L’amarezza dei cattolici del No. "Vince la Chiesa del silenzio"
Da Franzoni a Scoppola, i protagonisti del manifesto pro-divorzio giudicano la Nota della Cei L’ex abate di San Paolo: "Ripenso a Giovanni XXIII quando denunciava i profeti di sventura che vedono una aggressione in ogni novità"
di MARCO POLITI (la Repubblica, 30.03.2007)
ROMA - «Ho la sensazione - esclama Giovanni Franzoni - che i vescovi siano nel panico. La Chiesa ha paura. Ripenso a Giovanni XXIII, quando denunciava i "profeti di sventura", che vedono in ogni novità un’aggressione alla Chiesa».
Tra i veterani cattolici delle battaglie degli Anni Settanta per la libertà di voto e la laicità dello Stato (che allora si incarnava nella difesa della legge sul divorzio) regna un’atmosfera che è più di sconcerto che di indignazione. E’ l’atteggiamento di chi vede una macchina che sbanda e si chiede: «Ma dove stanno andando?». Perché una cosa hanno imparato i Cattolici del No. Veti, proclami, diktat pronunciati dalle autorità ecclesiastiche non hanno mai fermato l’evoluzione della società.
Franzoni, abate di San Paolo fuori le Mura, il 27 aprile del 1974 fu sospeso a divinis dal Vaticano perché perorava la causa della non abolizione della legge sul divorzio. «Non c’è solo - dice - la scorrettezza concordataria: i vescovi affermano di non fare politica e poi vogliono vincolare i parlamentari a respingere i Dico. Preoccupante è che da parte loro manchi una qualsiasi proposta in positivo». I ragazzi di oggi, spiega, scoprono l’eros a quattordici anni e si sposano dopo i trenta: «In mezzo che devono fare? Quale modello di relazionalità viene loro offerto dalla Chiesa? Si può continuare a predicare solo la castità?».
Pietro Scoppola, il professore dal temperamento così diverso dall’ex abate, faceva anche lui parte del cartello dei cattolici, che sfidarono la gerarchia ecclesiastica. «Il nostro No al referendum sul divorzio - racconta - aveva un senso preciso. Ritenemmo che il modello alto di matrimonio sacramentale non poteva venire imposto per legge ai non credenti. Sentivo rispetto per i cittadini che non condividevano le mie posizioni».
Oggi Scoppola scuote la testa. «E pensare - soggiunge - che per tanti anni i vescovi hanno condotto battaglie accanite contro il matrimonio civile e oggi se ne fanno difensori». Adesso ritiene che sia l’ora della riflessione. «C’è da capire dove si va con questi interventi? Sta maturando qualcosa di nuovo e bisogna meditare più che reagire emotivamente».
Chi come Ettore Masina è uno dei firmatari dell’appello-Alberigo (che supplicava la Cei di non diramare ordini) ed è stato al tempo stesso uno dei primi firmatari dell’appello dei Cattolici per il No negli anni Settanta, risponde lapidariamente: «Provo desolazione. Tutto si ripete. La Chiesa che negli anni Cinquanta condannava i lettori dell’Unità e dell’Avanti. Poi Gedda che epurava dall’Azione cattolica Carlo Carretto e Mario Rossi, accusandoli di essere eretici e comunisti. Poi l’opposizione alla legge sul divorzio». Ogni volta la stessa cosa. Un blocco dall’alto.
«Questa Nota - dichiara Masina - nega il valore supremo dell’uomo: la libertà di coscienza. Certo che deve essere rettamente formata, meditando sul magistero ecclesiale, ma non si può enunciare un obbligo di comportamento in parlamento». Non si accorgono i vescovi che così si va al muro contro muro? «Vogliono Termopili perenni con gli Spartani cattolici contro i Persiani laicisti?».
