La crociata del governo contro «i pervertiti»,
l’isolamento delle associazioni.
«Una campagna d’odio per annientarci.
E dall’Ue solo sostegno spirituale»
di Sandro Scabello (Corriere della Sera, 31 luglio 2007)
VARSAVIA - Succede di tutto ai gay in Polonia. Anche di vedersi consigliare il veterinario per un controllo medic o. Racconta Lech Wojtewski, 23 anni: «Ho appuntamento dal dermatologo. Mi degna appena di uno sguardo e mi congeda suggerendomi uno specialista adatto a "gente come me". Mi reco al nuovo indirizzo e scopro che ospita l’ambulatorio di un veterinario. Richiamo il medico che mi apostrofa seccato: sei un animale, cosa ti aspettavi?». Marta Abramowicz aveva tutte le carte in regola per fare l’assistente alla facoltà di Psicologia all’Università di Varsavia: «Finché non hanno scoperto che ero impegnata nella campagna contro l’omofobia e mi hanno sbattuto la porta in faccia. Succede a Varsavia, immaginatevi in periferia. Sono pochissimi coloro che rivelano la loro omosessualità. Se lo fai rischi di perdere il posto di lavoro, di essere cacciata di casa ed esclusa dall’eredità».
Perseguitati, discriminati nel lavoro, vittime di un clima di odio e intolleranza, i gay lasciano la Polonia del governo omofobo dei gemelli Kaczynski. Robert Biedron, presidente della Fondazione polacca contro l’omofobia, calcola che negli ultimi anni quasi centomila fra gay e lesbiche hanno lasciato il Paese. «Se ne vanno in Gran Bretagna e Olanda per legalizzare le loro unioni, ma soprattutto - dice - perché qui l’aria si è fatta irrespirabile, specie dopo l’ascesa al potere dei gemelli Kaczynski. Quando l’odio viene instillato giorno dopo giorno e i gay presentati come nemici della famiglia e un pericolo per la società, è chiaro che la situazione non può che peggiorare ». Anche se quest’anno i gay hanno potuto organizzare la loro parata - «una specie di corteo funebre, non certo le carnevalate che si vedono da voi» - per le strade della capitale, grazie alla decisione della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo che ha vanificato gli sforzi di chi (ed erano in molti, compreso il nuovo sindaco di Varsavia, l’ex governatore della Banca nazionale Hanna Gronkiewicz-Waltz) intendeva bloccarla.
Aggressioni, umiliazioni, pestaggi, intimidazioni: dai dossier che la Fondazione contro l’omofobia ha trasmesso all’Unione Europea e ad Amnesty International emerge un quadro da Medioevo. Dalle violenze fisiche su cui la polizia non indaga perché chi le ha subite ha «paura del ridicolo » e non le denuncia, ai libri di testo nelle scuole in cui l’omosessualità viene descritta come una deviazione che può causare malattie mentali. Dai libelli diffusi dall’ultradestra cattolica che bollano gli omosessuali come «inviati del demonio con l’obiettivo di distruggere la Chiesa», alle assoluzioni negate in confessionale a «peccatori bisognosi di cure mediche».
E il governo non fa nulla per combattere abusi e pregiudizi. Anzi. Per il presidente Lech Kaczyns ki, mostrarsi tolleranti con i gay significherebbe «aiutare la civiltà a disgregarsi». Ma è la Lega delle famiglie polacche, il partito dei cattolici radicali e antisemiti, a guidare la crociata contro i «pervertiti».
La comanda Roman Gyertich, il vicepremier nonché ministro della Cultura che vorrebbe bandire dalle scuole Kafka, Dostoevskij, Goethe e Witold Gombrowicz (quest’ultimo per «istigazione alla pederastia ») e che si sta battendo per far passare una legge che vieta la propaganda dell’omosessualità nelle scuole e prevede pesanti sanzioni, compreso il licenziamento, per gli insegnanti che confessano di essere gay. A lui si deve la massima «se diamo i diritti ai gay fra non molto dovremo riconoscerli anche alle scimmie». Un suo stretto collaboratore, Wojciech Wierzejski, ha esortato ad usare le maniere forti: «Verranno dei politici tedeschi alla marcia dei gay? Vuol dire che sono gay anche loro. E allora picchiateli con un bastone sulla testa e vedrete che non torneranno più. I finocchi, si sa, sono vigliacchi per natura». «Se diamo i diritti ai gay, allora anche alle scimmie»
Pare che il ministero della Sanità abbia intenzione di monitorare il numero dei gay nel Paese e di far pubblicare una sorta di manuale per famiglie e insegnanti che aiuti a riconoscere i comportamenti omosessuali. «Siamo alle schedature o poco ci manca - insorge Biedron -, andrebbero a completare quelle fatte a metà degli anni 70 dai comunisti e di cui il potere si serve ancor oggi per ricatti ed epurazioni. Passo dopo passo arriveranno anche a proibire ai gay l’esercizio di certe professioni. Ne ha già accennato un esponente del governo mettendo in cima alla lista tutte le attività che comportano un contatto con il pubblico ».
