L’ANALISI
Mano libera in fabbrica
di CARLO CLERICETTI (la Repubblica, 14.10.2010)
"Ho fatto un sogno". Nessun imprenditore italiano ha ripetuto la frase dello storico discorso di Martin Luther King sulla fine della discriminazione razziale, ma si può star certi che la maggior parte l’ha pensata. Ed è un sogno molto diverso da quello: il sogno di avere mano libera in fabbrica, sull’organizzazione del lavoro come sulle retribuzioni, senza avere il problema di subire scioperi come reazione. Il sogno di ottenere tutto questo non più con l’aiuto della polizia o dell’esercito, come si faceva nell’800, ma con la firma delle organizzazioni dei lavoratori. Formalmente non con una imposizione, dunque, ma offrendo una possibilità di scelta.
Certo, nel caso di Pomigliano l’alternativa è un po’ asimmetrica: o si accettano le condizioni poste dall’azienda o la fabbrica chiude. Chiedersi se si proponga veramente una scelta sarebbe una domanda retorica. Ed è altamente probabile che anche il referendum tra i lavoratori, se si farà, scelga di mangiare quella minestra piuttosto che buttarsi dalla finestra.
Quella minestra, però, contiene ingredienti indigeribili. Non si tratta della fine della concezione del sindacato come "antagonista", come chiosa il candido segretario della Uil Luigi Angeletti. Tra quegli ingredienti c’è di fatto l’addio al contratto nazionale (già derogabile in base all’accordo sulle nuove relazioni sindacali, che la Cgil non ha firmato) e una rinuncia al diritto di sciopero, che la Costituzione garantisce addirittura come diritto individuale. C’è, in altre parole, tutto ciò che serve a far diventare irrilevante il sindacato, a guidarlo verso un sicuro declino, ancora una volta sul modello degli Stati Uniti, dove ormai meno del 10% dei lavoratori è iscritto a un sindacato.
Sono in molti a ritenere che questo non sia un problema, ma un obiettivo desiderabile. Ma a dire che sbagliano non è qualche sorpassata ideologia, ma la stessa storia dello sviluppo. Se si allunga lo sguardo a tutta la prospettiva dello sviluppo economico non si può non ammettere che è cresciuto di pari passo con il miglioramento delle condizioni dei lavoratori. E piuttosto che avanzare il dilemma dell’uovo e della gallina bisognerebbe chiedersi se l’allargamento del benessere sociale non sia un qualcosa che è appunto necessario al buon funzionamento dell’economia, se un maggiore equilibrio nella distribuzione del reddito non sia una condizione che permette una crescita equilibrata, magari con meno accelerazioni, ma anche senza crisi drammatiche come quella degli anni ’30 e come quella tuttora in atto.
Fino agli anni ’70 del secolo scorso il "mega-trend" è stato di una maggiore diffusione del benessere, dagli anni ’80 è invece iniziata una tendenza alla polarizzazione che con la globalizzazione si è accentuata, perché non è la prima volta, e non sarà l’ultima, che viene posta l’alternativa su cui si deve decidere a Pomigliano. Ma dagli anni ’80 le crisi - non solo finanziarie - si sono succedute a ritmo sempre più accelerato, fino a questa che ha coinvolto tutto il mondo. Per ognuna di queste crisi, presa singolarmente, si possono trovare spiegazioni specifiche, ma, se appunto si allunga lo sguardo, non è insensato chiedersi se non ci sia alla base uno stesso problema di fondo.
Secondo la "teoria del caos" un qualsiasi avvenimento, per quanto apparentemente insignificante, può provocare una serie di reazioni concatenate che possono sfociare in eventi di livello planetario. Non c’è bisogno che per il caso Pomigliano si paventi qualcosa del genere. Ma di certo può essere un altro passo che magari fa bene all’impresa nel breve periodo, ma male all’economia nel lungo termine.
Sul tema, e sulla questione generale, si cfr.:
LA CUCINA BERLUSCONIANA E LE RANE IN PENTOLA
LA TEOLOGIA POLITICA DELLA "SOVRANITA’ PRIVATA" DELL’IMPRENDITORE E LA COSTITUZIONE.
Fiat/Democrazia. Un’associazione a sostegno della Fiom
di: Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Paolo Nerozzi, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Mario Tronti *
La prima ragione della nostra indignazione nasce dall’assenza, nella lotta politica italiana, di un interesse sui diritti democratici dei lavoratori e delle lavoratrici. Così come nei meccanismi elettorali i cittadini sono stati privati del diritto di scegliere chi eleggere, allo stesso modo ma assai più gravemente ancora un lavoratore e una lavoratrice non hanno il diritto di decidere, con il proprio voto su opzioni diverse, di accordi sindacali che decidono del loro reddito, delle loro condizioni di lavoro e dei loro diritti nel luogo di lavoro. Pensiamo ad accordi che non mettano in discussione diritti indisponibili. Parliamo, nel caso degli accordi sindacali, di un diritto individuale esercitato in forme collettive. Un diritto della persona che lavora che non può essere sostituito dalle dinamiche dentro e tra le organizzazioni sindacali e datoriali, pur necessarie e indispensabili. Di tutto ciò c’è una flebile traccia nella discussione politica; noi riteniamo che questa debba essere una delle discriminanti che strutturano le scelte di campo nell’impegno politico e civile. La crescente importanza nella vita di ogni cittadino delle scelte operate nel campo economico dovrebbe portare a un rafforzamento dei meccanismi di controllo pubblico e di bilanciamento del potere economico; senza tali meccanismi, infatti, è più elevata la probabilità, come stiamo sperimentando, di patire pesanti conseguenze individuali e collettive.
La seconda ragione della nostra indignazione, quindi, è lo sforzo continuo di larga parte della politica italiana di ridimensionare la piena libertà di esercizio del conflitto sociale. Le società democratiche considerano il conflitto sociale, sia quello tra capitale e lavoro sia i movimenti della società civile su questioni riguardanti i beni comuni e il pubblico interesse, come l’essenza stessa del loro carattere democratico. Solo attraverso un pieno dispiegarsi, nell’ambito dei diritti costituzionali, di tali conflitti si controbilanciano i potentati economici, si alimenta la discussione pubblica, si controlla l’esercizio del potere politico. Non vi può essere, in una società democratica, un interesse di parte, quello delle imprese, superiore a ogni altro interesse e a ogni altra ragione: i diritti, quindi, sia quelli individuali sia quelli collettivi, non possono essere subordinati all’interesse della singola impresa o del sistema delle imprese o ai superiori interessi dello Stato. La presunta superiore razionalità delle scelte puramente economiche e delle tecniche manageriali è evaporata nella grande crisi.
L’idea, cara al governo, assieme a Confindustria e Fiat, di una società basata sulla sostituzione del conflitto sociale con l’attribuzione a un sistema corporativo di bilanciamenti tra le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, sotto l’egida governativa, del potere di prendere, solo in forme consensuali, ogni decisione rilevante sui temi del lavoro, comprese le attuali prestazioni dello stato sociale, è di per sé un incubo autoritario.
Siamo stupefatti, ancor prima che indignati, dal fatto che su tali scenari, concretizzatisi in decisioni concrete già prese o in corso di realizzazione attraverso leggi e accordi sindacali, non si eserciti, con rilevanti eccezioni quali la manifestazione del 16 ottobre, una assunzione di responsabilità che coinvolga il numero più alto possibile di forze sociali, politiche e culturali per combattere, fermare e rovesciare questa deriva autoritaria.
Ci indigna infine la continua riduzione del lavoro, in tutte le sue forme, a una condizione che ne nega la possibilità di espressione e di realizzazione di sé.
La precarizzazione, l’individualizzazione del rapporto di lavoro, l’aziendalizzazione della regolazione sociale del lavoro in una nazione in cui la stragrande maggioranza lavora in imprese con meno di dieci dipendenti, lo smantellamento della legislazione di tutela dell’ambiente di lavoro, la crescente difficoltà, a seguito del cosiddetto "collegato lavoro" approvato dalle camere, a potere adire la giustizia ordinaria da parte del lavoratore sono i tasselli materiali di questo processo di spoliazione della dignità di chi lavora. Da ultimo si vuole sostituire allo Statuto dei diritti dei lavoratori uno statuto dei lavori; la trasformazione linguistica è di per sé auto esplicativa e a essa corrisponde il contenuto. Il passaggio dai portatori di diritti, i lavoratori che possono esigerli, ai luoghi, i lavori, delinea un processo di astrazione/alienazione dove viene meno l’affettività dei diritti stessi.