E’ il clima difensivo, che regna tra le gerarchie ecclesiastiche, a disorientare la vecchia leva cattolica che sapeva alzarsi in piedi e dire il suo no sofferto ai vescovi. E’ un clima che descrivono improntato alla paura, al pessimismo sulla modernità, alla disciplina piuttosto che alla speranza. Alla fine, commentano, andrà come avvenne con il veto solenne ai contraccettivi: ci fu la diaspora silenziosa dei cattolici che regolavano in proprio (e continuano a farlo) le questioni sessuali.
«Chi decide: la coscienza o il magistero?», chiese a bruciapelo il cardinale di Milano Giovanni Colombo all’allora presidente delle Acli Domenico Rosati, quando scoppiò lo «scandalo» degli indipendenti cattolici che si presentavano nelle liste del Pci.
Era l’anno 1976 e le Acli si erano espresse in congresso per la libertà di voto degli aderenti. «Decide il magistero, eccellenza - replicò Rosati - che però dice che nessuno può andare contro la propria coscienza». Anche in quella stagione la Cei provò a minacciare para-scomuniche. Disse che quanti si candidavano con il Pci si «autoescludevano» dalla comunità ecclesiale. Un po’ come Ratzinger con la tesi della «coerenza eucaristica». Passata la tempesta, non successe niente. «Pratesi prendeva tranquillamente la comunione», conclude l’ex presidente aclista.
E torna la richiesta di una Chiesa dove il laicato possa discutere dei nuovi problemi apertamente. «Almeno un tempo si discuteva, si polemizzava, si occupavano persino le cattedrali... Oggi siamo scivolati nella Chiesa del silenzio e della prudenza, sembra quasi che non valga la pena di impegnarsi per la fede», conclude Raniero La Valle. Il dopo-Ruini deve ancora cominciare.
Costruire un «ordine giusto» è compito dei «fedeli laici». La Chiesa «non è un agente politico - ha ribadito Ratzinger - ma non può esimersi dall’occuparsi delle sorti della comunità civile»
il messaggio
Nel saluto inviato a Pistoia, il Papa ha ribadito le emergenze «etiche e sociali» che chiamano all’impegno: il rispetto della vita umana, la tutela della famiglia fondata sul matrimonio fra uomo e donna, la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato
Benedetto XVI: «Da credenti siamo al servizio del bene di tutti»
La «grande opportunità» offerta dalle «sfide» del Paese esige che i credenti «reagiscano non con un rinunciatario ripiegamento su se stessi ma, al contrario, con un rinnovato dinamismo, aprendosi con fiducia a nuovi rapporti e non trascurando nessuna delle energie capaci di contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia». Lo afferma Benedetto XVI nel messaggio inviato al presidente della Cei monsignor Angelo Bagnasco per la 45ª Settimana sociale dei cattolici italiani, letto ieri ai delegati dal nunzio in Italia monsignor Giuseppe Bertello.
La Chiesa, aggiunge il Papa nel testo che qui pubblichiamo integralmente, «non può esimersi dall’interessarsi del bene dell’intera comunità civile, in cui vive e opera, e a essa offre il suo peculiare contributo formando nelle classi politiche e imprenditoriali un genuino spirito di verità e di onestà». La Settimana, che da oggi a domenica prosegue a Pisa, secondo il Papa è l’«occasione per ribadire che operare per un giusto ordine nella società è immediatamente compito proprio dei fedeli laici » ai quali, «come cittadini dello Stato», compete di «partecipare in prima persona alla vita pubblica e, nel rispetto delle legittime autonomie, cooperare a configurare rettamente la vita sociale, insieme con tutti gli altri cittadini secondo le competenze di ognuno e sotto la propria autonoma responsabilità». (F.Ogn.)
Pubblichiamo il testo integrale del messaggio inviato da Benedetto XVI ai partecipanti alla 45ª Settimana sociale - apertasi ieri nella Cattedrale di Pistoia - indirizzato all’arcivescovo Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana.
C ade quest’anno il centenario della prima Settimana sociale dei cattolici italiani, svoltasi a Pistoia dal 23 al 28 settembre 1907, per iniziativa soprattutto del professor Giuseppe Toniolo, luminosa figura di laico cattolico, di scienziato ed apostolo sociale, protagonista del movimento cattolico sul finire del XIX secolo e agli albori del XX.