A Biedron, 27 anni, una laurea in Scienze politiche, continuano ad arrivare e-mail gonfie di livore e insulti, quasi tutte firmate, pochi oramai si nascondono dietro l’anonimato, e dal contenuto offensivo pressoché identico: «Ehi sporco frocio, come ti va? Hai un marito e un bambino? Dovrebbero castrarti maiale. È uno scandalo che la tua organizzazione esista. Animali della tua risma andrebbero rinchiusi in un ospedale psichiatrico ».
Dall’ingresso dei Paesi post-comunisti nell’Unione Europea i gay dell’Est si aspettavano la fine dell’emarginazione e della clandestinità a cui li aveva condannati la dittatura. Di tanto in tanto da Strasburgo arrivano reprimende e moniti indirizzati a Varsavia, ma non basta. «Bruxelles per il momento ci offre soltanto un sostegno spirituale - afferma il leader della campagna contro l’omofobia -, quando senti il primo ministro dire che l’omosessualità va curata, magari con la forza, ti corrono i brividi per la schiena. I gemelli Kaczynski vorrebbero esportare la loro rivoluzione morale in Europa rinchiudendoci nella civiltà della morte che Papa Wojtyla contrapponeva alla civiltà dell’amore. L’Unione Europea può far molto, ma prima devono cambiare il clima e la mentalità all’interno del Paese e deve essere debellata l’ignoranza che raffigura i gay come malati da curare e guarire».
«No all’imperialismo della chiesa»: chi è il cavallo pazzo Palikot
di Mauro Caterina (il manifesto”, 08.10.2010)
Quando Janusz Palikot dice qualcosa, il giorno dopo scorrono fiumi di inchiostro sui giornali e nei talk show televisivi. Certo la sua è una delle facce più conosciute della politica polacca. I suoi detrattori lo dipingono come un arrogante, presuntuoso, un fenomeno da baraccone, un pagliaccio della politica, come quando nell’aprile 2007 si presentò in una conferenza stampa con una pistola e un vibratore che, secondo lui, rappresentavano i simboli moderni di Legge e giustizia, il partito ultra-conservatore dei gemelli Kaczynski.
Per i suoi estimatori, invece, Palikot è un cane sciolto, un provocatore, uno che parla chiaro. Imprenditore di successo, 46 anni, laureato in filosofia all’università cattolica di Lublino, Janusz Palikot è stato eletto deputato al Sejm (il parlamento polacco) per due volte tra le fila del partito di governo Platforma Obywatelska (Po) nel 2005 e nel 2007, e fino a sabato scorso ne rappresentava l’anima progressista e «liberal». Fino a sabato scorso, appunto, quando pubblicamente, davanti a 3000 persone, ha detto di voler abbandonare il partito guidato da Donald Tusk, premier e leader del Po, e lasciare il seggio parlamentare a dicembre, subito dopo le elezioni regionali.
Durante il meeting, nel quale c’è stata anche la presentazione ufficiale del suo «Movimento per una Polonia moderna», Palikot ha accusato il Po di essere troppo conservatore sulle questioni sociali: «La priorità per noi adesso è quella di separare gli affari della chiesa da quelli dello Stato».
Secondo Palikot in Polonia non c’è una chiara divisione tra lo Stato e la chiesa, e il suo «Movimento» combatterà contro quello che lui chiama «l’imperialismo della chiesa». Parole forti, in «stile Palikot», che hanno scatenato polemiche e reprimende anche dai suoi (ormai ex) compagni di partito.
Ma le sorprese non sono finite. Qualche giorno fa dalle pagine del suo blog ha annunciato che non aspetterà dicembre per dimettersi dal parlamento e dal partito. Una mossa che rischia di mettere in difficoltà il Po in vista della campagna elettorale per le regionali. Sul blog anche alcuni punti del programma politico del «Movimento», che verranno discussi e implementati dai simpatizzanti durante i 16 meeting regionali previsti per i prossimi mesi.
