l’altro è anche occupato da truppe straniere) ed è usato per soddisfare gli interessi dei gruppi finanziari italiani e stranieri; b) le lobby italiane, tutte del Centro-Nord, sfruttano il Sud come una colonia interna in cui vendere i loro prodotti e servizi. Ovviamente esse impediscono qualsiasi sviluppo che potrebbe rivelarsi pericoloso concorrente del Nord, ad esempio eliminare a qualunque prezzo la Banca del Salento, rea di aver avuto l’audacia di aprire due sportelli in due zone centralissime di Milano, uno in Stazione Centrale, l’altro in piazza Diaz a due passi dal Duomo. Da ricordare anche la compagnia S. Paolo che, sfruttando il nome del Banco di Napoli, succhia i risparmi del Sud per versarli a Torino con la vergognosa complicità della classe dirigente e politica meridionale. Bisognerebbe impedirle almeno di usare il nome Banco di Napoli! Ma tanto è inutile: ci circuirebbero comunque come stanno facendo ora con l’istituzione della Banca del Sud. Carpendo la "buona fede" del principe Carlo di Borbone, lo hanno messo a simbolo di questa Banca per attirare gli ingenui terroni. Quello che sorprende sempre (e sgomenta) è il vedere con quanta facilità questi polentoni ci impongono tutto ciò che vogliono e senza neanche nasconderlo più di tanto. Vedrete quanti imbecilli adopereranno questa Banca del Sud (o del Mezzogiorno)!
È intuitivo comprendere, dunque, che, se il Sud tornasse indipendente, basterebbe il solo fatto di liberarsi dei parassiti nordisti e stampare in proprio armoniosamente il denaro che serve per avere un immediato sviluppo sociale ed economico, come avveniva prima di questa stramaledetta e truffaldina "unità d’Italia".
Un esempio classico in proposito è rappresentato dalle colonie della Nuova Inghilterra in Nord America: i coloni nel XVII secolo emisero direttamente una propria moneta, chiudendo per sempre con la Banca d’Inghilterra. Si ebbe immediatamente uno sviluppo prodigioso, ma quando il preoccupato Parlamento inglese impose nel 1763 l’obbligo di usare per le transazioni commerciali solo la moneta inglese stampata dalla privata Bank of England, gravata da interessi, vi fu subito recessione e migliaia di disoccupati. Fu per tal motivo che scoppiò la guerra d’indipendenza americana e nacquero gli Stati Uniti. In seguito, però, anche nel nuovo Stato le banche, con subdole manovre, ripresero il loro predominio "prestando" denaro allo Stato. Vi furono tre Presidenti che cercarono di contrastarle ripristinando il denaro come proprietà dello Stato, ma furono tutti e tre assassinati: Abraham Lincoln (nel 1865), per aver fatto stampare dollari di Stato (Greenbacks); James A. Garfield (191 3), per aver denunciato il dominio dei banchieri sulla Federazione; John F. Kennedy (1963), per aver emesso banconote di Stato, subito ritirate dopo la sua morte. Altro esempio dei nostri giorni è la Cina che sta superando impetuosamente le economie mondiali. Il motivo consiste proprio in questo: la Cina ha una Banca di Stato e non una Banca Centrale privata! La Cina stampa direttamente il denaro che le serve e non lo chiede in prestito a nessuna banca privata! Non è affatto vero, come ci vogliono far credere, che il lavoro cinese costi poco perché gli operai mangiano un pugno di riso: la Cina si è sviluppata e continua a svilupparsi a ritmi impensabili perché non le gravano addosso i parassiti che le succhiano il sangue, come quelli che affliggono il nostro Sud.
Se, dunque, riuscissimo ad avere un nostro Stato, stampando noi il denaro che serve, noi avremmo sostanziali benefici in ogni campo. Potremmo costruire le infrastrutture che ci hanno sempre negato col pretesto assurdo che mancano i capitali (è come dire che non si possono fare strade perché mancano i chilometri). Potremmo produrre a basso costo in competizione con tutto il mondo. Potremmo avere un sistema sanitario tra i più avanzati. Potremmo avere la piena occupazione senza dover più emigrare. Infatti, il denaro emesso direttamente dal nostro Stato, cioè dal popolo, non gravato da interessi passivi, potrebbe essere utilizzato senza ostacoli e stimolerebbe la produzione e conseguentemente l’occupazione. Inoltre, cosa importantissima, non si avrebbe né inflazione, né deflazione. Lo dimostra il ducato duosiciliano che non aveva mai perso di valore nei 126 anni di Regno borbonico.
