Quirinale, qui il re si fa a pezzi
Tra mitologia e archeologia, il colle che prende il nome da Romolo-Quirino ucciso e smembrato dai senatori è il luogo del potere personale monarchico soppresso e ridistribuito nell’assemblea politica
di Silvia Ronchey (La Stampa, 29.01.2015)
Il Quirinale è al centro dell’attenzione di tutti in questi giorni. Ma non tutti sanno che prima di essere abitato dai Papi e dai Re d’Italia, e infine dai Presidenti della Repubblica, quel colle era un luogo di auspicio e sacrificio, dove il potere veniva ritualmente smembrato e redistribuito. Secondo Varrone il Quirinale era chiamato così perché ospitava il tempio di Quirino, sotto il cui nome, racconta Dionigi di Alicarnasso, veniva venerato con sacrifici annuali Romolo, «che aveva superato la natura umana» ed era diventato un dio. Il patrizio Giulio Proculo, suo vecchio amico, lo aveva incontrato su quel colle dopo che era stato ucciso e fatto a pezzi dai senatori, raccontano Cicerone e Plutarco. Mentre saliva in cielo, ricoperto di armi scintillanti, gli aveva rivelato la sua natura divina e ordinato di costruire lì il suo tempio.
Dio della guerra terminata
Ovviamente il dio Quirino esisteva già prima di Romolo: era il dio delle curie, l’insieme degli abitanti dei sette colli originari, una federazione di rioni libera e priva di re che prima della fondazione di Romolo si chiamava Septimontium.
Quirino proteggeva i Quiriti, gli abitanti pacifici colti nell’atto di riunirsi nell’assemblea popolare, il comitium: specificamente i cittadini e non i guerrieri. Il dio del Quirinale aveva qualcosa di Giano, il dio primordiale del Gianicolo. Ma era, nella definizione di Andrea Carandini, «un Giano tribale aggiornato in senso curiale-quiritario», era «il dio della collettività». Era anche un dio della guerra, ma in un senso speciale: non il signore della guerra in atto, come Marte, ma di quella terminata, come indica la cadenza invernale della sua festa, i Quirinalia, poiché la guerra seguiva il ciclo della natura e onorare un dio armato nella stagione più breve dell’anno voleva dire onorare la fine della guerra.
I due mirti sacri
«Te o padre Quirino venero e Hora di Quirino» recitava un’antica preghiera tramandata da Ennio, che implorava il dio della guerra (e la moglie Hora) di fare la pace. «Santo Quirino» lo chiamava, invocandolo, Marziale. Le sembianze della sua statua, venerata nel sacellum del Quirinale, sono riprodotte in una moneta romana del 56 a.C., un denario di Caio Memmio: il dio cinto di fronde ha i capelli fluenti sul collo, una lunga barba e grandi occhi sgranati.
Con la creazione del culto di Quirino si compì sul Collis Quirinalis il mistero di fondazione della teologia politica romana. Racconta Plinio nella Storia naturale che il suo tempio, votato e consacrato alla fine del IV a.C., ai tempi della seconda guerra sannitica, da Lucio Papinio Cursore padre e figlio, era ombreggiato da un bosco sacro, un lucus, in cui crescevano due mirti sacri, uno chiamato patrizio, l’altro plebeo, che verdeggiavano a turno, a seconda che l’autorità del senato crescesse oppure si affievolisse e «la sua grandezza decadesse in senilità marcescente». Racconta Livio che il senato di Roma talvolta si riuniva proprio lì. C’era un rapporto speciale di Quirino e del Quirinale con l’assemblea dei senatori che avevano smembrato il primo re di Roma per evitare che accentrasse su di sé il potere. «L’uccisione di Romolo è la premessa perché gli aristocratici sopportino la monarchia», hanno scritto gli storici.
La maledizione di Cicerone
Quello che ancora oggi chiamiamo «il colle più alto» in realtà non lo è né lo è mai stato: lo hanno confermato le indagini geologiche e le prospezioni al georadar durante la recente campagna di ricerca di Andrea Carandini. Ma aveva nell’antico Septimontium un’indiscussa eminenza simbolica che avrebbe conservato per tutta la storia della città. Che un fulmine colpisse il tempio di Quirino, come riferito da Livio, era il più funesto dei presagi. Narra Cassio Dione che durante la guerra civile romana, nel 49 a.C., mentre lupi e gufi vagavano funesti per la città, un incendio lo incenerì. Fu allora che Cesare, durante la sua ricostruzione, sembrò trasfondersi nella figura bifronte, sacrificale e divina, che vi si venerava: prima in Romolo e poi in Quirino.