Primo, chiede la fine dell’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche e la revoca dei sussidi statali alle istituzioni ecclesiastiche, poi viene il libero accesso ai contraccettivi e la regolamentazione delle coppie di fatto, eterosessuali, omosessualli o lesbiche.
I sondaggi lo danno tra il 4 e il 10%. Numeri che fanno rizzare i capelli a Tusk e Napieralski, leader del partito socialdemocratico polacco (Sld). Palikot, infatti, pescherebbe consensi da ambo le parti e darebbe una rappresentanza politica ai tanti giovani delusi dalla condotta del governo e dall’inerzia dell’opposizione. Tirate le somme, il nuovo partito si propone, anzitutto, come difensore delle minoranze e paladino dei diritti civili, oltre a confermarsi la bestia nera del kaczismo e delle gerarchie ecclesiastiche.
Tutto ciò, per la Polonia di oggi, non è cosa di poco conto. A proposito dei Kaczynski, vale la pena ricordare alcune memorabili prese di posizione di Palikot verso i «gemelli terribili»: quando in un’intervista nel 2008 definì l’allora presidente della repubblica Lech Kaczynski (scomparso nella tragedia di Smolensk lo scorso 10 aprile) «un uomo primitivo e rozzo», beccandosi una denuncia per vilipendio delle istituzioni; o quando il 5 luglio scorso, appena un giorno dopo il secondo turno delle presidenziali vinte da Komorowski su Jaroslaw Kaczynski, si scagliò contro i vertici del Po con queste parole: «Non possiamo permettere a Jaroslaw di alimentare la retorica nazionalista facendo del fratello Lech un eroe e un martire della patria. Non si può chiamare eroe e martire chi è responsabile della morte di decine di persone e ha le mani piene del sangue delle vittime del disastro». Un avallo esplicito della tesi secondo cui sia stato proprio Lech Kaczynski a dare l’ordine di atterrare al pilota. Da oggi la politica è più frizzante.
La maledizione di Katyn
di ENZO BETTIZA (La Stampa, 11/4/2010)
Secondo Lech Walesa questa tragedia equivale a una «seconda Katyn», una «seconda decapitazione», un «secondo annientamento delle élite polacche». Si potrebbe anche aggiungere che equivalga all’ennesima maledizione che l’antica e nobile nazione slava ha continuato a subire fin dal 1772, l’anno della prima spartizione fra Russia, Prussia e Austria. I tentativi, compiuti dai potenti vicini, di eliminare la Polonia dalla faccia dell’Europa sono stati permanenti e spesso atroci per oltre due secoli. La verità sull’eccidio perpetrato dai russi nel 1940, di cui le fosche foreste di Katyn sono diventate il simbolo estremo, è riemersa in un’eco esponenziale da un ambiguo silenzio attraverso il cortocircuito tra due fatti accaduti, questa settimana, l’uno dopo l’altro.
Giovedì: l’incontro clamoroso a Katyn fra il primo ministro Putin e quello polacco Tusk, in cui abbiamo visto l’erede dei carnefici e l’erede delle vittime rendere omaggio, insieme, alla memoria di ventiduemila polacchi trucidati soltanto perché polacchi. Sabato: il funesto disastro aereo che nei pressi di Katyn uccide il presidente polacco, Lech Kaczynski, insieme con la moglie e un seguito di 94 personaggi di forte rilievo, ministri, economisti, militari, prelati, figli e nipoti delle vittime. Insomma il bulbo o quasi dell’attuale classe dirigente di Varsavia. Ha detto il fondatore di Solidarnosc ed ex presidente Walesa: «Una pesante perdita per la nazione: è morta ancora una volta la sua élite». Ed è morta fatalmente, come in un magico paradigma d’eterno ritorno, nella stessa provincia russa in cui fu sterminata la prima.
Non a caso a Varsavia, a prescindere dal giudizio ideologico sui deceduti, l’impatto della sciagura sta provocando sulle masse una commozione viscerale profonda, da catastrofe nazionale, con assembramenti carichi di tensione psicologica attonita e nervosa. Appaiono qua e là cartelli segnati da un paragone disperato: «Katyn 1940 - Katyn 2010». Se dalle due tragedie polacche, dalla passata e dalla presente, si può trarre una qualche consolazione, essa soprattutto risiede nel fatto che il nome e la verità di Katin, di cui le ultime generazioni europee non sapevano nulla, stanno facendo in queste ore il giro del mondo. Su uno dei più malefici crimini del Grande Terrore dell’era staliniana, negato e mistificato per mezzo secolo dai russi, addossato alle truppe tedesche, rimosso ostinatamente dalle sinistre europee, il mondo e in particolare i giovani ignari non possono più chiudere gli occhi.