Antonio Pagano
Le Due Sicilie
Tra i potenti e la povera gente
Il ruolo storico e le divisioni della chiesa cattolica in Sicilia dopo l’unità d’Italia
di Carlo Ruta
Quando, il 20 settembre 1870, cadde Roma, e con essa l’ultimo tassello dello Stato Pontificio, entrava nel vivo una questione condizionante, in grado di competere, per certi versi almeno, con quella meridionale, che pure andava assumendo caratteri tipicamente militari, e con quella sociale, avvertita già a tutti i livelli. Da allora, i governi sabaudi, che si erano trovati nella necessità di attingere alle risorse della Chiesa per saldare i deficit dei bilanci di Stato, dovettero fare i conti fino in fondo con le tradizioni del paese reale, che, a dispetto del dilagante anticlericalismo, insistevano a trovare punti di forza nell’autorità morale dei campanili, delle parrocchie, delle diocesi, lungo tutto il territorio nazionale. La determinazione non venne meno, beninteso. Da vincitore, e da Stato laico, il regno sabaudo continuò a fare le regole, mentre la Chiesa dei pontefici, non più garantita dalla Francia di Napoleone III, reduce della mortificazione inferta da Bismarck a Sedan, si ritrovò confinata in uno spazio ristretto, nei palazzi vaticani, da cui dovette abituarsi a recitare la parte della grande sconfitta. Essa scelse, come è noto, l’ostilità strategica, che Pio IX sintetizzò nella formula del non-expedit, con cui veniva motivata l’inopportunità della partecipazione del clero alla vita politica del paese. Il Tevere divenne allora un fossato profondo, fino ad apparire insuperabile. E tale processo, di scollamenti e discordie, seguì in Sicilia un percorso coerente, legato nondimeno alle tipicità di alcune tradizioni.
Il clero dell’isola non era nuovo alle mortificazioni del potere pubblico, recando dietro un lungo iter di contenziosi, più o meno irrisolti. La nota «controversia liparitana» aveva fatto in qualche modo scuola. Aveva costituito comunque uno shock epocale, negli anni settanta del XVIII secolo, la confisca dei beni ecclesiastici pianificata da Napoli dal primo ministro Tanucci e condotta localmente dal vicerè Fogliari. Era stata, allora, la risposta dei Borboni al debordante potere economico che in Sicilia avevano acquisito in particolare i gesuiti, detentori, con altri ordini religiosi, di un terzo della intera superficie agraria. Nei decenni successivi la Chiesa siciliana aveva recuperato comunque il terreno perduto, per presentarsi negli anni clou dell’unificazione con un patrimonio cospicuo, indisponibile alle esigenze demaniali e dei ceti emergenti. La situazione dopo il 1861, agitata appunto dalle ideologie e dalle culture anticlericali, ma pure da bisogni del Tesoro, progredì quindi nella direzione sperimentata dai Borboni di Napoli. Gli effetti del decreto regio del 1867, che aboliva gli enti morali della Chiesa e ne confiscava i patrimoni, furono nell’isola non da poco. I beni delle diocesi finirono all’asta, per essere assunti infine da un ceto distinto, di estrazione borghese, che aveva partecipato in buona misura all’insurrezione e alle guerre garibaldine. Avrebbe potuto essere l’incipit di una rivoluzione agraria. Ma le cose andarono diversamente. Prevalse il principio della conservazione, mentre progrediva, negli ambiti stessi di quel notabilato, in bilico fra istanze democratiche e vecchie aristocrazie, una leva d’«ordine», di facinorosi, di cui per primo Raimondo Franchetti seguì i movimenti. Ma come reagì la Chiesa siciliana alla nuova umiliazione?
Coordinandosi con le difficoltà del tempo, il clero adottò, in via generale, una linea minimalistica. Ritiratasi dalla politica e dagli affari di Stato, la Chiesa scelse di correlarsi con la vita reale, delle città e delle campagne, occupando gli spazi sociali che, per via delle nuove contingenze, erano ancora preclusi allo Stato sabaudo, che d’altronde, prima da Torino, poi da Firenze, infine da Roma, imponeva la propria autorità con l’attivismo, più o meno truce, dei prefetti. A dispetto di tutto, essa continuò a interessarsi dell’educazione dei ragazzi. La legge Casati del 1859, che laicizzava l’istruzione, se aveva escluso infatti l’insegnamento religioso dalle scuole superiori, lo manteneva in quelle elementari. Per alcuni limiti formali in sede legislativa, la situazione rimaneva tale d’altronde dopo il varo della riforma Coppino del 1877. Come bene avrebbe rilevato Gramsci, la chiesa cattolica, forte del proprio radicamento, tanto più nel Mezzogiorno rurale, era legittimata comunque a rappresentare il mondo contadino, in condominio con il nascente socialismo. Se nella prassi politica le ragioni laiciste rimanevano allora preponderanti, sul terreno sociale, il prete, il vescovo, altre figure del clero, rimanevano essenziali. E soprattutto a quel punto in Sicilia come altrove, il mondo cattolico, fu indotto a coinvolgersi nelle questioni, a dividersi quindi, fino a rivelare due anime, compatibili e tuttavia distanti.