Come è possibile che di fronte alla distruzione sistematica di un secolo di conquiste di civiltà sui temi del lavoro non vi sia una risposta all’altezza della sfida?
Bisogna ridare centralità politica al lavoro. Riportare il lavoro, il mondo del lavoro, al centro dell’agenda politica: nell’azione di governo, nei programmi dei partiti, nella battaglia delle idee. Questa è oggi la via maestra per la rigenerazione della politica stessa e per un progetto di liberazione della vita pubblica dalle derive, dalla decadenza, dalla volgarizzazione e dall’autoreferenzialità che attualmente gravemente la segnano. La dignità della persona che lavora diventi la stella polare di orientamento per ogni decisione individuale e collettiva.
Per queste ragioni abbiamo deciso di costituire un’associazione che si propone di suscitare nella società, nella politica, nella cultura, una riflessione e un’azione adeguata con l’intento di sostenere tutte le forze che sappiano muoversi con coerenza su questo terreno.
* Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Paolo Nerozzi, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Mario Tronti
* il l manifesto, 29.12.2010
Il lavoro spogliato dei diritti
Liberare le imprese dagli impegni presi e dai contratti nazionali firmati con i sindacati non significa innovare
Non si può uscire da una crisi globale rompendo il patto con i lavoratori
di Furio Colombo (il Fatto, 12.09.2010)
“Se non c’è la fabbrica non ci sono i diritti” è la frase più ripetuta del momento. Vuol dire: “Lasciate fare all’impresa, che sa cosa è bene e che cosa è male”. Ecco dunque la frase che molti, anche nel Pd (un partito che dovrebbe essere “del lavoro” più di tutti gli altri rappresentanti in Parlamento) considerano “innovazione”. È “innovazione” perché libera l’impresa dalla “rigidità” (altra parola in voga per dire il nemico dell’innovazione) e dal dovere di mantenere impegni presi, con contratti debitamente firmati da tutti, verso i lavoratori. A proposito, avete mai notato che l’opinione pubblica e politica non viene mai coinvolta in un dibattito sulle imprese (come vanno, dove vanno), ma sempre, solo sul lavoro e gli operai come unica ragione di conflitto, crisi, delocalizzazione, chiusura?
Le regole buttate al macero
LA STORIA del mondo industriale democratico non ci dà nessuna notizia di aziende affondate a causa del costo del lavoro. Ma la proposta adesso è “innovazione” perché non solo vuole tagliare liberamente i costi. Intende cancellare ogni patto precedentemente stipulato tra impresa e lavoro. Ora, dopo una violentissima crisi economica che ha scosso, con la furia di un ciclone, un’Europa senza economisti e senza idee e un’Italia senza governo, la proposta è di uscire da una crisi grande come il ‘29 (parola di esperti) facendo esattamente l’opposto dell’America del New Deal.
Che cosa vuol dire New Deal? Vuol dire nuovo patto. Vuol dire futuro, fiducia (non fiducia astratta, ma fiducia gli uni negli altri) e comunità (siamo insieme, o tutti o nessuno, il Paese sono le sue fabbriche e ogni fabbrica è il Paese, Costituzione, leggi, regole concordate). Che cosa accade adesso in Italia? Non solo non ci sarà un New Deal, ma non ci sarà niente. Anzi, facciamo una cosa. Per evitare equivoci, cancelliamo ogni patto che c’era prima. Via i contratti nazionali. Via le regole discusse e negoziate da una parte e dall’altra, a volte per anni e con confronti anche duri, ma - ovviamente - con l’intento umano e civile di proteggere la parte più debole, che non può ogni volta presentarsi in fabbrica con una batteria di avvocati.
Così inizia il monologo delle aziende
IL NUOVO SLOGAN è “basta con la lotta di classe”. Nel caso della fabbrica, “fine della lotta di classe” (che per fortuna non c’era; c’erano, come dicono i codici, parti e controparti, con molti interessi diversi e uno grande in comune: il lavoro) vuol dire che una parte tace e l’altra è libera di iniziare il grande monologo. Vanno bene 10 minuti per la pausa mensa? Va bene andare in bagno due volte invece di tre? Va bene fare straordinari la notte e il sabato senza retribuzione? Va bene fare o non fare, o interrompere le ferie, sempre a titolo di donazione del prestatore d’opera alla fabbrica? Non devi rispondere. Se lo fai, disturbi la produzione e potresti essere accusato di sabotaggio. La pena è il licenziamento. E se il giudice - restato indietro con le leggi ancora non abrogate della Repubblica - ti reintegra nel posto di lavoro, questo fastidioso dettaglio alla controparte che conduce il monologo non interessa. La controparte è avanti, è nel futuro, è con l’innovazione, confortata dal fatto che anche la ex sinistra chiama innovazione la cancellazione dei diritti. Dunque, giudice o non giudice, vi possiamo buttare la busta paga sulla porta, ma dovete restare fuori.
La nuova versione di “O la borsa o la vita”
PER BUONA MISURA interviene, nell’umiliante caso di Melfi (tutta la Fiat contro tre operai) il settimanale Panorama (9 settembre 2010) con la più spregevole copertina mai apparsa nel giornalismo italiano. La forza di un periodico da milioni di copie viene gettata contro tre operai da 1.000 euro al mese (quando non sono - e lo sono spessissimo - in cassa integrazione), messi alla gogna in copertina con la loro fotografia e il titolo Gli eroi bugiardi; l’accusa (sempre in copertina) di sabotaggio, dunque di un reato, che dà dello stupido (e anche del comunista) al giudice che li ha reintegrati nel loro posto di lavoro. È una nobile iniziativa che assicura a quegli operai che non saranno mai più accettati in alcun posto di lavoro in Italia. Ma tutto trova la sua giustificazione nel nuovo motto da issare sui cancelli: “Se non c’è la fabbrica, non ci sono i diritti”. La prima reazione, che avrebbe dovuto dare una scossa a tanti silenzi ed evitare qualche lode fuori posto, è che la frase corrisponde in modo quasi letterale al celebre grido dei vecchi racconti polizieschi: “O la borsa o la vita”. Il messaggio è chiaro: o cedi o finisci sulla copertina di Panorama.
Ma c’è l’altro aspetto inquietante. La frase resta intatta se formulata a ovescio: “La fabbrica c’è se non ci sono i diritti”. D’ora in poi la fabbrica è extraterritoriale. Si fa secondo le regole che vigono nel territorio in cui vuoi essere accettato perché un po’ ti pagano. Se non ti va bene, ti accompagnano subito alla frontiera. Ora ditemi se tutto un mondo di persone, che un tempo chiamavamo lavoratori, deve rassegnarsi a vivere senza un sindacato (l’immagine della Fiom è peggiore di quella di Vallanzasca), senza un partito (vedi la cauta distanza del Pd dalla questione), con la sola opzione di obbedire. E il rischio di un linciaggio pubblico nello sciagurato caso di una protesta.
Questo Marchionne pare Silvio
di Giorgio Bocca ( l’espressoonline, 22 luglio 2010)
L’idea che il potere, in un’impresa come in uno Stato, debba avere mano libera sui dipendenti e sui cittadini è di quelle dure a morire. Il manager della Fiat Marchionne in questo è simile al capo del governo Berlusconi, entrambi stupiti e quasi delusi che i lavoratori sottoposti non capiscano, non gradiscano il ricatto del capitalismo globale: o mangiate questa minestra o saltate dalla finestra.
Appartiene alla filosofia del potere la convinzione che la legge del più forte, nel caso del mercato globale, sia anche la più giusta. Ma è un’idea di comodo, cara a chi sta al potere, smentita dalla storia, cioè dalla lotta di classe e dal progresso produttivo e sociale: se l’automazione è arrivata nelle fabbriche rivoluzionando e migliorando il modo di produrre lo si deve anche alla lotta di classe, alle rivendicazioni operaie. Marchionne è certamente un manager intelligente come lo fu prima di lui Cesare Romiti, e magari i toni ricattatori e autoritari possono servire nel tempo breve, ma non alla creazione di una durevole crescita civile.