Sul Quirinale c’era la casa di Tito Pomponio Attico, l’amico e sponsor di Cicerone, che veniva chiamata la «Tanfiliana» e gli era stata lasciata in eredità da uno zio, più raffinata che lussuosa, come racconta Cornelio Nepote, e con un meraviglioso parco. Nella primavera del 45 Cicerone scrisse ad Attico tre lettere in cui commentava in modo apparentemente sibillino, in realtà crudo e sprezzante, la piega che stava prendendo l’autocelebrazione di Cesare. La sua statua quell’anno, dopo la vittoria di Munda, era stata dedicata nel tempio di Quirino, mentre una serie di cerimonie lo accostano ritualmente a Romolo in quanto rifondatore della città. Cicerone scriveva di augurare a Cesare l’influsso di Quirino, ossia di fare la fine di Romolo, piuttosto che quello della dea Salute, cui era dedicato il tempio contiguo. Un auspicio che prenderanno quasi alla lettera i congiurati alle idi di marzo dell’anno dopo, creando involontariamente il presupposto della monarchia di Augusto.
Un sovrano disinnescato
Cos’è allora Quirino, cos’è il Quirinale? Quirino è Romolo ucciso, è il potere personale monarchico soppresso, smembrato e redistribuito nell’assemblea politica. Sul Quirinale il corpo del re morto si trasforma e moltiplica nella collettività e solo così può essere venerato. Solo un re in effigie può regnare, un re disinnescato e sublimato. Quirino è, in seguito, l’ombra di Cesare ucciso. Solo una volta sacrificato il dittatore può trasformarsi in dio della guerra terminata e proteggere la città-Stato, poi l’impero, dal suo sacello. Ogni sovrano che successivamente presidierà quel «colle più alto», quel culmine sacrale della Roma caput mundi, esposto ai presagi degli uccelli e alle folgori di Giove, sarà a sua volta l’ombra di un re che solo se ucciso può rendere la sua monarchia accettabile.
Nel sottosuolo dei giardini del Quirinale si trovano ancora le fondamenta del tempio colossale, largo quanto il Foro di Cesare. Sul rilievo del frontone Romolo e Remo, inabissati sotto il Giardino all’inglese o altrove nell’ex lucus ora presidiato dai corazzieri, siedono a ricevere gli auspici ex avibus, e gli uccelli danno i loro segni, fortunati per l’uno, sfortunati per l’altro. Mentre le votazioni per il Presidente della Repubblica si preparano, i due gemelli allevati dalla lupa continuano a presiedere, nello spazio più oscuro del colle sacro, agli augùri e ai malauguri, ai voti e agli auspici del comitium che esprime ancora oggi il suo più simbolico rappresentante politico nel simulacro sacrificale di un non-re.
Il marcio di Roma. Mafia Capitale e fascismo trasversale
di Annamaria Rivera (il manifesto - 9 dicembre 2014) *
Più volte ho usato nei miei scritti, per intuizione più che per analisi compiuta, l’aggettivo marcescente a definire la fase attuale del capitalismo finanziarizzato. Intendendo quel qualificativo nel senso di ciò che, pur affetto da putredine, sopravvive annunciando un possibile esito di tipo totalitario.
Questa premessa per dire che, sebbene il sistema fascio-mafioso romano non sia una rivelazione (ne avevano parlato alcuni ottimi giornalisti, tra i quali Lirio Abbate dell’Espresso), l’inchiesta della magistratura squaderna sotto i nostri occhi, in tutto il suo lerciume ed orrore, cosa sia divenuta la politica al tempo della lunga crisi economica, che è anche crisi della democrazia, della rappresentanza, della moralità pubblica, perfino della capacità di analisi della sinistra più rispettabile.
Questo ramificato sistema criminale -costituito da una fitta rete di rapporti tra malavita nerissima, imprenditori del Terzo settore, consorzi aderenti a LegaCoop, mazzieri, mercenari, amministratori pubblici e politici di destra e di sinistra, dirigenti di azienda fino ai vertici di Finmeccanica- si è insinuato nei gangli più vitali della vita politica cittadina. Ed è riuscito a sussumere, in perfetto stile postmoderno, per così dire, finanche ciò che si credeva (e in gran parte era) riformatore e innovativo sul piano giuridico, sociale, politico: dall’inserimento sociale degli ex detenuti alla legge del 1991 sulle cooperative sociali, dal Terzo settore ai temi del mutualismo e dei beni comuni, fino al diritto all’accoglienza dei migranti e dei rifugiati.
Basta dire come la cupola abbia saputo volgere a proprio vantaggio, con la compiacenza di taluni amministratori, l’articolo 5 della legge n. 381 che ho appena citato: quello che accorda agli enti pubblici, compresi gli economici, e alle società di capitali a partecipazione pubblica la possibilità di stipulare convenzioni con le cooperative sociali “anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione”.