In questa significativa ricorrenza giubilare, invio volentieri il mio cordiale saluto a lei, venerato fratello, a monsignor Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea e presidente del Comitato scientifico ed organizzatore delle Settimane sociali, ai collaboratori e a tutti i partecipanti alla 45ª «Settimana », che si svolgerà a Pistoia e a Pisa da 18 al 21 ottobre corrente.
Il tema scelto - «Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano» -, pur essendo stato già affrontato in alcune precedenti edizioni, mantiene intatta la sua attualità ed anzi è opportuno che sia approfondito e precisato proprio ora, per evitare un uso generico e talvolta I improprio del termine «bene comune».
Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, rifacendosi all’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II, specifica che «il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro» (Costituzione Gaudium et spes, 164). Già il teologo Francisco Suarez individuava un bonum commune omnium nationum, inteso come «bene comune del genere umano».
In passato, e ancor più oggi in tempo di globalizzazione, il bene comune va pertanto considerato e promosso anche nel contesto delle relazioni internazionali ed appare chiaro che, proprio per il fondamento sociale dell’esistenza umana, il bene di ciascuna persona risulta naturalmente interconnesso con il bene dell’intera umanità. L’amato servo di Dio Giovanni Paolo II osservava, in proposito, nell’enciclica
Sollicitudo rei socialis che «si tratta dell’interdipendenza, sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo, nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa, e assunta come categoria morale» (n. 38). Ed aggiungeva: «Quan- do l’interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come ’virtù’, è la solidarietà. Questa, dunque, non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» ( ibid.).
Nell’enciclica Deus caritas est ho voluto ricordare che «la formazione di strutture giuste non è immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene alla sfera della politica, cioè all’ambito della ragione autoresponsabile» (n. 29). Ed ho poi notato che «in questo, il compito della Chiesa è mediato, in quanto le spetta di contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali, senza le quali non vengono costruite strutture giuste, né queste possono essere operative a lungo» ( ibid.). Quale occasione migliore di questa per ribadire che operare per un giusto ordine nella società è immediatamente compito proprio dei fedeli laici?
Come cittadini dello Stato tocca ad essi partecipare in prima persona alla vita pubblica e, nel rispetto delle legittime autonomie, cooperare a configurare rettamente la vita sociale, insieme con tutti gli altri cittadini secondo le competenze di ognuno e sotto la propria autonoma responsabilità. Nel mio intervento al Convegno ecclesiale nazionale di Verona, l’anno scorso, ebbi a ribadire che agire in ambito politico per costruire un ordine giusto nella società italiana non è compito immediato della Chiesa come tale, ma dei fedeli laici. A questo loro compito della più grande importanza, essi debbono dedicarsi con generosità e coraggio, illuminati dalla fede e dal magistero della Chiesa e animati dalla carità di Cristo. Per questo sono state sapientemente istituite le Settimane sociali dei cattolici italiani e questa provvida iniziativa potrà anche in futuro offrire un contributo decisivo per la formazione e l’animazione dei cittadini cristianamente ispirati.
La cronaca quotidiana mostra che la società del nostro tempo ha di fronte molteplici emergenze etiche e sociali in grado di minare la sua stabilità e di compromettere seriamente il suo futuro. Particolarmente attuale è la questione antropologica, che abbraccia il rispetto della vita umana e l’atten- zione da prestare alle esigenze della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Come è stato più volte ribadito, non si tratta di valori e principi solo «cattolici», ma di valori umani comuni da difendere e tutelare, come la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato.
Che dire, poi, dei problemi relativi al lavoro in rapporto alla famiglia e ai giovani? Quando la precarietà del lavoro non permette ai giovani di costruire una loro famiglia, lo sviluppo autentico e completo della società risulta seriamente compromesso. Riprendo qui l’invito che ebbi a rivolgere nel Convegno ecclesiale di Verona ai cattolici italiani, perché sappiano cogliere con consapevolezza la grande opportunità che offrono queste sfide e reagiscano non con un rinunciatario ripiegamento su se stessi, ma, al contrario, con un rinnovato dinamismo, aprendosi con fiducia a nuovi rapporti e non trascurando nessuna delle energie capaci di contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia.