Non sembra il caso di ricorrere di continuo nei rapporti di lavoro alle superiori, indiscutibili esigenze del mercato globale, cioè della facoltà che il capitale scambia per un suo inalienabile diritto: trasferire la produzione dove più gli comoda. È una pretesa inaccettabile da un paese civile: non si può compiere la prima accumulazione del capitale, la prima crescita produttiva e tecnica usando le risorse umane locali e poi trasferirsi dove al capitale conviene. Soprattutto in paesi come il nostro dove la formazione di una società industriale è avvenuta anche grazie ai privilegi e alle discipline autoritarie, anche grazie ai riarmi e ai bagni di sangue delle guerre mondiali.
Come Cesare Romiti, come altri manager e imprenditori, Marchionne è convinto che la crescita economica di un paese sia la stessa cosa della sua crescita civile e che essa sia possibile solo se si rispettano le regole fondamentali che legano il lavoro al salario e che rifiutano come utopie suicide quelle sessantottesche del più salario e meno lavoro. Ma questo rispetto delle regole non può essere una prerogativa dell’imprenditore razionale da imporre ai dipendenti immaturi che preferiscono la partita della Nazionale di calcio al lavoro, non può essere la richiesta di rinunciare nel nome della produzione ai diritti conquistati con duri sacrifici.
Anche il capitale, anche il potere capitalistico inseguono utopie come quella che sia possibile e augurabile abolire la lotta di classe. Non è così, sia che i padroni siano liberali, sia che siano comunisti come la Cina, dove i grandi balzi produttivi maoisti stanno finendo secondo logica nella ripresa degli scioperi e nelle lotte per i diritti umani.
Ha detto Marchionne: "Stiamo facendo discussioni su principi e ideologie che ormai non hanno più corrispondenza nella realtà. Parliamo di storie vecchie di trenta o quarant’anni, stiamo a parlare del padrone contro il lavoratore. Sono cose che non esistono più". Davvero? Forse il Ceo della Fiat si sbaglia o si illude. I padroni esistono ancora, come i lavoratori che dai padroni dipendono. E per governarli occorre anche modestia, pazienza e sapersi mettere, come usa dire, nei loro panni.
Il dumping di Marchionne
di Luciano Gallino (la Repubblica, 22 luglio 2010)
Quattro anni fa, settembre 2006, Sergio Marchionne dichiarava prima in un discorso all’Unione Industriale di Torino, poi in un’intervista a questo giornale, che «il costo del lavoro rappresenta il 7-8 per cento» «e dunque - aggiungeva - è inutile picchiare su chi sta alla linea di montaggio pensando di risolvere i problemi». Per contro ieri annuncia che, tutto sommato, ritiene necessario picchiare proprio su chi sta alla linea. E le ragioni per farlo sembrano primariamente connesse al costo del lavoro. In questo caso i destinatari diretti del messaggio non sono i lavoratori di Pomigliano, ma quelli di Mirafiori, visto che un nuovo modello di auto che doveva venir prodotto nello stabilimento torinese sarà invece prodotto in Serbia. Una decisione che, se non è un de profundis per Mirafiori, poco ci manca.
In verità l’ad Fiat ha usato parole un po’ diverse. Ha detto che in Italia i sindacati mancano di serietà. L’azienda non può assumere rischi non necessari per realizzare i suoi progetti nel nostro paese. Fiat deve essere in grado di produrre macchine senza incorrere in interruzioni dell’attività. Qualche minuto in rete basta però per venire a sapere che il salario medio dei lavoratori serbi del settore auto si aggira sui 400 euro al mese. Ed è improbabile che tale costo sia accresciuto da consistenti contributi destinati al servizio sanitario e alla pensione, come avviene da noi grazie alle conquiste sociali di due generazioni fa.
Andare in Serbia, piuttosto che restare a Mirafiori, significa quindi giocare il destino di nostri lavoratori la cui prestazione assicurava finora un livello di vita decente a sé stessi ed alla famiglia, anche per il futuro, contro lavoratori di un paese che a quel livello di vita e a quel futuro avrebbero pure loro diritto, ma per il momento se li possono soltanto sognare.
Se questa sorta di grande balzo all’indietro è ciò che Marchionne intende per modernizzazione delle relazioni industriali in Italia, vengono un paio di dubbi. Non diversamente dal 2006, il costo del lavoro in un’industria altamente automatizzata come l’auto rappresenta il 7-8 per cento del costo complessivo di fabbricazione.
Portando la produzione da Mirafiori a Kragijevac, dove il costo del lavoro è meno della metà, la Fiat può quindi pensare di risparmiare al massimo tre o quattro punti sul costo totale. Ma se intende affrontare tutti i problemi sociali, sindacali e politici che dalla sua decisione deriverebbero per conseguire un risparmio così limitato, ciò significa che le sue previsioni di espansione produttiva, di vendite e di bilancio sono assai meno rosee di quelle che lo stesso amministratore delegato ha dato a intendere nei mesi scorsi.
E questo dubbio ne alimenta un altro: che il vero obbiettivo non sia la riduzione del costo del lavoro, sebbene questo appaia evidente, bensì la realizzazione di una fabbrica dove regnano ordine, disciplina, acquiescenza assoluta agli ordini dei capi. Dove, in altre parole, il sindacato non solo assume vesti moderne, ma semplicemente non esiste, o non fiata. Magari ci verrà detto ancora una volta che questo è un obbiettivo che la globalizzazione impone. Può essere, anche se le pretese di quest’ultima cominciano ad apparire esagerate. Quel che è certo è che si tratta di un preoccupante indicatore politico.
Fabbrica Italia guarda al passato
Sorvegliare e punire chi dissente
Licenziamenti e sanzioni contro i lavoratori, Marchionne alza la tensione sociale e il livello dello scontro mentre prepara la divisione tra Fiat Auto e il resto del gruppo. Ci sono sorprese in arrivo?
di Rinaldo Gianola *
L’impiegato Capozzi di Mirafiori, gli operai Barozzino, Lamorte e Pignatelli di Melfi sono le prime vittime della nuova governance della Fiat. Chi pensava che dopo il risultato favorevole, ma certo non plebiscitario, a Pomigliano d’Arco la Fiat potesse aprire una nuova stagione di confronto e collaborazione con i sindacati, tutti i sindacati, e i suoi dipendenti, deve ora riflettere sulle perplessità e le critiche che alcuni, in particolare la Fiom Cgil ma anche diversi osservatori indipendenti, avevano espresso sulle condizioni imposte dal Lingotto per avviare la produzione della Nuova Panda nello stabilimento campano. Le deroghe al contratto di lavoro e all’esercizio del diritto costituzionale allo sciopero, evidenti nel patto di Pomigliano, sono il modello che, nella visione di Sergio Marchionne, dovrà essere implementato in “Fabbrica Italia“, il progetto che con tanta enfasi, e con tante incertezze, è stato lanciato ad aprile per ribadire le radici e la presenza industriale della Fiat in Italia. Ma c’è di più.
L’invito di Marchionne alla cooperazione, all’abbraccio collettivo, le lettere grondanti retorica sul passaggio storico da affrontare insieme,azionisti, manager e lavoratori, sono aria fritta. propaganda a buon mercato, di fronte a licenziamenti punitivi, ad un’azione sistematica che punta esclusivamente al pieno controllo delle fabbriche, anche a costo di alzare la tensione sociale, di irrigidire le posizioni e di scontentare persino i sindacati che avevano firmato di buon grado il diktat di Pomigliano. L’appello paternalista di Marchionne ha un sapore stantio, è roba vecchia, evoca le lettere di alcuni suoi predecessori quando scrivevano alle mogli dei dipendenti della Magneti Marelli implorando comprensione e solidarietà davanti ai prezzi insostenibili pagati dai mariti-operai. “Fabbrica Italia” può raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi di produttività ed efficienza se i vertici dell’azienda considerano i lavoratori non solo un fattore di produzione da comprimere e spremere, ma come un soggetto responsabile, portatore di diritti e che merita dignità e rispetto.
Attorno alla Fiat, invece, tira un’aria brutta. Il licenziamento di Capozzi, delegato della Fiom e aderente al pd, perchè ha usato la mail aziendale per diffondere un volantino sindacale, richiama una lontana stagione quando gli operai iscritti alla Cgil o che portavano in tasca l’Unita venivano spediti nei reparti confino, all’Officina Sussidiaria Ricambi soprannominata Officina Stella Rossa dai lavoratori colpiti. Fa tornare alla mente i brutti momenti dello spionaggio e delle schedature dei dipendenti Fiat. E le sanzioni contro i tre operai di Melfi, perchè hanno bloccato un carrello robotizzato durante una protesta contro gli eccessivi carichi di lavoro, sono un segnale allarmante: anche nella fabbrica-modello, anche nel “prato verde” lucano dove la Fiat si era illusa di superare il conflitto capitale-lavoro, anche qui Marchionne ha bisogno delle punizioni per esercitare e affermare il suo comando.
