Laboratorio di giornalismo

di Antonello Orlando - Il Sapere senza baroni e fazioni

lunedì 27 marzo 2006.
 

Il sapere. Detto così sembra una cosa così rotonda ed unitaria da fare invidia ad un blocco di marmo. Se invece andassimo sotto la scorza di una definizione superficiale scopriremmo una serie di moti convettivi che non conoscono pace e frantumano ogni parvenza di solidità. Ma arriviamoci per gradi: se al liceo si è costretti ad avere a che fare con materie più che eterogenee e a versare il proprio tempo in campi molto diversi fra loro, questo meccanismo, salvo rare eccezioni, viene perso del tutto quando si varca la soglia di un qualsivoglia ateneo salendo anno dopo anno i gradini di una torre eburnea che cambia di forma ma non di sostanza. E col tempo si perde sempre più contatto con i rami del sapere che sono estranei al proprio ambito ristretto di competenza; e questo, tutto sommato, potrebbe anche essere accettabile: non esistono né dovrebbero esistere dei tuttologi enciclopedici che mostrino proprietà di linguaggio in ogni occasione.

Allo stesso tempo per sua natura l’uomo è portato a pensare di avere trovato nel suo percorso il linguaggio, le formule o l’ottica entro cui esaurire l’intero universo. Un filosofo verrebbe difficilmente distolto dalla convinzione intima e forse inconscia di avere capito le cause ultime che fanno girare il nostro pianeta. Forse la sua presunzione è tanto diversa da quella di un astrofisico? Parlano indubbiamente un linguaggio differente ma pretendono di arrivare alla stessa meta. Prendete un ingegnere civile o Quinto Orazio Flacco, fate costruire un palazzo al primo o una poesia all’altro. Scoprirete che la loro ambizione sarà della stessa fibra: vi diranno entrambi che hanno costruito un monumento più duraturo del bronzo, certo magari Orazio ne ha ricavato un’ode che è sopravvissuta duemila anni ma questo è un altro discorso, per di più piuttosto fazioso per chi scrive.

Se per assurdo si ammucchiassero in unico luogo tutte le pubblicazioni accademiche degli ultimi vent’anni di una sola disciplina si avrebbe una mole di conoscenze impressionanti. Ma il mondo va al di là dei nostri ragionamenti troppo piccini e ci dissemina di avvisi lungo la strada, proprio per non permetterci di cadere in simili illusioni dandoci continui strattoni per farci tornare alla realtà.

E qui si apre una lista di eventi molto significativi. All’ombra del Vesuvio la ridente cittadina di Pompei sembrava rappresentare la sicurezza dell’impero romano al massimo del suo splendore. Nel 79 dopo Cristo un mare di lava avvolge ed inghiotte ogni forma di vita, i proconsoli, i mosaici, le ville e i templi. Il silenzio che da quel momento cala su quelle zolle di terre è un monito tuttora attivo. Lo stesso silenzio immobile si posava sui corpi privi di vita dei superstiti del naufragio del Titanic in una gelida notte di Aprile del 1912. Come era possibile che una collinetta di ghiaccio avesse trafitto a morte un colosso di tonnellate di acciaio , frutto del lavoro di migliaia di braccia e della scienza esatta e brillante di menti capacissime? Simili interrogativi sono apparizioni fugaci che non resistono molto dentro di noi perché scomodi .

Questa forza della natura che ha bisogno di scegliere solo la modalità con cui farci sentire la sua preponderanza schiacciante non viene tenuta a mente nelle aule di troppe università, sia che vi si declamino terzine dantesche, sia che si dimostri il teorema di Peano-Picard. Senza differenze. E così la mente, con una dose di ingenuità molto variabile, si abitua a credere di essere entrata a pieno titolo nella fucina del Creatore, del principio che governa il mondo, di Dio o chi per lui. Ed è una costante che governa tutte le epoche. Il relativismo stesso ha in sé la pretesa di aver capito l’unica cifra sicura del mondo, ossia la sua stessa incertezza.

In realtà i più sudati tomi di Fisica Quantistica o gli astrusi volumi di Linguistica Applicata portano, se compresi a fondo, tutti alla medesima risposta. Seppur parlando due lingue totalmente diverse entrambi fanno intravedere la incredibile complessità del sapere, la limitatezza della nostra conoscenza. Tanto più in un mondo in cui l’immediatezza rischia di far apparire superato quello che si è appena scoperto.

Leopardi, nei suoi ultimi mesi di vita, era solito passeggiare sull’arida schiena del Vesuvio e rimanere stupito di un fiore odoroso che si ostinava a crescere sui resti della sconfitta dell’uomo. I critici si sono lanciati, come è loro pessima abitudine in una miriade di interpretazioni, psicoanalitiche, strutturaliste o filologiche. Senza alcuna pretesa di correttezza si potrebbe tuttavia ipotizzare che quel poeta mirabile ma anche astronomo provetto intendesse che solo nel riconoscimento umile della propria piccolezza, dei propri limiti si potesse guadagnare il titolo di scienziati.

Che poi le scienze siano tante (forse troppe) è una delle cose di cui dovremmo ringraziare il cielo, dato che ciò riconduce sempre alla complessità che compone la nostra realtà. Leopardi ci suggerisce di fare come la ginestra: unirsi in tanti cespugli, deboli ma flessibili, privi della pretesa di essere solidi come la roccia. Non risulta certo difficile immaginarsi che i diversi arbusti varieranno per colore, profumo o età. Ma la loro radice è essenzialmente la stessa. Questo è quello che i baroni dell’università, i togati del foro e gli incamiciati dei laboratori dimenticano troppo spesso e che dovrebbero invece ben tenere a mente.

Antonello Orlando


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