Non posso infine non accennare ad un ambito specifico, che anche in Italia stimola i cattolici ad interrogarsi: è l’ambito dei rapporti tra religione e politica. La novità sostanziale portata da Gesù è che Egli ha aperto il cammino verso un mondo più umano e più libero, nel pieno rispetto della distinzione e dell’autonomia che esiste tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22, 21).
La Chiesa, dunque, se da una parte riconosce di non essere un agente politico, dall’altra non può esimersi dall’interessarsi del bene dell’intera comunità civile, in cui vive ed opera, e ad essa offre il suo peculiare contributo formando nelle classi politiche e imprenditoriali un genuino spirito di verità e di onestà, volto alla ricerca del bene comune e non del profitto personale.
Sono queste le tematiche quanto mai attuali a cui la prossima Settimana sociale dei cattolici italiani dedicherà la sua attenzione. Per coloro che vi prendono parte assicuro un particolare ricordo nella preghiera e, mentre auspico un fecondo e fruttuoso lavoro per il bene della Chiesa e dell’intero Popolo d’Italia, invio di cuore a tutti una speciale benedizione apostolica.
Dal Vaticano, 12 Ottobre 2007
Benedetto XVI
Bagnasco: "Il no ai Dico?
Come a pedofilia e incesto"
Poi la Cei: "Male interpretato"
Il capo dei vescovi: "Domani si potrebbero legalizzare altre aberrazioni". Poi una nota : "E’ stato forzato il suo pensiero". Duri Pecoraro Scanio e Pollastrini. Mastella: "Atteggiamenti isterici". Berlusconi: "Vescovi liberi di esprimersi, ma i laici sono liberi di pensare il contrario
La politica e la fede
di Furio Colombo (l’Unità, 1 novembre 2004)
Deve la fede, intesa come verità, prevalere non solo nel contesto di ciascuna vita di credente ma anche nella vita dei non credenti, nelle decisioni politiche che riguardano tutti? Se la fede prevale, non si forma una sorta di imposizione in nome della verità religiosa che si trasforma in legge?
Queste domande nascono da un titolo di questo giornale (8 ottobre) che, dando notizia della conclusione della Settimana Sociale dei cattolici, riassumeva con la frase: "Appello del Papa ai cattolici: entrare in politica per imporre la fede". Il titolo era motivato da alcuni passaggi letti, a conclusione dell’evento cattolico, dal Card. Ruini. Il passaggio chiave era quello che attribuiva al laicismo la colpa di coltivare il relativismo (ovvero il riconoscimento di altre verità diverse dalla propria) definendolo "rischio e minaccia per la democrazia". La democrazia - secondo il testo letto da Ruini - sarebbe stata garantita solo se "fondata sulla verità". Perché "senza il radicamento nella verità l’uomo e la società rimangono esposti alla violenza delle passioni e a condizionamenti occulti". Una lettrice, la signora Anna Maria Stua, aveva scritto per dire, da credente, che "la fede non si può imporre perché appartiene alla inviolabile libertà della coscienza". L’ipotesi dell’autrice della lettera era che l’Unità, con quel titolo, aveva deformato i fatti e forzato il senso delle cose dette nella Settimana Sociale dei cattolici. La lettera della signora Stua e la mia risposta sulle pagine de l’Unità sono state seguite da numerose lettere e-mail che rendono utile tornare sull’argomento.