È così, con questi sistemi, che la Fiat vuole realizzare “Fabbrica Italia”? Oppure Marchionne sta alzando volontariamente la tensione, il livello dello scontro perchè il suo progetto non regge se non c’è l’adesione totale di sindacati e lavoratori, se non viene importato e applicato il “modello polacco”, se non trionfa il suo pensiero unico? O, ancora, c’è qualche cosa di nuovo e sconosciuto che bolle in pentola a Torino dove la prossima settimana sarà varata la divisione tra la Fiat Auto e tutto il resto del gruppo? Ci saranno ricadute industriali e occupazionali finora non previste e non comunicate?
Qualche sospetto emerge, soprattutto dopo che ieri la Fiat ha fatto il muso duro non solo con la Fiom, ma anche con i sindacati buoni che avevano accettato senza obiezioni l’”accordo” di Pomigliano. La Fiat ha negato il premio di risultato che dovrebbe essere pagato a fine luglio, e oggi scatterà lo sciopero di Fim, Uilm e Fismic. Agli azionisti Marchionne ha concesso il dividendo per ripagarli dei loro “sacrifici”, per i lavoratori non è rimasto niente, devono solo accettare le condizioni di “Fabbrica Italia” e stare zitti.
In questa situazione fa una certa impressione leggere sui giornali confindustriali ritratti di Marchionne, al limite dell’agiografia, che certo non fanno bene al giornalismo, in lotta contro bavagli di varia natura. Domenica scorsa sul Corriere della Sera l’amministratore delegato della Fiat veniva così descritto: «È inarrivabile. E proprio questo è il suo problema...Marchionne lavora anche 20 ore al giorno. dorme pochissimo, mangia quando capita, fuma almeno due pacchetti di sigarette al giorno e nonostante questo ha un’energia e una capacità di concentrazione che lascia ancora basiti i suoi collaboratori». È vero, c’è proprio da restare basiti
* l’Unità, 15.07.2010
Genova, Pomigliano e la Filosofia
di Paolo Farinella
[pubblicato su la Repubblica/Il Lavoro (locale) domenica 27 giungo 2010, p. XIII con il titolo: «Genova città dei diritti e l’affaire Pomigliano»] *
Don Gallo nella «Buona Novella» di Repubblica del 24-06-2010 invita tutti a colmare il vuoto di «filosofia» che sovrasta la società di oggi. Come non dargli credito? Oggi dominano i faccendieri, gli opportunisti, le cricche, i cardinali palazzinari e su tutti sovrasta il «mòloch» del mercato, asseverato da un governo che è il più illiberista di tutta la storia italiana.
La «filosofia» del governicchio infatti è: tutto per me, nulla per gli altri. Mercato e libertà hanno senso se concretizzano i soprusi del padrone del governo che nella vita si sceglie gli amici di riferimento: il comunista Putin del Kgb, il dittatore della Bielorussia Lukashenko e la perla democratica del Mediterraneo Gheddafi: insomma la crema. Parliamo dunque di «Filosofia» con la «F» maiuscola e affrontiamo il capitolo di pensiero che va sotto il titolo di «Pomigliano/Fiat». Non si tratta infatti di una semplice avventura sindacale, ma di un capitolo del pensiero moderno che segnerà, anzi ha già segnato l’era del «dopo Cristo», come si espresse uno dei capitalisti senza «Filosofia» che va sotto il nome di Marchionne Sergio.
Genova, città dei diritti, non può non riflettere seriamente sull’«affaire Pomigliano» che molti liquidano come un aspetto marginale della crisi mondiale per cui al «dio competitività» bisogna offrire sacrifici flessibili cioè orari di lavoro da bestie e stipendi da fame. Il famigerato referendum di Pomigliano è un metodo, una prospettiva scientifica di pensiero politico per aggirare la Costituzione, cioè la Filosofia giuridica, posta a fondamento della democrazia a cui si vuole contrapporre non la libertà, ma il libertinaggio d’impresa senza freni, fatta ingoiare agli stessi operai sotto ricatto di licenziamento.
A Pomigliano fa da sfondo la proposta oscena dell’immorale governo Berlusconi di modificare l’art. 41 della Costituzione che subordina la liberta d’impresa all’etica sociale perché: «L’iniziativa economica privata è libera», ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; a questo scopo «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché‚ l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Un enunciato perfetto e limpido che si vuole stravolgere per annegare il diritto al lavoro nella schiavitù del favore: meno paga, più lavoro, turni massacranti e l’operaio deve anche ringraziare col cappello in mano.
Si vuole un eccidio del sindacato, un’ecatombe operaia. In questo ampio mare filosofico, mi chiedo dove stanno la Cei e il Vaticano, sempre pronti a salmodiare il diritto alla vita e alla persona, quando si tratta di morti irreversibili. Qui si tratta di uomini, donne e figli che subiscono l’eutanasia da imprenditori che non imprendono, complici la politica e la confindustria; si uccidono scientemente persone e coscienze, valori e civiltà, mentre a Genova alla festa di S. Giovanni fanno bella mostra due cardinali in lustri e lustrini per mandare un messaggio trasversale al mondo: nessuna guerra tra Vaticano e Cei, tra Bertone e Bagnasco, tra B&B, chiamati a fare fronte comune contro lo tsunami degli scandali che sta soffocando uomini e istituzioni ecclesiastiche, Sepe Crescenzio a parte.
Sul versante laico, è offesa l’intelligenza di ogni persona perbene dalle parole del sen. Musso che fa finta di scandalizzarsi perché il suo collega e sodale di partito, Aldo Brancher, neo ministro del nulla, si è subito avvalso del legittimo impedimento per non inguaiare il capo di tutti e due. Il senatore, orfano di Scajola, filosofo della «corruzione a sua insaputa», crede ancora nella «buona fede di Berlusconi» (sic!). Alla sua età crede nella cicogna o nel cavolo che cullano i bambini. Potrebbe essere il prossimo sindaco di Genova. Dio ce ne scampi e liberi!
Paolo Farinella, prete Genova
IL COMMENTO
I confini del Lingotto
di LUCIANO GALLINO
A POMIGLIANO prevale il sì all’accordo con la Fiat. Non stravince, come la sua direzione avrebbe gradito. Dobbiamo però augurarci che la Fiat non prenda pretesto dal risultato inferiore alle attese per mandare a monte l’accordo, oppure per imporlo senza modificarne una virgola. Non soltanto nell’interesse dei lavoratori, ma anche della Fiat, e del paese, per le conseguenze sociali e politiche che ciò potrebbe avere. Vediamo perché.
In Italia la Fiat produce 650.000 vetture l’anno con 22.000 dipendenti. In Polonia ne produce 600.000 con 6.100 operai. In Brasile le vetture prodotte sono 730.000 e i dipendenti soltanto 9.400. Inoltre il costo del lavoro in quei due paesi, contributi sociali inclusi, è molto più basso. È vero che in Italia si costruisce un certo numero di vetture di classe più alta che non in Polonia o in Brasile. Pur con questa correzione il rapporto auto prodotte/dipendenti resta nettamente sfavorevole agli stabilimenti Fiat in Italia.
Ne segue che su due punti non vi possono essere dubbi. Le aspre condizioni di lavoro che Fiat intende introdurre a Pomigliano, dopo averle sperimentate con successo all’estero, sono la premessa per introdurle prima o poi in tutti gli stabilimenti italiani, da Mirafiori a Melfi, da Cassino a Termoli. Dopodiché interi settori industriali spingeranno da noi per imitare il modello Fiat. Dagli elettrodomestici al tessile e al made in Italy, sono migliaia le imprese italiane medie e piccole che possono dimostrare, dati alla mano, che in India o nelle Filippine, in Romania o in Cina le loro sussidiarie vantano una produzione pro capite di molto superiore agli impianti di casa. Che tale vantaggio sia stato acquisito con salari assai più bassi, sistemi di protezione sociale minimi o inesistenti, e orari molto più lunghi, non sembra ormai avere alcuna rilevanza. Certo non per il governo, e perfino per gran parte dei sindacati. Con l’applicazione totale del modello Fiat, le imprese si sentirebbero autorizzate a far ritornare una parte della produzione delocalizzata in Italia, alla semplice condizione che essa sia accompagnata da salari e condizioni di lavoro che si approssimano sempre più a quella dei lavoratori dei paesi emergenti.