Da una parte si manifestava una Chiesa liturgica, che associava la tradizione al censo, il latinorum alle istanze dei potentati territoriali. Era già in cammino, evidentemente, la Chiesa che avrebbe prevalso nel primo Novecento, dagli anni del fascismo al dopoguerra. Dall’altro lato si poneva in gioco il cattolicesimo sociale, quello della povera gente, che con poche risorse ma con princìpi irrinunciabili avrebbe scortato le emergenze del secolo e di quello successivo. Con l’enciclica Rerum Novarum, Leone XIII cercò di trovare un punto di mediazione tra tali due realtà, riconoscendo legittimità alla questione operaia, mentre in Sicilia, da Caltagirone, il prete Luigi Sturzo maturava l’idea di un movimento politico, che chiamasse in causa la questione meridionale, facendo leva sul mondo contadino, attraverso gli strumenti della cooperazione, delle casse rurali, per combattere l’usura, dell’associazionismo. Negli anni della Destra come in quelli della Sinistra la questione contadina andò giocandosi in ogni caso nelle città, nelle borgate, nelle campagne, talvolta con effetti clamorosi, come quando, sotto il governo Crispi, la crisi economica, accentuata dalla guerra commerciale con la Francia e dalla diffusione della fillossera, che già negli anni ottanta aveva distrutto gran parte dei vigneti siciliani, fece erompere i bubboni del latifondo e delle miniere di zolfo. Le due linee del mondo cattolico emergevano allora con perentorietà.
I Fasci dei lavoratori, che percorsero la Sicilia nei primi anni novanta, non coinvolsero solo contadini ed operai sensibili alle dottrine socialiste. Nelle piazze e nelle campagne, dove si manifestava contro le vessazioni feudali, con naturalezza i ritratti di Garibaldi e Mazzini venivano coniugate con le icone di Cristo e perfino dei santi patroni. Si trattava appunto del cattolicesimo più in basso, che, a dispetto di tutto, cominciava a interloquire con le associazioni socialiste. Altro fu invece l’atteggiamento del clero ufficiale, che in quasi tutte le diocesi censurò in modo emblematico il movimento, prendendo le difese dei latifondisti e dei proprietari di zolfare. In un primo momento il vescovo di Caltanissetta Giovanni Guttadauro dimostrò un qualche riguardo per le rimostranze popolari, ritenendo che non se ne potessero dissimulare le cause. Ma nel 1894, quando la repressione di Crispi chiudeva i conti con i Fasci, con il risultato di oltre 150 morti, precisò la propria opinione, affermando che le plebi erano state illuse «da istigatori malvagi e da ree dottrine». E in modo analogo si espressero altri prelati, dal vescovo di Noto Giovanni Blandini, che definì «stoltizia» l’aspirazione a una distribuzione equa dei beni, al cardinale di Palermo Michelangelo Celesia, che si congratulò di persona con commissario regio Roberto Morra di Lariano, pianificatore delle stragi che posero fine al movimento.
Negli anni successivi il cattolicesimo dal basso continuò a operare in difesa della dignità umana. Nei primi decenni del Novecento ebbe pure i suoi morti, come Giorgio Gennaro, ucciso a Ciaculli nel 1916, Costantino Sella, ucciso a Resuttano nel 1919, Stefano Baronia, ucciso a Gibellina nel 1920. Introdottasi nel nuovo ordine di cose, la Chiesa ufficiale assumeva invece lo status di potere fra i poteri, con la sanzione dei Patti Lateranensi. La continuità di tale status negli anni della repubblica fu poi un esito congiunto del ceto politico guidato da De Gasperi e delle gerarchie di Pio XII. Alla guida dell’arcidiocesi di Palermo finiva a quel punto il cardinale Ernesto Ruffini, secondo cui la mafia era solo un’invenzione per colpire la DC e i siciliani. Con l’avvento di Giovanni Roncalli e con i percorsi della Chiesa post-conciliare pure nell’isola si sarebbe aperto comunque il tempo delle rettifiche.
L’Unità nazionale in pericolo
di Giorgio Ruffolo (la Repubblica, 09.09.2009)
Altri grandi paesi europei non celebrano la loro unità. Per alcuni è troppo remota per avere un significato attuale. Altri come la Francia preferiscono celebrare il loro più grande conflitto storico: la rivoluzione. Tutti considerano l’unità come un fatto acquisito che non ha bisogno di essere celebrato. Per noi non è così. Perciò finiremo per celebrarla controvoglia.