IL 23 ottobre avevo risposto alla lettera della signora Stua (pag. 1 e pag. 24 de l’Unità) notando due aspetti del problema: il primo è che vi è certo un’aspirazione a imporre la fede quando si chiede che essa si trasformi in legge per tutti. La seconda per notare che, per fortuna, un clima di intelligente e rispettosa convivenza esiste in Italia, accanto, e nonostante l’integralismo di molti. E usavo come testimonianza una frase di Mons. Vincenzo Paglia, Vescovo di Terni, che in occasione di un dibattito con non credenti ha detto (questa era la mia citazione a memoria): "Ciascuno di noi possiede solo una piccola parte della verità. Perciò possiamo vivere accanto, ciascuno rispettoso dell’altro". Si trattava di un dialogo fra Mons. Paglia e Arrigo Levi, che per fortuna è riflessa in modo molto più completo in due libri che citerò secondo la data di pubblicazione: "Lettera a un amico che non crede" di Mons. Vincenzo Paglia, Rizzoli, 1998, e "Dialoghi sulla fede" di Arrigo Levi, Il Mulino, 2000.
Di Vincenzo Paglia ricorderò questa frase essenziale: "Ai laici e ai credenti è chiesto di inventare nuove "vie di mezzo", di interrogarsi sulle vie della salvezza, sui modi per combattere la superstizione e allontanare l’idolatria, sulle strategie per difendersi dai sincretismi ingannatori e ostacolare i fondamentalismi, su come praticare la vita interiore e difendere la pace e saper ascoltare il grido di tanti popoli" (pag. 27). Come si vede è una affermazione coraggiosa, una finestra aperta su un vasto paesaggio di comprensione reciproca fra ispirazioni diverse che corrisponde alla frase "ciascuno di noi possiede una piccola parte di verità..." che gli avevo attribuito nel mio articolo.
Il libro di Arrigo Levi che ho appena citato è notoriamente un diario in pubblico sul "dialogo delle fedi", ovvero sul come sentimenti e culture diverse convivono. Stiamo parlando di un’Italia profondamente civile che precede l’epoca sboccata dei finti credenti (si pensi alla invocazione delle radici cristiane da parte della Lega e di An)e di eventi come "il caso Buttiglione" destinato a segnare tristemente la storia della nuova Europa. Qui, nell’Italia del rispetto che stiamo citando, ogni parola ha un peso, e non è il "politicamente corretto" delle parole che conta, ma l’elaborazione attenta e misurata di passaggi difficili, da parte di persone che non si accontentano delle buone maniere e cercano, nella diversità, veri punti di contatto sia umani che culturali.
A pag. 55 del suo libro, Levi cita il Card. Martini che dice: "Le religioni sono l’esprimersi storico, dottrinale, sociale della fede e in questo esprimersi storico possono entrare valori e disvalori etnici, politici, nazionali che diventano motivo di conflitto". A questo punto Levi chiede al card. Martini: "Non vi è illogicità nel dialogo fra credenti, ciascuno dei quali ha una sua verità rivelata?". "No - replica il Cardinale - perché la verità rivelata non è una verità matematica. Verità è una parola che uso malvolentieri perché è una parola troppo grande, è una apertura su un mistero più grande, e io non riesco se non a intuire qualcosa, a balbettare qualcosa di questo mistero più grande di noi. Perciò è possibile dialogare con altri che, come me, non si accontentano delle cose che hanno davanti, se no non dialogherebbero. Citando Bobbio, l’importante è essere pensanti: non ci domandiamo se siamo credenti o non credenti, ma pensanti o non pensanti".
Queste parole del Card. Martini ad Arrigo Levi, che Levi riporta nel suo libro, corrispondono nitidamente alla citazione di Mons. Paglia da me riportata, sia pure a memoria. E ci indicano un modo di parlare di fede in un tempo e in un luogo (questa Italia) in cui la religione viene usata come strumento di intimidazione e di governo nel tentativo di isolare i miscredenti, vuoi islamici (la invocazione ripetuta alla guerra santa), vuoi "comunisti" (ovvero tutti coloro che si oppongono). Ci parla della preoccupazione morale e culturale di impedire uno scontro come conseguenza del non riconoscersi. È una testimonianza di civiltà. E per questo, in un momento difficile e torbido della vita italiana, è sembrato importante, rispondendo alla lettera della signora Stua e poi alle molte e-mail ricevute, parlarne ancora in queste pagine.