Fino alla caduta del comunismo, i sovietici avevano tentato di confondere le carte asserendo che il massacro era stato consumato dai nazisti in una località bielorussa chiamata Hatyn pressoché omonima di Katyn. No. Adesso, più che mai, anche quelli che non volevano sapere sanno che di Katyn ce n’è una sola. Su un piano strettamente politico, meno fatalistico ed emotivo, restano però in piedi alcune domande cui non si può fare a meno di tentare una prima risposta. Perché mai, per la commemorazione in territorio russo di un evento così grave, coinvolgente la memoria collettiva di un popolo perseguitato dalla storia, è stata presa a Varsavia la strana decisione di inviare sul luogo due separate delegazioni ufficiali e non una sola? Perché, in una circostanza storica così incisiva e dolente per la Polonia, il capo dello Stato e il capo del governo, con i rispettivi seguiti, non sono partiti insieme alla volta di Smolensk e di Katyn? Oppure, perché si sono incontrati per primi i capi dei due esecutivi, Tusk e Putin, e non i due presidenti Kaczynski e Medvedev? Le risposte che si possono dare sono multiple e tutt’altro che semplici.
Anzitutto, chi era il defunto Kaczynski? A suo tempo sindaco popolare di Varsavia, anticomunista di ferro, filoamericano profondamente ostile ai russi, gemello dell’ex primo ministro Jaroslaw, leader del partito populista di destra Diritto e Giustizia, egli non amava né il conservatore pragmatico Tusk né tanto meno il gelido «uomo della forza» Putin. Essi, a loro volta, non lo amavano per niente. La Piattaforma Civica di Donald Tusk, movimento di destra moderata, era, è e sarà nelle prossime anticipate elezioni presidenziali il principale rivale del partito estremista di Jaroslaw Kaczynski. È possibile che questi, assomigliando fra l’altro come un clone da laboratorio al defunto gemello, ponga la propria candidatura di successore biologico nonché ideologico alla suprema carica. Si sa, d’altronde, che alla destra più nazionalista non è mai andato a genio il pragmatismo con cui Tusk persegue una normalizzazione realistica nei rapporti con la Russia; molti, forse lo stesso presidente perito nel disastro, ne hanno criticato il cauto comportamento di giovedì a Katyn, al fianco di un Putin che non chiedeva perdono alla Polonia e metteva sullo stesso piano le vittime polacche e russe di Stalin.
Si sa anche che i russi, in particolare Putin che non desiderava incontrare Lech Kaczynski, avevano posto diversi ostacoli diplomatici alla sua richiesta di recarsi a Katyn, in quanto capo di Stato polacco. Alla fine avrebbero dato l’assenso a una visita separata e posteriore a quella del premier Tusk. Per fatalità il ritardo, causando la decimazione dell’establishment al potere in Polonia, ha sùbito rievocato fra i polacchi lo spettro quasi di un secondo genocidio d’élite. Putin ha fiutato i rischi, anche internazionali, di una situazione incandescente, ed è per questo probabilmente che ha voluto assumere la guida in persona della commissione d’inchiesta sulla sciagura. Cercherà ora di coronare il ruolo e l’immagine del pompiere rincontrando, sempre a Smolensk, l’omologo Tusk.
Il destino di una nazione
di LUCIO CARACCIOLO *
"IL CAMPO da gioco di Dio". Così Norman Davies volle titolare i due volumi oxfordiani della sua "Storia della Polonia", lo standard in materia. Qualcosa di davvero soprannaturale sembra segnare il destino della nazione polacca, almeno dall’avvento di papa Karol Wojtyla in avanti. La tragedia consumata ieri mattina in un bosco nebbioso presso l’aeroporto russo di Smolensk è talmente carica di simbolismi da scuotere gli animi più disincantati.