Si tratta di vedere fino a che punto conviene alla Fiat voler passare testardamente alla storia delle relazioni industriali e della globalizzazione come l’impresa italiana che allo scopo di esportare al meglio i suoi prodotti ha dimostrato che si può apertamente importare il peggio delle condizioni di lavoro, per di più ricevendo il plauso del governo. Così facendo, infatti, la Fiat correrebbe, e farebbe correre al paese, diversi rischi. Il primo, se il suo modello tal quale prendesse piede, è quello di contribuire alla stagnazione della domanda interna, che è stata ed è uno dei maggiori fattori della recessione globale in cui il mondo si sta avvitando. D’accordo che lavoratori sfiniti dalla fatica e con i salari, al netto dell’inflazione, pressoché fermi da oltre un decennio, consumano pur sempre qualcosa in più di un disoccupato. Ma il modello Fiat farebbe tendenza, aprendo nuovi spazi di disuguaglianza di reddito tra gli strati inferiori e medi e il dieci per cento dello strato più alto della piramide sociale; i cui membri, per quanto affluenti, difficilmente compreranno quattro o cinque Panda a testa.
Un secondo rischio è quello di far crescere le tensioni sociali. Se il governo alzasse mai lo sguardo dai sondaggi, e il management Fiat dai diagrammi della produttività e dei costi di produzione, potrebbero rendersi conto che disoccupazione, sotto-occupazione, tagli allo stato sociale e percezione di una corruzione dilagante stanno alimentando per conto loro, nel nostro paese come in altri, diffuse situazioni di insofferenza per la curva all’ingiù che la qualità della vita ha ormai palesemente imboccato, e per le iniquità di cui molti si sentono vittime. Ampliare il numero dei malcontenti moltiplicando i lavoratori che sono perentoriamente costretti a scegliere, come a Pomigliano, tra lavoro degradato e disoccupazione, o assistervi senza fare nulla, è una pessima ricetta politica. Alla quale un’impresa dovrebbe evitare di aggiungere i suoi particolari ingredienti.
Per altro il rischio maggiore che Fiat corre e fa correre a tutti noi risiede nel dare una robusta mano a coloro che intendono demolire la costituzione repubblicana. La proposta ventilata di modificare come nulla fosse l’art. 41 della suprema legge, perché a qualcuno dà fastidio che la legge determini i programmi e i controlli opportuni affinché l’attività economica possa essere indirizzata a fini sociali, come in fondo si dice in tutte le costituzioni, potrebbe venir liquidata come la dabbenaggine che è; ma se il lodo Pomigliano, chiamiamolo così, si affermasse lasciando intatte le sue licenze costituzionali, i nemici di quell’articolo ne trarrebbero un cospicuo vantaggio. Autorizzandoli pure a mettere in discussione, perché no, l’art. 36, secondo il quale il lavoratore ha diritto, nientemeno, a una retribuzione sufficiente in ogni caso ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. E magari altri articoli a seguire, in tutto il Titolo III che riguarda i rapporti economici.
Portare a Pomigliano il grosso dell’organizzazione del lavoro vigente in Polonia sarebbe già un successo per la Fiat. Sul resto, ivi compresa la percentuale dei consensi alle sue proposte, forse le converrebbe, e converrebbe al paese, non esagerare con le richieste trancianti.
* la Repubblica, 23 giugno 2010
FIAT
A Pomigliano non c’è il plebiscito
62,2% di sì, il fronte del no al 36%
Terminato lo scrutinio del referendum tra i lavoratori: i favorevoli sono la maggioranza, ma i numeri non sono quelli auspicati dal Lingotto. Affluenza al 95%. La Fiom non firmerà in ogni caso, "ma siamo pronti alla trattativa". Bonanni: "Ha vinto il buonsenso". Dall’azienda un progetto per "blindare" l’accordo. Bersani: "No al piano C". Sacconi: "Ora il Paese è più moderno" *
POMIGLIANO D’ARCO (Napoli) - Vince ma non sfonda il sì al referendum tra gli operai dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco: un voto che è servito ai lavoratori per esprimersi sull’intesa siglata lo scorso 15 giugno tra la Fiat e la sigle sindacali, eccetto la Fiom. I sindacati si dicono soddisfatti del 63% dei consensi circa conquistato dal sì mentre il ministro Sacconi afferma che adesso il paese è più moderno. Ma nella fabbrica campana della Fiat sono tutti consapevoli che a pesare nel prossimo futuro sarà anche il 36% raggiunto dal fronte del no.
Ora è tutto nelle mani della Fiat e qualcuno, come la Fiom, teme che questo risultato possa non bastare al Lingotto e che l’azienda possa giocare sulla percentuale negativa registrata nella consultazione per tirarsi indietro e negare gli investimenti, ovvero i 700 milioni per il progetto nuova Panda a Pomigliano. Poco dopo i primi scrutini, che in verità sembravano profilare una vittoria del sì con oltre il 76%, il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi aveva esortato la Fiat a riconoscere che "vi sono tutte le condizioni per realizzare il promesso investimento in un contesto di pace sociale". Il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, aveva ammonito il Lingotto: "Mi aspetto che se c’è un sì, la Fiat manderà avanti senza meno il suo progetto", aveva detto facendo riferimento al paventato "piano C". "Perché se i lavoratori dicono sì", aveva aggiunto, "è un sì a quel che dice la Fiat".
C’è poi l’altro fronte dei sindacati con la Fim e la Uilm in primo luogo, che se da un lato si dicono soddisfatte del successo ottenuto, dall’altro chiedono alla Fiat di ratificare presto l’accordo e, quindi, di tener fede agli impegni. Saranno quindi giorni altrettanto decisivi quelli che seguiranno al referendum di ieri. Il sindacato più critico all’accordo, la Fiom, anche stanotte ha ribadito il suo no all’intesa, ma secondo quanto sottolineato dal segretario della federazione napoletana, Massimo Brancato, "se la Fiat apre una trattativa e si predispone ad una mediazione che rispetti la costituzione, le leggi dello stato e il contratto, ci sediamo a un tavolo e siamo disponibili a fare un negoziato".
E a chiedere di riaprire le trattative, quando il risultato già sembrava offrire ai contrari all’accordo un risultato per così dire affatto deludente, arriva anche la vice segretaria nazionale della Cgil, Susanna Camusso: "la partecipazione al voto era prevedibile come la prevalenza del sì - spiega la sindacalista - Chiediamo a Fiat di avviare l’investimento e la produzione della nuova Panda a Pomigliano e di riaprire la trattativa per una trattativa condivisa da tutti". E se il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, subito dopo l’esito del voto sottolinea che in questo referendum "ha vinto il lavoro e il buon senso", il segretario della Uil Campania, Giovanni Sgambati mette in evidenza come "una percentuale così elevata di partecipazione non si era mai registrata in un referendum sulla flessiblità nel settore metalmeccanico". Un buon risultato, avvertono, anche se stasera, all’uscita della fabbrica alcuni lavoratori dello stabilimento, con in mano solo le primissime proiezioni hanno comunque già avvertito: "anche se vince il sì la lotta per i nostri diritti continua".
* la Repubblica, 23 giugno 2010
L’assedio di Pomigliano
di Erri De Luca (il manifesto, 17 giugno 2010)
Gli operai sardi si sono accampati nel carcere spento dell’isola Asinara. I fuochi dell’ultima rivolta furono seguiti da un ultimo falò: a celle vuote le guardie rastrellarono i libri dei prigionieri e li bruciarono. Gli operai sardi si sono arroccati sulle ceneri fredde di un’isola deserta. Dalle parti di Pomigliano niente isola di scorta, da farci i baraccati. Da quelle parti non si chiudono né svuotano carceri, anzi si stivano alla maniera delle sardine all’olio. In queste ore gli operai della Fiat di Pomigliano sbattono la testa contro muri che si stringono addosso. Le condizioni del proprietario dell’assedio sono di resa senza condizioni. Esigono la deposizione delle armi, l’uscita a mani in alto, la trasformazione del posto di lavoro in uno di prigionia.
È la sconfitta e va guardata in faccia. Perché va accettata. Perché succede alla storia di regredire invece di avanzare e ai diritti conquistati di essere perduti. È stagione di ammutolimento generale nel recinto della società. È stagione di riduzione del lavoro umano a ingranaggio del profitto privato, esposto al suo libero arbitrio. Come fu negli anni della restaurazione della tirannia in fabbrica dopo la lotta di liberazione, così oggi la vita operaia è variabile dipendente da orari, turni, tempi e soprusi della proprietà aziendale.