Sussumendo tutto questo e mercificandolo secondo il proprio interesse, il sistema mafioso ne ha rovesciato il senso e le finalità, sicché il rischio incombente è che ora siano screditati, agli occhi dell’opinione pubblica, ogni attività nel campo del sociale e perfino chi vi dedica il proprio impegno volontario e gratuito.
Se è fenomenicamente trasversale, un tal sistema è intrinsecamente fascista. E non solo perché ricorre a manovalanza neofascista e perché ai suoi vertici vi sono ben noti fascisti dalla lunga e intensa carriera criminale. Ma soprattutto perché esso si avvale del retroterra costituito dal fascistume “del Terzo Millennio”, oggi rafforzato dall’alleanza con i leghisti.
Fra questo retroterra e la cupola mafiosa sembrano esserci state, fino a ieri, una certa sinergia e divisione dei compiti, almeno oggettive. Per esempio, si potrebbe sospettare che il pogrom contro il centro di accoglienza di viale Morandi, a Tor Sapienza, scatenato, secondo testimoni oculari, da una trentina di “fascisti del Terzo Millennio” incappucciati, avesse come obiettivo non tanto i rifugiati e i minori quanto piuttosto la cooperativa “Un sorriso”. Forse perché sfuggita o sottrattasi al controllo della cupola?
In realtà, il blocco fascio-leghista interpreta ed estremizza a suo modo la retorica e la pratica emergenzialiste che caratterizzano l’approccio delle istituzioni al fatto strutturale delle migrazioni, degli esodi, della presenza di popolazioni rom, sinte, camminanti: cioè con la propaganda razzista, le aggressioni, i pogrom, l’infiltrazione progressiva in quartieri popolari, allo scopo di strumentalizzarne il disagio e la rabbia dirottandoli verso i soliti capri espiatori.
Dal canto suo, la cupola fascio-mafiosa ha saputo profittare della tendenza istituzionale a tradurre in termini di emergenze quelli che, in un paese normale, sarebbero semplicemente bisogni e diritti. Così, lasciando incancrenire, per insipienza o intenzionale disegno, le emergenze riguardanti non solo migranti, rifugiati, rom, ma anche periferie, casa, rifiuti, trasporti, salute, si è permesso alla cupola di allungare i suoi tentacoli sui relativi appalti.
Particolarmente scandaloso è aver affidato a cinici manigoldi di tal fatta settori di estrema delicatezza quali l’accoglienza di migranti e richiedenti asilo e la gestione dei campi-rom: è come affidare dei bambini alle cure di una banda di pedofili.
A proposito di campi-rom, non solo questo sistema di segregazione spaziale e sociale - vera specialità italiana - è stato condannato dalle più varie organizzazioni internazionali, ma se ne è anche attentamente analizzato e denunciato il lucroso business: fra il 2013 e il 2014 sono stati pubblicati Segregare costa, l’indagine di OsservAzione (condotta con Lunaria e altre associazioni), e Campi nomadi spa, lo studio dell’Associazione 21 Luglio.
Di fronte a un tale “maleodorante pozzo di nequizie, di corruzione, di oscenità”, il senso di schifo di cui parla Angelo d’Orsi a me sembra non sia condiviso da tutti. Perfino a sinistra si può trovare chi riduce a semplice clientelismo o consociativismo questo solido sistema criminale; chi, ritenendo la corruzione della Capitale un dato così intrinseco da essere quasi-naturale, afferma scetticamente che “mondo è stato e mondo è”; e v’è pure chi disquisisce se “Er Cecato” sia stato o no organico ai Nar o alla banda della Magliana e quanto meritorio sia stato l’esordio della Cooperativa “29 giugno” e del suo ideatore.
Tutte queste propensioni - che, ripeto, si ritrovano perfino tra la sinistra che si pretende nuova e/o radicale - sono indizio, mi sembra, di scarsa consapevolezza della posta in gioco, d’insufficiente coraggio politico, di subalternità, almeno psicologica, allo stato di cose presenti; se non di un politicismo di bassa lega, attento più a salvaguardare equilibri politici, peraltro assai fragili, che a prendere atto, con severa lucidità, del baratro in cui siamo precipitati, onde trarne lezioni politiche e morali adeguate.
Una sinistra meritevole di questo nome dovrebbe smetterla di gingillarsi con scempiaggini come la “guerra tra poveri”, rivolgendosi invece a difendere senza indugio i diritti dei penultimi e degli ultimi in assoluto: migranti, rifugiati, rom. E farebbe bene a tentare d’impedire il dilagare dell’estrema destra nei quartieri popolari, con un paziente lavoro politico e anche con presîdi antifascisti e antirazzisti.
Per citare il Pasolini di un articolo del 1962 su Vie Nuove, “prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo”.
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Versione modificata e ampliata dell’editoriale del manifesto del 9 dicembre 2014 (da:Libera cittadinanza).