Quattro coincidenze fanno pensare. Cominciamo dalla più palese. A bordo del reattore presidenziale di fabbricazione sovietica - cui Kaczynski pare fosse molto affezionato, tanto da ritardare l’avvicendamento con un jet più moderno - i più alti rappresentanti della Polonia stavano recandosi a commemorare i settant’anni dal massacro di Katyn. Qui, a pochi chilometri da Smolensk, oltre 4 mila ufficiali polacchi furono trucidati nell’aprile 1940 dalla polizia segreta (Nkvd) di Stalin, in base a un ordine firmato dal dittatore e dal politburo del Partito comunista. Altri 17 mila fra funzionari, guardie di frontiera e ufficiali dell’esercito polacco catturati dall’Armata Rossa fecero in quei giorni la stessa fine. L’obiettivo era liquidare l’élite di quello Stato che Molotov, il braccio destro di Stalin, aveva sdegnosamente classificato come "misera creazione del Trattato di Versailles".
Crimine negato dai sovietici fino alla coraggiosa ammissione di Gorbaciov, nell’aprile 1990. Crimine sul quale le autorità russe - Putin in testa - stentano tuttora ad articolare parole chiare e nette. Sicché Katyn resta oggetto di recriminazioni, sospetti e manipolazioni che tuttora minano le peculiari relazioni russo-polacche.
Legata a questa, la seconda impronta del destino: Smolensk è stata scelta ufficialmente due anni fa come una delle due sedi (l’altra è Varsavia) delle Case della storia polacco-russa. Monumenti volenterosi quanto improbabili che, sull’impulso del lavoro di un gruppo di storici, giornalisti e politici dei due paesi, dovrebbero marcare la conciliazione fra due opposte letture del passato comune. E siccome a est di Berlino, fra le nazioni strette da secoli nella morsa russo-tedesca, la storia è sempre contemporanea e quasi mai condivisa, persino questa tragedia, frutto di un banale errore umano, risveglia memorie lacerate. Già Lech Walesa parla di "secondo disastro di Katyn", tracciando una parabola impropria ma suggestiva fra il massacro staliniano e l’incidente aereo di ieri.
In terzo luogo, i cabalisti non mancheranno di osservare che il sacrificio del "gemello" Kaczynski coincide con l’avvio della costruzione dell’ardito gasdotto sottomarino Nord Stream, che connetterà Vyborg, presso Pietroburgo. a Greifswald, nel Meclemburgo, per pompare direttamente gas russo verso la Germania, scavalcando le repubbliche baltiche e la Polonia. A Varsavia l’hanno ribattezzato "gasdotto Molotov-Ribbentrop", ad echeggiare il patto tra Unione Sovietica e Terzo Reich che precedette di pochi giorni la doppia invasione della Polonia, prima tedesca e poi sovietica, nel settembre 1939.
Quarta beffa: a bordo dell’aereo presidenziale viaggiava il novantunenne Ryszard Kaczorowski, ultimo presidente del governo in esilio a Parigi e poi a Londra, che durante la seconda guerra mondiale tenne accesa la fiaccola dell’indipendenza. Quel governo della Seconda Repubblica cui Stalin impedì nel 1945 il ritorno nella Varsavia "liberata", ma che per molti polacchi, nei decenni del comunismo, rimase l’unico esecutivo legittimo. Tanto che dopo aver vinto le elezioni presidenziali nel 1990, Walesa rifiutò di ricevere le insegne del potere dal generale Jaruzelski, convocando in sua vece lo stesso Kaczorowski. Il quale dichiarava contemporaneamente disciolto il "governo di Londra", quasi che la Repubblica satellite di Mosca, quella dei Gomulka e dei Gierek, non fosse mai esistita.
Sullo sfondo di queste curiose combinazioni del destino, varrà ricordare che nessuno più di Lech Kaczynski ha incarnato la versione schiettamente reazionaria e profondamente russofoba del nazionalismo polacco. Una visione della Polonia e del mondo piuttosto influente nelle élite e nell’opinione pubblica del paese che seppe dare la spallata decisiva all’impero sovietico.
Nemmeno due anni fa, mentre fra Georgia e Russia tuonavano i cannoni d’agosto, Kaczynski capeggiò un non improvvisato "gruppo dei cinque" - con Ucraina, Lettonia, Estonia e Lituania - che smarcandosi dagli equilibrismi di Sarkozy e della Vecchia Europa si schierò a fianco di Saakashvili nella sua breve avventura contro la Russia "imperialista" e "revisionista". Per l’occasione, il presidente polacco proclamò l’"inizio della lotta" contro Mosca, quasi si augurasse che l’incendio caucasico fosse il prodromo della resa dei conti finale con l’orso russo.