Cedere: questo è l’ordine del giorno. Con il pensiero intatto, almeno quello, che siano passi indietro come quelli di chi prende rincorsa per rivincere.
È un’intesa che mina l’essenza della Costituzione
Oggi in Italia la questione sociale si salda con quella democratica. Le regole della nostra Carta sono poste a tutela dei soggetti deboli, difendiamole
di Tania Groppi, costituzionalista (l’Unità, 16.06.2010)
L’accordo proposto dalla Fiat ai sindacati per trasferire dalla Polonia a Pomigliano la produzione della Panda tocca un nervo scoperto del sistema italiano delle relazioni industriali. Ma non solo. Esso è sintomatico di una tendenza che sembra inarrestabile, volta a mettere in discussione l’essenza stessa della Costituzione italiana.
L’aspetto più evidente, ovviamente, è l’impatto, sulla pelle dei lavoratori, della globalizzazione sfrenata, con la “concorrenza al ribasso” che porta con sé. Al contempo, l’intero sistema-paese viene attratto in un gorgo che, allo scopo di intercettare capitali, gli impone di ridurre quelle garanzie dei diritti sociali che rappresentano uno degli assi portanti della vigente Costituzione repubblicana.
Che sia necessaria una riflessione sul futuro dello Stato sociale, nel mondo globale, non è certo una novità. Ma una cosa è cercare di esplorare vie per assicurare la compatibilità tra libero mercato e garanzia dei diritti, un’altra è, semplicemente, svuotare o stravolgere le regole esistenti. E ciò tanto che lo facciano soggetti privati (come in questo caso) o titolari del potere politico (come nella recente, e ancora aperta, vicenda dell’art. 41 Cost.).
Ed è qui che la questione sociale si salda, oggi in Italia, con quella democratica. Ovvero con la necessità di difendere le regole della democrazia costituzionale. Regole che sono poste a tutela dei soggetti deboli, siano essi le minoranze politiche o i lavoratori.
Quando un primo ministro dice, ripetutamente, per anni, che governare con le regole che la Costituzione impone è un inferno. Quando queste regole vengono violate ripetutamente, sia attraverso le ordinanze di necessità di urgenza, che con i decreti legge, che con i maxiemendamenti su cui si appone la fiducia, che con leggi ad personam... Quando questa è l’attitudine verso le regole della convivenza dei massimi titolari del potete politico, il rischio che anche i soggetti privati pensino di poter impunemente disattendere le regole costituzionali si fa concreto. Una Costituzione delegittimata, ridotta a un’inutile rete di lacci e lacciuoli. Una Costituzione vecchia, adatta per un’Italia che ormai non esiste più. I suoi difensori dei retrogradi parrucconi conservatori che conducono una battaglia di retroguardia. Ecco il messaggio che deve passare.
A questo punto, ad essere messe in discussione non sono solo le singole regole costituzionali, ma la stessa essenza del patto di convivenza su cui si basa la nostra Repubblica, come Stato democratico e sociale, fin dall’articolo 1, «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Ma se così è, deve essere chiaro che la battaglia per la difesa della Costituzione e la battaglia per i diritti dei lavoratori non possono che andare di pari passo.
Sorpresa: è tornato Carlo Marx
La vicenda di Pomigliano sta riportando d’attualità vecchie espressioni come lo scontro fra capitale e lavoro. Il guaio è che la globalizzazione è entrata in una nuova fase ma l’Italia non l’ha capito
di Loretta Napoleoni (l’Unità, 16.06.2010)
La previsione. Se la torta non viene divisa più equamente, la crescita si blocca e nessuno mangia più. Lo aveva detto un certo Marx due secoli fa
Riparte la lotta operaia lungo la catena di montaggio che ormai unisce l’est all’ovest. I metalmeccanici cinesi strappano alla Foxconn e all’Honda concessioni importanti verso la creazione di uno statuto dei lavoratori che i nostri operai invece stanno per perdere. Le stesse forze che applaudono alla vittoria cinese in occidente, incitano gli italiani a rinunciare ai privilegi conquistati in decenni di lotte. Ecco l’ultimo atto canaglia dell’economia globalizzata, e per conciliare questi atteggiamenti incompatibili non si esita a suggerire di cambiare la Costituzione. Peccato che questa contraddizione sia irrisolvibile con i tagli alla Costituzione o ai costi di produzione. Non si illudano politici e alcuni industriali: la crisi è sistemica, e se non viene risolta da entrambi i fattori dell’equazione produttiva: capitale e lavoro, tra dieci anni il nostro capitalismo potrebbe non esistere più. I destini degli industriali e degli operai occidentali sono tornati a incrociarsi.
Per vent’anni la formula della globalizzazione è stata: taglio dei tassi d’interesse e delocalizzazione, un’equazione che ha evitato al capitalismo, quello vero, non il suo avatar finanziario, di confrontarsi con il suo nemico numero uno: la caduta tendenziale del saggio di profitto. Marx ne parla a lungo, ma anche Smith e Ricardo accennano a questo virus che si rafforza con il dilagare della produzione meccanizzata. Meno lavoro umano si utilizza nella produzione, meno grasso sarà il profitto; l’uomo e la sua intelligenza hanno un valore aggiunto superiore alla macchina.
Gli asiatici lo sanno bene, noi ce ne siamo dimenticati. La Honda e la Foxconn si piegano ai voleri degli operai cinesi invece che rimpiazzarli con nuove tecnologie o delocalizzare la produzione in Vietnam perché il valore aggiunto della manodopera cinese è ancora imbattibile. Per produrre autovetture ed ipod di prima qualità ci vuole, per dirla alla Adam Smith, la mano “magica” dell’operaio specializzato.
La disputa tra capitale e lavoro alla Fiat è solo l’anteprima di ciò che ci aspetta nei prossimi anni se non ci decidiamo a risolvere il problema della caduta tendenziale del saggio di profitto. Con i tassi d’interesse ormai a zero l’unico modo per contrastarla è tagliare il costo del lavoro, già ridotto all’osso. Delocalizzare in Cina o in Asia non è più così conveniente, ce lo confermano gli scioperi a Shenzhen, si rischia di ritrovarsi con le stesse dispute dall’altra parte del mondo. È vero, ci sono sempre i Paesi dell’ex est europeo: Polonia, Serbia, Slovacchia dove un operaio guadagna ancora 350 euro al mese e dove la vita è quasi tanto cara quanto a casa nostra. Questa la minaccia della dirigenza Fiat: chiudiamo Pomigliano e ce ne andiamo tutti in Polonia, la Panda invece che nel mediterraneo la facciamo a due passi dal Baltico.
Il discorso non fa una piega, peccato che non si sia preso minimamente in considerazione il mercato di sbocco. Ecco l’altro grande ostacolo del capitalismo: il mercato di sbocco, un volano industriale che bisogna conquistarsi con crescente difficoltà. Quello cinese si chiama mercato interno: un miliardo e 300 milioni di operai. Anche in Italia un tempo si chiamava nello stesso modo. Negli anni del miracolo economico la Fiat produceva utilitarie che poi vendeva a quella classe media ed operaia che l’aiutava a produrle.
Il capitalismo, ricordiamolo, prende il nome dal capitale, ma altro non è che il prodotto del rapporto tra questo e il lavoro: l’uno senza l’altro non possono esistere. Se togliamo la fabbrica agli operai italiani e paghiamo 350 euro a quelli slovacchi, la moderna utilitaria chi la comprerà? È una domanda che tutti gli industriali dovrebbero porsi. E prima di guardare oltralpe, facciamo due conti con la concorrenza. La Fiat non è la Toyota che da vent’anni produce macchine ibride, non è neppure la cinese Grenley che si è comprata la Volvo. Non ha né il prodotto, né i muscoli per competere a livello internazionale con i vecchi e nuovi giganti dell’auto. E, ahimé, questo discorso vale un po’ per tutta la nostra industria che negli ultimi anni ha perso lustro e fatica a sostenere la concorrenza agguerrita degli asiatici.