Il fatto è che l’unità italiana è scarsamente sentita dagli italiani. Lo testimonia la svogliatezza con la quale l’attuale governo, pur pressato dal Presidente della Repubblica, ha abbandonato le celebrazioni ormai prossime del centocinquantesimo anniversario alla fantasia burocratica e dissipatrice di Regioni e Comuni. Né maggiore interesse è dimostrato dall’opposizione.
Solo una minoranza politica, diciamo la verità, coltiva il mito del Risorgimento. Per la maggioranza Mazzini e Garibaldi fanno parte del folklore domestico, non certo di una salda coscienza patriottica. C’è anche chi, come un giovane e intelligente studente, addirittura se ne vergogna pubblicamente. E in effetti ragioni, se non di vergogna, di grande perplessità non mancano sul modo in cui quell’unità fu raggiunta: tra l’altro, in forme impreviste e persino indesiderate dai suoi protagonisti.
Tra questi il suo massimo artefice, Cavour, l’aveva fin quasi al suo compimento definita una "sciocchezza" restando all’ipotesi del "Belgio grasso" al Nord e di un Regno del Mezzogiorno al Sud, con una mediazione pontificia al centro: il tutto nell’ambito, al massimo, di una lasca confederazione.
È vero dunque che l’unificazione politica del Paese fu il risultato di una conquista sabauda, non di una patriottica intesa. Se poi si vuole infierire, fu anche il risultato di umilianti sconfitte militari. Ma due cose non sono vere.
La prima è che manchi all’unità del Paese la sua base storica. L’Italia si riconosce non solo nella pizza, nel gioco del pallone e nell’autocompiacenza amatoria, ma in una grande lingua e in una grandissima civiltà. La seconda è che il Risorgimento non fu soltanto conquista effimera e frutto di fortunose sconfitte. Fu anche movimento di popolo. Ci fu certamente il Risorgimento freddo, ma ci fu anche un Risorgimento caldo, fiammeggiante nelle giornate di Milano e di Brescia, nella repubblica romana, nella resistenza di Venezia, nell’avventura garibaldina.
Non soltanto. Contrapposto alla storia che inopinatamente si realizzò, il Risorgimento fu anche un grande disegno alternativo fallito ma ancora oggi carico di significato. Fu il progetto di una Federazione nella quale le realtà storiche del Paese, così ricche di irriducibile "personalità", costruissero, sulla base di una loro gelosa autonomia, una cangiante e meravigliosa unità.
Questo era il grande disegno di Cattaneo, di Salvemini, di Dorso. Un federalismo unitario, come tutti gli autentici federalismi vittoriosi, da quello americano a quello svizzero a quello tedesco. Unitario e patriottico. Niente da spartire con un leghismo protezionistico, tendenzialmente separatista e desolantemente, caro ragazzo, bigotto.
Questo grande disegno alternativo risultò sconfitto con grave danno dell’intero Paese al quale veniva a mancare la dorsale di sostegno: l’integrazione tra il Nord e il Sud d’Italia.
Ciò che ancora i "belgi" del Nord non hanno capito è la diversità sostanziale tra la questione meridionale e quella settentrionale. Quest’ultima è la sacrosanta espressione di interessi locali e di culture specifiche da tutelare. La prima invece è la colonna vertebrale dell’intero Paese.
Ecco perché i grandi meridionalisti hanno sempre mantenuto le distanze da un sudismo becero: hanno parlato non a nome di Palermo e di Napoli, ma dell’Italia e dell’Europa.
La prima vittima della soluzione unitaria-autoritaria è stato proprio il meridionalismo. All’ombra di quella la questione meridionale si è sbriciolata in una poltiglia di pretese locali; la classe politica si è decomposta in una serie di consorterie clientelari; il disegno dell’intervento straordinario, concepito inizialmente come grande progetto unitario di scala nazionale si è sminuzzato in una serie di interventi particolari esposti alle sollecitazioni e pressioni "private".
La tremenda minaccia che si addensa oggi sul Mezzogiorno non è più, come Gramsci denunciava, l’asservimento del Sud agli interessi dominanti del Nord. La depressione politica del Mezzogiorno non si identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borghesia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa e nello scambio elettorale tra la garanzia politica che essa assicura al governo centrale e le risorse finanziarie che ne riceve e che gestisce come un gigantesco "pizzo" attraverso i governi locali.
La "tremenda minaccia" è che il governo di quelle risorse sfugga anche a quella intermediazione e cada direttamente nelle mani delle grandi reti della criminalità internazionale.
Non accade già in certe regioni del Sud?
Queste domande ripropongono a centocinquant’anni di distanza il problema dell’unità d’Italia. Non è mai troppo tardi.