Negli ultimi tempi, i sempre tormentati rapporti polacco-russi hanno segnato qualche miglioramento, di atmosfera e di sostanza. Merito soprattutto del pragmatico premier Donald Tusk, che Kaczynski non poteva soffrire. Quando fra poche settimane i polacchi sceglieranno il successore del presidente caduto nel rogo di Smolensk, sapremo se questo incidente senza precedenti - mai tanta parte dell’élite di un paese era scomparsa d’un colpo - marcherà non solo una devastante tragedia umana, ma anche il tramonto di una certa idea della Polonia.
* © la Repubblica, 11 aprile 2010
Ratzinger lo ha incontrato domenica in udienza privata a Castel Gandolfo
Per gli ebrei europei l’emittente diretta da Rydzyk è "antisemita e ultraconservatrice"
Il Congresso ebraico attacca il Papa
"Ha ricevuto il direttore di Radio Maria"
Ma un anno fa Benedetto XVI la accusava di essere "antisemita" *
ROMA - Ha tutta l’aria di un incidente diplomatico quello scoppiato tra la Santa Sede e il Congresso ebraico. Colpa dell’udienza privata che Benedetto XVI ha concesso domenica scorsa a Castel Gandolfo a Tadeusz Rydzyk, direttore di Radio Maria.
"Il Congresso ebraico europeo - è scritto in una nota dell’Associazione che riunisce le comunità ebraiche di tutta Europa - è scioccato di apprendere che Papa Benedetto XVI ha ricevuto in udienza privata e nella sua residenza estiva Tadeusz Rydzyk, il direttore dell’antisemita Radio Maryja". Ejc, acronimo del Congresso ebraico, si dice "attonito del fatto che il Papa ha concesso un’udienza privata e la benedizione a un uomo e a un’istituzione che ha appannato l’immagine della Chiesa Polacca".
Radio Maria, infatti, avrebbe "largamente trasmesso le affermazioni antisemitiche di Rydzyk". La nota del Congresso ebraico arriva dopo due giorni di polemiche in Polonia tra chi accusa il sacerdote di Radio Maria di essere un antisemita e i suoi sostenitori che hanno inteso il colloquio col Pontefice come la sua benedizione alla linea ultraconservatrice della radio.
In realtà non più tardi di un anno fa proprio Benedetto XVI prendeva le distanze dall’emittente accusandola di essere "antisemita".
Domenica scorsa a Castel Gandolfo, padre Rydzyk è stato ammesso al baciamo con il Papa al termine dell’Angelus insieme ad un folto gruppo di fedeli polacchi. Recentemente, in vista delle prossima elezioni presidenziali in Polonia, gli stessi gemelli Kaczynski sono tornati a chiedere pubblicamente l’aiuto e il sostegno dell’emittente radiofonica dei cattolici ultraconservatori e del suo controverso direttore.
* la Repubblica, 8 agosto 2007
Nota della Santa Sede dopo le proteste del Congresso europeo
Il direttore di Radio Maryja attaccato per le posizioni antisemite
"Con Rydzyk solo un baciamano
Non cambiano i rapporti con gli ebrei" *
ROMA - Nessuna udienza privata. Il Papa ha concesso solo un "baciamano" al fondatore di Radio Maryja Tadeusz Rydzyk ma questo "non implica alcun mutamento nella ben nota posizione della Santa Sede sui rapporti tra Cattolici ed Ebrei". Un comunicato della sala stampa della Santa Sede cerca di smorzare la polemica dopo che Radio Maryja aveva diffuso in Polonia la notizia di una "udienza privata" concessa da Benedetto XVI al sacerdote attaccato per le sue posizioni antisemite, e dopo le dure prese di posizione delle organizzazioni ebraiche, che avevano interpretato la presunta udienza come un passo indietro nelle relazioni ebraico-cristiane.
La visita di Rydzyk domenica scorsa a Castel Gandolfo ha già suscitato molte polemiche in Polonia, tra chi accusa il sacerdote di Radio Maryja di essere un antisemita e i suoi sostenitori, che hanno interpretato l’accoglienza ricevuta da Rydzyk come un sostegno del Papa alla linea ultraconservatrice della sua emittente.
Poi il baciamano di domenica scorsa e la protesta delle comunità ebraiche di tutta Europa che avevano sottolineato come "le affermazioni antisemitiche di Rydzyk" siano state largamente trasmesse attraverso la sua radio. Proprio per questo il Congresso ebraico si era detto stupito "dal fatto che Papa Benedetto XVI abbia concesso udienza privata e la benedizione ad un uomo e a un’istituzione che hanno macchiato l’immagine della Chiesa polacca".
* la Repubblica, 9 agosto 2007