La grande sfida della seconda fase della globalizzazione si chiama mercato nazionale, come difendere capitale e lavoro in un’economia mondiale tendenzialmente canaglia? L’Italia non è la Germania, terzo esportatore al mondo, ma è un Paese dove c’è ancora voglia di lavorare, dove la classe media e quella operaia sono più povere che vent’anni fa, dove un insegnante di liceo guadagna 1200 euro al mese. C’è spazio quindi per la crescita economica, ma per averla bisogna che la torta venga divisa più equamente, le briciole non bastano più. Se non lo facciamo, nessuno mangerà più: l’ha predetto due secoli fa Carlo Marx.
L’INTERVISTA
Epifani: la Fiat ci ripensi
la fabbrica non è una caserma
Parla il leader della Cgil: siamo disponibili a trovare soluzioni per un assenteismo che a tratti è stato intollerabile. "Cadano i limiti a scioperi e malattia, e noi diciamo sì"
di ROBERTO MANIA *
ROMA - "Marchionne ci ripensi: non contrapponga lavoro a diritti. Pomigliano non può diventare una fabbrica-caserma. E il "piano B" sarebbe anche una sua sconfitta". Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, parla mentre, a qualche chilometro di distanza, è in corso il Comitato centrale della Fiom sul caso-Pomigliano. Sa già come andrà a finire: no alla proposta della Fiat.
Lei condivide la posizione della Fiom?
"Io dico ciò che chiede la Cgil: che si realizzi rapidamente l’investimento previsto per lo stabilimento di Pomigliano. Questo è il frutto di anni di mobilitazione nel territorio da parte dei sindacati, della Cgil, della Chiesa, delle istituzioni locali. A Napoli non c’è alternativa. Stiamo parlando di 15 mila posti di lavoro, compresi quelli dell’indotto. Un piano di queste dimensioni impone una sfida che sicuramente deve essere raccolta: quella della saturazione degli impianti e della turnazione. Su questo non dobbiamo avere timidezze. I 18 turni non sono una novità. In molte fabbriche si lavora 24 ore su 24 per sette giorni. Sappiamo che sarà un sacrificio alto per i lavoratori, perché non è facile lavorare il sabato e la domenica di notte, perché non è la stessa cosa lavorare alla catena di montaggio o stare seduti davanti a una scrivania".
Sta ragionando come se il no della Fiom fosse ininfluente. Le ricordo che Marchionne ha posto come condizione l’accordo di tutti i sindacati senza escludere di poter mantenere la produzione della Panda in Polonia.
"C’è un capitolo del documento della Fiat che apre problemi molto gravi. Riguarda la malattia e lo sciopero. Abbiamo consultato insigni giuristi e ci dicono che, senza chiarimenti e correzioni, quelle clausole appaiono illegittime o addirittura incostituzionali. Mi domando: si può sottoscrivere un accordo con questi profili di illegittimità? Questo è il punto. Conviene alla Fiat che chiede certezze uno scenario di questo tipo?".
Lei pensa che la Fiat, la Cisl e la Uil possano firmare un accordo addirittura incostituzionale? Le sembra possibile? Non sarà la vostra una forzatura interpretativa?
"Per quanto mi risulta anche i metalmeccanici di Cisl e Uil avevano sollevato i nostri stessi argomenti. Poi ha prevalso lo spirito di chiudere. Ma c’è il rischio di un fiorire di iniziative giudiziarie, se non vengono chiariti quegli aspetti, perché la nostre preoccupazioni sono molto fondate. Al primo ricorso quel piano non regge. Per questo chiedo a Marchionne un ripensamento".
La Cgil sostiene che una firma su un accordo del genere sarebbe "invalida, inefficace e inesistente". Se è così perché intanto non la mettete?
"Rovesciamo il problema: a cosa servirebbe un sì in questo modo? A nulla. La Fiat non deve piegare i sindacati ma trovare un piano che regga. La Cgil è assolutamente disponibile a trovare soluzioni per un assenteismo che a tratti ha assunto a Pomigliano caratteristiche intollerabili. Siamo pronti e abbiamo anche le nostre proposte".
Quali?
"Ne parleremo".
Esclude che Marchionne possa applicare il "piano B" e non spostare la produzione della Panda a Pomigliano?
"Penso che alla fine possa prevalere in Marchionne il senso della forza dell’operazione Pomigliano. Ha scommesso troppo sulla Fabbrica Italia. Il "piano B" sarebbe anche una sua sconfitta. Gli chiedo di non attuarlo, ma so che il "piano B" è concretamente nelle sue mani".
Lei ha fatto tutto per arrivare a un’intesa? Possibile che la Cgil scopra i problemi sempre poco prima della firma?
"Non è così. Stiamo rincorrendo centinaia di vertenze in tutta Italia. In questo caso, mi dispiace, è mancato il rapporto tra la Cgil e la Fiom nella costruzione della soluzione".
La colpa è della Fiom?
"È un dato di fatto perché questa vicenda ha ricadute su vari settori, non solo sui lavoratori metalmeccanici".
La Fiom ha parlato di "ricatto" da parte di Marchionne. Lei userebbe la stessa parola?
"Se si intende dire che la Fiat ha tirato troppo la corda, c’è una parte di verità. L’intera verità è che la Fiat ha integralmente la possibilità di decidere. È una situazione inedita nella quale il Lingotto ragiona come una multinazionale che non ha più nulla da chiedere al governo italiano".
Se ci sarà il referendum è scontata la vittoria del sì. A quel punto la Fiom dovrà firmare?
"Deciderà la Fiom. È giusto che i lavoratori comunque dicano la loro. La Fiom deve potere dire sì o no, può chiedere il giudizio dei lavoratori, ma non può scaricare tutte le responsabilità su quest’ultimi".
* la Repubblica, 15 giugno 2010
Adesso c’è anche l’assalto al diritto allo sciopero
I costituzionalisti lanciano l’allarme
«Attenti agli aut aut»
Incontro di una cinquantina di accademici con Bersani e Violante.
Difendere la Carta dai colpi di mano del governo
di Maria Zegarelli (l’Unità, 15.06.2010)
Certo, tutti cercano di attenersi al tema all’ordine del giorno, le riforme istituzionali a cui sta lavorando il Partito democratico, ma la preoccupazione anche per l’assalto all’articolo 41 della Carta Costituzionale, tra gli oltre 50 costituzionalisti riunitisi ieri nella Sala della Regina a Montecitorio, è forte. L’invito è partito dal segretario Pier Luigi Bersani, che si prepara, con il responsabile Riforme, Luciano Violante, alla «campagna d’autunno», proprio sui temi della Costituzione, ma come prescindere dalla stretta attualità, dalla lettura dei quotidiani? Impossibile, anche perché l’accordo che una delle realtà imprenditoriali più importanti del Paese vuole siglare con i sindacati minerebbe parecchi di diritti sanciti dai costituenti. Tania Groppi, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nella facoltà di Economia dell’Università di Siena, appena uscita dal seminario Pd, prova a fare il punto: «A me sembra che la tendenza che la maggioranza di governo viveva finora di insofferenza verso le regole, si stia diffondendo anche al settore privato e sia passata dalle garanzie ai diritti dice Groppi poco dopo aver lasciato i lavori del seminario -. Berlusconi da sempre, e ultimamente con maggiore insistenza, dice che tutte queste regole sono un impedimento al suo lavoro: adesso mi sembra che si sia fatto un ulteriore passo cercando di intaccare i diritti sociali, quelli dei lavoratori». Secondo la costituzionalista la Fiat con questo accordo mette in discussione lo stesso diritto allo sciopero, alla salute, al riposo e quello alla partecipazione politica».
E non è un caso che ieri, durante l’incontro a porte chiuse, a cui erano presenti tra gli altri, Onida, Sorrentino, Luciani, Barbera, Bassanini, De Martin e Giorgis in tanti abbiano ribadito la necessità di difendere con convinzione la Costituzione, nella «prima e nella seconda parte». Da qui la larga condivisione della platea per la piattaforma di lavoro illustrata da Violante che «punta molto sul rilancio della democrazia partecipativa, sulla necessità di una rinnovata legittimazione delle istituzioni, del rapporto tra elettori e eletti e della centralità del parlamento», come commenta uno dei presenti.
Allarme, rinnovato, poi per una possibile forzatura da parte della maggioranza per le riforme istituzionali. «Le riforme vanno fatte senza aut-aut ma con larga condivisione». Ai costituzionalisti presenti è stato anche chiesto quanto percorribile possa essere lo strumento del referendum per l’abrogazione del Porcellum e l’eventuale reviviscenza del Mattarellum. Alla fine la linea che è prevalsa è stata quella della cautela. Lo stesso Bersani, ha avvertito: «Attenzione, il quorum in questi ultimi venti anni non è mai stato raggiunto. Potrebbe rivelarsi un boomerang. Noi dobbiamo dire con chiarezza che siamo contro questa legge elettorale e che si devono saldare questione sociale e questione istituzionale». C’è chi fa anche notare che dubbi di ammissibilità davanti alla Corte Costituzionale sul referendum abrogativo per il Porcellum ce ne sono e non vanno sottovalutati. Il Pd, dal canto suo, trova un punto di condivisione al suo interno: non porsi in termini «statici» rispetto alle riforme, ma di difendere con decisione l’impianto della Carta fondativa.
«Si rispettino le regole, l’Italia non è il Burundi»
Un’associazione privata come il sindacato non può convalidare atti costituzionalmente illegittimi dei datori di lavoro come l’art. 14 dell’intesa
di Luigi Mariucci, Diritto del lavoro a Ca’ Foscari (l’Unità, 15.06.2010)
I l documento Fiat su Pomigliano assomiglia, per usare un eufemismo, più a una dichiarazione unilaterale che a una proposta contrattuale. Il testo contiene molte rilevanti modifiche della condizione di lavoro e del sistema di relazioni contrattuali. Sul primo piano basti vedere le misure previste in tema di orario di lavoro: 24 ore di produzione continua, 18 turni settimanali, compreso il sabato notte, lavoro straordinario direttamente esigibile dall’azienda, deroghe al regime delle pause. Colpiscono, in particolare, clausole siffatte: «Le soluzioni ergonomiche (...) permettono sulle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo, un regime di tre pause per 10 minuti ciascuna (...) che sostituiscono le attuali due pause di 20 minuti». E lo chiamano postfordismo! Vi sono poi norme c.d. anti-assenteismo che prevedono la mancata retribuzione dei giorni di malattia se le assenze superano una certa media, colpendo, per così dire, nel mucchio. Infine è prevista una «clausola di responsabilità» molto pesante a carico dei sindacati, in caso di comportamenti difformi dalle regole sopra definite, in termini di sanzioni riferite ai contributi e ai permessi sindacali.
Dicono che questo diktat, anzi, si perdoni il lapsus, questo accordo è necessario per assicurare la prospettiva produttiva di Pomigliano e che questo è reso necessario dalla competizione globalizzata. E sia. Fin qui si può fare, nella consapevolezza che tutto ciò comporta duri sacrifici e costrizioni per i lavoratori e una assunzione molto forte di responsabilità per i sindacati. Purché di questo non si faccia la bandiera di un «nuovo sol dell’avvenire», come predica l’attuale ed ex-socialista ministro del lavoro in carica. Ciò che non si può fare è invece pretendere di modificare, con un c.d. contratto collettivo, addirittura la Costituzione. Ciò è quanto si verifica, in particolare, nel punto 14 del testo, che merita di essere citato per intero: «Le clausole indicate integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro al cui interno sono da considerarsi correlate ed inscindibili, sicché la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce infrazione disciplinare di cui (...) agli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti(...)».
Questa clausola è due volte illegittima: perché qualifica arbitrariamente come parte normativa del contratto impegni di parte obbligatoria, riferite ai sindacati stipulanti; e perché pretende addirittura di trasformare in illecito, passibile di licenziamento, l’esercizio del diritto individuale di sciopero, sancito dalla Costituzione. La firma già apposta da qualche sindacato a questa clausola non è semplicemente invalida: è inefficace, inesistente, tamquant non esset, dicevano gli antichi. Una associazione privata, qual è il sindacato, non può infatti convalidare atti costituzionalmente illegittimi dei datori di lavoro. Non si modifica per contratto la costituzione: questo è l’abc dell’alfabeto costituzionale. Forse questo si può fare in Cina, negli Usa o nel Burundi, ma non in Italia. Perciò a mio giudizio la Fiom-Cgil farebbe bene a siglare con riserva quel testo, con una assunzione straordinaria di responsabilità, limitando gli effetti giuridici della sua firma alle parti del testo riferite a materie di competenza contrattuale e dichiarandone l’ovvia irrilevanza per le parti relative a discipline inderogabili di legge.
OCCUPAZIONE
Fiat: firmato accordo separato, Fiom resta sul ’no’
Il monito di Schifani : "No ai veti su Pomigliano"
Fim, Uilm, Fismic e Ugl hanno firmato il nuovo documento presentato dal Lingotto. Referendum il 22 giugno. Tremonti: "È rivincita dei riformisti". Il presidente del Senato commenta la difficile trattativa sul futuro dello stabilimento napoletano *
ROMA - Accordo separato sullo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco. Fim, Uilm, Fismic e Ugl hanno firmato il nuovo documento, integrato, presentato dal Lingotto. La Fiom ha confermato il suo no. I sindacati dei metalmeccanici firmatari dell’accordo hanno promosso un referendum tra i lavoratori che si terrà il prossimo martedì 22 giugno. La Fiat ha sottoposto ai sindacati dei metalmeccanici un nuovo documento in cui viene aggiunto il 16mo punto relativo alla istituzione di una commissione paritetica di raffreddamento sulle sanzioni, come era stato richiesto dalle organizzazioni che venerdì scorso avevano già dato un primo ok.
’’L’accordo di oggi non sblocca gli investimenti’’ pari a 700 milioni di euro circa della Fiat per lo stabilimento di Pomigliano ’’che sono legati all’esito del referendum tra i lavoratori’’. Lo ha detto il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, al termine dell’incontro che si è concluso con un accordo separato. ’’La Fiat ci ha detto - ha spiegato - che bloccherà gli investimenti quando la stragrande maggioranza dei lavoratori dirà sì all’intesa’’. I lavoratori ’’devono capire - ha sottolineato - che la posta in gioco è molto alta’’.
Rivincita dei riformisti. "È la rivincita dei riformisti su tutti gli altri". Così il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha commentato la firma dell’accordo.
Brunetta: "Inaccettabile riferimento di Fiom a Costituzione". Il riferimento alla Costituzione da parte della Fiom è ’’inaccettabile’’ e rappresenta ’’un uso improprio’’ della Carta fondamentale. È quanto sostiene il ministro della Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta, parlando della posizione del sindacato dei metalmeccanici sull’accordo con Fiat per lo stabilimento di Pomigliano. Brunetta, nel corso del suo intervento a un convegno organizzato dalla fondazione Magna Carta, commentando le argomentazioni della Fiom, ha affermato: ’’Mi sembra si faccia un uso improprio della Costituzione, tutti hanno i loro diritti però questo mi pare eccessivo’’.
"Pomigliano è un banco di prova per tutti. Non può e non deve prevalere la logica dei veti incrociati. Non è più il tempo del no o della fuga. Per salvare l’occupazione e la dignità del lavoro serve uno sforzo comune ed un sano realismo. Pomigliano non deve chiudere". Lo afferma il presidente del Senato Renato Schifani nel suo intervento presso la sala capitolare del palazzo della Minerva, in occasione del rapporto Cisf 2009 su ’Il costo dei figli’. Parole dirette alla Fiom, unico sindacato ad non essere d’accordo con l’intesa proposta della Fiat.
Schifani poi ha parlato della crisi e della manovra economica varata dal governo. Definendola "un passaggio necessario ed urgente". "Non inganniamoci e non inganniamo: serve contenere per tempo e stabilmente la spesa pubblica. Il tempo delle cicale è finito" afferma il presidente del Senato, Renato. Che invita "maggioranza ed opposizione al confronto vero, perchè serve il contributo di tutti per preservare la coesione sociale e nazionale".
E anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, nel corso del suo intervento alla presentazione della relazione annuale dell’Antitrust, ha puntato il dito contro alcuni "nodi strutturali che se non risolti possono spingere il Paese lungo una fase di pericoloso declino. Serve quindi un efficace strategia di crescita che affiancata a quella della stabilità possa garantire alla comunità nazionale il pieno recupero di competitività sulla scena internazionale". Una strategia di crescita che passa anche per l’intervemto pubblico. "Questo non significa partecipazioni statali, ma capacita’ di verificare i comportamenti dei privati e la loro riconducibilita’ a regole necessarie per garantire correttezza e trasparenza’’ dice Fini.
Schifani, inoltre, ha assicurato che le due Camere taglieranno i loro costi: "Spese superflue e privilegi sono oggi un’arroganza insopportabile. Il Senato e la Camera daranno segnali chiari ed inequivocabili di sobrietà ed equità".
* la Repubblica, 15 giugno 2010